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L’Ocse (Padoan) indica le ricette a Renzi

Delle molte chiacchiere stupide – autentici slogan senza riscontro reale – ce n’è una che ricorre da tempo nelle discussioni sui media e negli annunci dei governanti: “occorre tutelare maggiormente il reddito dei lavoratori e meno il posto di lavoro in sè”. Naturalmente, ogni volta che questa chiacchiera si è tramutata in disegni legge, abbiamo potuto registrare robuste perdite di posti di lavoro. Ma nessuna “tutela del reddito” dei lavoratori in carne e ossa.

Tranquilli, non ci siamo convertiti al post-negrismo… Semplicemente siamo obbligati a constatare che la prima cosa – togliere tutele ai “posti di lavoro”, come se stessimo parlando di sedie invece che di persone che occupano quei “posti” – riesce abbastanza facile; la seconda si rivela sempre o impossibile o da rinviare a tempi migliori. Un po’ perché cambia la “congiuntura economica”, un po’ perché la “tutela del reddito”, in assenza di un lavoro socialmente necessario, si tramuta sempre in “costi” addebitati alla spesa pubblica. La quale, in tempi di “tagli” obbligati dall’Unione Europea, non basta più nemmeno a garantire il turnover negli ospedali; figuriamoci a distribuire “reddito” ai disoccupati…

Eppure questa stronzata del “tutelare maggiormente il reddito dei lavoratori e meno il posto di lavoro in sè” torna implacabile, anno dopo anno, tra le “ricette” consigliate da economisti neoliberisti o, il che è lo stesso, da organismi sovranazionali.

Oggi tocca ancora una volta all’Ocse.

L’Italia – spiega nel rapporto ‘Going for growth’, steso dal il capo economista Pier Carlo Padoan, in predicato di assumere la carica di ministro dell’economia nel governo Renzi o, come già deciso, la presidenza dell’Istat – deve appunto “spostare la sua politica del lavoro tutelando maggiormente il reddito dei lavoratori e meno il posto di lavoro in sè” e e migliorando “la rete di supporto sociale”. Naturalmente chiede anche di “abbassare il cuneo fiscale e il costo minimo del lavoro”, indicando a Renzi quel che già si sapeva.

Non basta, l’Ocse chiede anche di riformare la contrattazione collettiva affinché la negoziazione salariale sia più “reattiva” rispetto alle condizioni del mercato del lavoro. Ovvero, privilegiando il “contratto aziendale” rispetto a quello nazionale, per definizione – e ambito di applicazione – “meno flessibile”.

Sembra di leggere l’editoriale di Giavazzi e Alesina, oggi, sul Corriere della sera. Nessuna differenza sostanziale, solo un numero di parole diverso e una successione argomentativa un po’ diversa.

L’Ocse riconosce all’Italia alcune riforme del mercato del lavoro, in particolare il ricorso obbligatorio alla “conciliazione” (invece del ricorso al magistrato del lavoro, inevitabilmente più rigoroso e meno “spinto” a compromessi ignobili) e l’introduzione graduale di una assistenza universale alla disoccupazione (cita, vergognosamente, la riforma Fornero e l’introduzione dell’Aspi in luogo della vecchia “mobilità”: quanche spicciolo in più, ma per la metà del tempo).

Ma l’organizzazione parigina ritiene, in particolare, che “una parte difficile della riforma sarà combinare con efficienza tutti gli elementi di supporto e attivazione”: in particolare il training e le agenzie di collocamento, previste a livello regionale, con la fornitura dei sussidi che avvengono invece a livello nazionale. Per ridurre i loro ritardi nella formazione, ad esempio, Italia e Portogallo dovrebbero “riformare l’educazione professionale”. Al lavoro subito, insomma, invece che a scuola…

