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Ma cos’è il “Naspi” di Renzi?

Tutto si può dire, di Renzi, tranne che vada lentamente. Peccato che non si riesca affatto a vedere cos’è che fa mentre va.

Nulla di di analizzabile esce dalle cartelline dei suoi collaboratori, che a loro volta seminano “titoli” buoni per giornali che hanno smesso di criticare il potere (ad esempio: “mille euro al mese per chi perde il lavoro”), ma mai un progetto organico che faccia capire quale “sistema” di welfare ci sia in cantiere.

Prendiamo questo “Naspi”, che dovrebbe significare “nuovo Aspi” – l’assegno di disoccupazione disegnato dalla riforma Fornero, al momento percepito da pochissime persone, anche per la gradualità temporale della sua entrata a regime. Dovrebbe essere uno dei capisaldi del “jobs act”, così come il sedicente “contratto di ingresso a tutele crescenti” (in realtà un contratto di assunzione senza più l’art. 18, quindi con licenziabilità totale in qualsiasi momento e una piccola “mancia” per togleirti dai piedi).

Il Naspi dovrebbe sostituire – stando alle dichiarazioni – tutte le forme di ammortizzatore sociale oggi esistenti, salvo la cassa integrazione ordinaria, che viene concessa per “eventi imprevedibili” come alluvioni, terremoti e quisquilie di qeusto tipo. In pratica – sembra di capire – verrebbero cancellate contemporaneamente:

– la cassa integrazione straordinaria (per ristrutturazione aziendale o per cessazione attività)

– la cassa integrazione in deroga (per quei settori produttivi in cui non esiste la “straordinaria”)

– la mobilità

– l’assegno di disoccupazione.

Qui sorgono i primi problemi, perché si tratta di strumenti assai diversi e fin qui finanziati in modo diverso. La cig straordinaria, per esempio, è carica di aziende e lavoratori, che versano mensilmente una quouta per far fronte proprio alle “ristrutturazioni produttive”; in secondo luogo, la cig di ogni tipo contempla la conservazione formale del posto di lavoro, fino a completamento della procedura (anche se sempre più frequente che chi vien e messo in cig a “zero ore” si ritrovi alla fine licenziato, ma con un po’ di contribuzione figurativa in più, valida ai fini pensionistici).

Il meccanismo del Naspi sposterebbe invece tutto il carico sulla contabilità dello Stato; e c’è da chiedersi che fine farebbero i fondi accumulati per la cig, di origine “non statale”. Il nuovo sussidio – sempre stando ai “si dice” fatti filtrare sui giornali “amici” – sarà finanziato invece con una revisione della Cassa integrazione in deroga.

C’è poi il capitolo delle figure “coperte” con il Naspi. Il governo dice “universale per chi perde il lavoro”, ma andando nei dettagli si scopre che così non è.

“La Naspi spetterà a tutti coloro che perdono il posti di lavoro ed hanno lavorato almeno tre mesi. Durerà più a lungo, 2 anni invece che 1 o 1 e mezzo, come è ora per chi ha più di 55 anni. Per gli atipici come i lavoratori a progetto durerà invece solo 6 mesi, anche se i criteri di accesso saranno riformati per potere includere anche loro”. Messa così, è una “mobilità” più corta di quella ancora in vigore (due anni per gli under 50, tre per gli over), ma più lunga dell’Aspi forneriano. Ne manterrà comunque l’andamento “a scalare”, dai 1.000 euro mensili (a seconda dello stipendio di partenza del licenziato) a scendere col passare dei mesi.

L’idea di fondo sembra insomma quella di finanziare una leggera estensione della platea dei beneficiari dell’assegno di disoccupazione (in modo da includervi anche i precari o i lavoratori a progetto, generalmente più giovani, che abbiano avorato almeno tre mesi) tramite una riduzione della durata media del sussidio per i più anziani (che naturalmente hanno molte meno probabilità di trovare un nuovo lavoro). La differenza di spesa prevista rispetto a oggi, infatti, è di appena 1,6 miliardi in più.

Resterebbero totalmente privi di tutele, come oggi, almeno 2 milioni di disoccupati (3,3 milioni, secondo i dati Istat), altri titpi di precari, gli “autonomi” iscritti alla Gestione separata dell’Inps (le stime li danno a 1,8 milioni di persone). In totale, quasi quattro milioni senza alcun reddito.

Ma si tratta di una tutela “condizionata”. Il lavoratore che gode del Naspi non potrà rifiutare più di una offerta di lavoro, a prescindere dalle competenze possedute, dal livello salariale offerto e dalla durata del contratto. In pratica, se un imprenditore di offre 600 euro per dieci ore al giorno, magari per fare il commesso invece che il ragioniere, magari persino a 50 chilometri da casa, tu devi accettare almeno alla seconda di simili “offerte”, altrimenti perdi anche il sussidio.

Si chiama “workfare”, non più welfare. E non sarebbe nemmeno un’idea disprezzabile, se si potesse contare su minimi salariali alemno superiori al “sussidio di disoccupazione”. Altrimenti – nelle condizioni di ora – diventa un incentivo allo schiavismo sottopagato.

Buio totale, inoltre, sull’”autorità” che dovrebbe gestire il nuovo strumento. In teoria, dovrebbe esserci un coordinamento nazionale dei “Centri per l’impiego”, che attualmente gestiscono anche le pratiche per la “mobilità”. Ma una riforma del genere, se anche ci fosse un disegno razionale e ragionevole su carta, richiederebbe svariato tempo per andare a regime. Il pericolo è che tutto finisca per gravare sulle Regioni, che già ora hanno difficoltà nel gestire gli ammortizzatori sociali (soprattutto la “cassa in deroga”) a causa della riduzione dei rtasferimenti finanziari dal governo centrale.

Bisognerà attendere il testo finale del “jobs act”, naturalmente. Quello con “la ciccia”, e non soltanto “i titoli” dei vari paragrafi. Ma ogni “indiscrezione” conferma – anche nella vaghezza confusionaria degli annunci “a orologeria” – che il governo cercherà di apparire “munifico” senza regalare nulla. Anzi, risparmiando qualcosa…

 

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