Ma in ogni caso l’Ocse – il possibile ministro Padoan – vede nero sul futuro economico dell’Italia. “La diffusa decelerazione nella produttività dall’inizio della crisi potrebbe presagire l’inizio di una nuova era di bassa crescita”. secondo cui il calo dei tassi di crescita globale potrebbe essere diventato strutturale. “Lo slancio dell’economia globale resta debole, aumentando il timore che ci sia stata una contrazione strutturale nei tassi di crescita rispetto alla fase pre-crisi”, spiega Padoan. Queste preoccupazioni non sono più limitate ai Paesi occidentali, ma coinvolgono anche gli emergenti e “sono alimentate dall’alta disoccupazione e dal calo della partecipazione alla forza lavoro in molti Paesi”. Il che dovrebbe costituire un interrogativo pesante per la visione neoliberista, che proprio nelle condizioni di crescita degli “emergenti” (costo del lavoro infimo, massima apertura agli investimenti esteri) aveva indicato la chiave del loro successo e la possibile “cura” per le stanche economie “mature”.

Secondo Padoan “è improbabile che la creazione più rapida di posti di lavoro sia sufficiente per riportare i tassi di occupazione ai livelli pre-crisi, men che meno a livelli capaci di compensare l’impatto dell’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati”. Vi è infatti una contrazione della produttività fra i cui motivi spicca in modo “preoccupante” il “marcato rallentamento nell’attività di commercio globale”. Il commercio internazionale, infatti, oltre ad essere un fondamentale “vettore di diffusione di conoscenza e tecnologia”, è anche uno stimolo alla produttività “attraverso una più forte pressione competitiva nei mercati interni”. Ma di sviluppo del commercio, in questa fase e Cina a parte, non sembra proprio il caso di parlare. E dunque?

Padoan sottolinea che negli ultimi tre anni a fare riforme strutturali sono stati soprattutto i Paesi “entrati nella crisi con ampi deficit di bilancio”, mentre quelli in surplus sono andati più a rilento. “Lavorare sulle carenze dei mercati finanziari e ristabilire bilanci sani nel settore bancario restano in cima alle priorità” per rilanciare l’economia globale, scrive poi il capo economista dell’Ocse e presidente dell’Istat. Fuffa senza costrutto, ci vien da dire: chi li “riforma” i mercati finanziari, lo spirito santo?

Perciò, quanto a proposte concrete, si torna sempre a “privatizzazioni e liberalizzazioni”. Terreni inclinati e cosparsi di sapone su cui l’Italia ha fatto “qualche passo avanti”, come sulle “riforme strutturali”. Ma “servono ancora sforzi ulteriori”, in particolare, per Italia, Grecia e SPagna “rimane valida la raccomandazione di liberalizzare le professioni chiuse”. Avvocati di tutto il mondo, venite qui a fare arringhe in tailandese!

Per migliorare la competitività, secondo l’Ocse, l’Italia dovrebbe inoltre “ridurre le barriere alla concorrenza, aumentando l’applicazione della legge a tutti i livelli, riducendo la proprietà pubblica e i ritardi della giustizia civile”.

Pure se lo faremo, però non cambierà molto sul versante che più ci interessa: l’occupazione. Il tasso di disoccupazione in Italia è ormai “a doppia cifra”, e per ora non ci sono segni di “inversione” imminente della tendenza all’aumento. Ci aspettano infatti “Diversi anni di consolidamento fiscale” che si aggiungeranno a quelli precedenti; e “aggiustamenti nei bilanci del settore privato, bassa fiducia e disponibilità di credito ridotta [che] hanno lasciato l’Italia con un tasso di disoccupazione a due cifre e nessun segno di un’inversione rapida e autosufficiente”.

A preoccupare l’Ocse è in particolare la disoccupazione di lunga durata (un anno o più), che con la crisi è inesorabilmente aumentata: nel 2011 riguardava già oltre la metà dei senza lavoro italiani, il 51,9%, e nel 2012 ha toccato quota 53%.

Preoccupazioni tante, soluzioni nessuna, ricette controproducenti un’infinita.

 

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