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Trattato UE-Usa. Due debolezze per contrastare la Cina

In grande silenzio (mediatico), siamo già arrivati al “quarto round” della trattativa Ttip, mirata alla costruzione di un’area di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti. Non ancora un “mercato comune”, ma un deciso passo avanti in quella direzione.

Perché? Lo sforzo è di unire il più possibile due giganti in crisi per arginare la corsa del terzo in pieno sviluppo. La Cina è infatti attesa, da qui a pochissimi anni – il 2020 arriverà prima che si sia metabolizzato questo dato – al superamento degli Stati Uniti quanto a creazione di ricchezza annua. E nessuno può pensare di mantenere il controllo del pianeta senza avere anche il predominio economico.

Non è un mistero che gli Stati Uniti – al di là dei dati spesso truccati sulla propria “crescita” (usano metodologie statistiche diverse da quelle del resto del mondo, tra le altre cose) – stiano dal 1971 campando a spese del resto del mondo. Da quando hanno infatti abolito il “gold exchange standard”, unilateralmente, hanno preso a “stampare dollari” in quantità industriale, confidando che il resto del mondo li avrebbe accettati come “segno della potenza” statunitense, più che come “segno di valore”. Una moneta, del resto, funziona solo come equivalente di una “fiducia” generale; ognuno l’accetta sapendo – o sperando – che altri faranno lo stesso. Se grandi soggetti economici cominciano a mostrarsi meno “fiduciosi”, allora anche quella moneta comincia a perdere forza. Il dollaro è su questo orlo; la Cina ha deciso di averne un po’ meno nelle proprie riserve valutarie, la Russia potrebbe fare lo stesso se scattassero “sanzioni” euro-statunitense col pretesto dell’Ucraina, l’Iran già cerca di vendere il proprio petrolio in euro o yuan, ecc.

In ogni caso, l’incertezza sul rapporto tra quantità di dollari in circolazione e il loro effettivo “valore” è una tarlo ben presente nella mente di chi opera sui mercati.

Sull’Unione Europea, inchiodata nella stagnazione e tormentata da un’”austerità” che non serve più neppure agli interessi tedeschi, abbiamo già scritto troppe volte per tornarci sopra anche qui. La via del “matrimonio di convenienza” segna funque in qualche modo obbligata, anche se faticosa e un po’ schifata (la disinvoltura statunitense sul cibo, per esempio, non piace quasi a nessuno, da questa parte dell’oceano). Ma avviene per ragioni politico-strategiche, non in primo luogo economiche.

Questo articolo da IlSole24Ore evidenzia, con un po’ di reticenza, come gli “effetti economici” del mercato unico non siano poi così entusiasmanti, specie dal alto europeo. Anche sul piano occupazionale, la previsione che questa integrazione potrebbe creare 300.000 posti di lavoro in più – divisi in parti ineguali tra Europa e Usa! – non sembra davvero qualcosa di miracoloso. Né che equilibri gli inconvenienti complessivi (Ogm compresi).

Se è così, il Ttip è il classico trattato che lega di malavoglia due partner costretti a volersi bene per nuocere al terzo. Non una “scossa”, insomma, per restare al linguaggio in voga in questi giorni. Ma comunque un segnale di guerra.

 

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Usa-Ue la vera sfida al Dragone cinese

di Adriana Cerretelli

C’è chi, proiettando le tendenze dell’ultimo decennio sul prossimo, prevede entro il 2020 il grande balzo in avanti della Cina sulla scena mondiale con il sorpasso degli Usa, l’Europa alle corde e comunque ormai legata a doppio filo commerciale a Pechino (si veda Il Sole 24 Ore del 27 febbraio).
Altri, invece, partendo da cifre e fatti inoppugnabili, scommettono sulla carta dell’economia transatlantica come unica risposta forte alle nuove sfide dell’era globale.
Europa e Stati Uniti insieme per tener testa al dragone e contenerne gli ardori. In gergo si chiama Ttip, Partnership transatlantica su commercio e investimenti, la ricetta per crescere di più e competere da posizioni di maggior forza con gli emergenti.
Avviata nel luglio scorso, l’iniziativa è già al quarto round negoziale che si conclude oggi a Bruxelles. Non è una strada in discesa, ma si vorrebbe concludere in fretta, entro fine anno. Il potenziale di un accordo è talmente invitante che dovrebbe aiutare a superare molte divergenze.
In un’economia transatlantica che è già la più grande e ricca del mondo, vale più del 50% del Pil mondiale in valore e il 40% in termini di potere di acquisto, movimenta 5 trilioni di dollari di scambi commerciali all’anno e occupa oltre 15 milioni di lavoratori, si calcola che il patto potrebbe carburare la crescita su ciascun lato dell’Atlantico di altri 100 miliardi di dollari annui. Con tutti i nuovi posti di lavoro del caso.

Forse ancor più del fatto che Usa e Ue sono la prima fonte e destinazione dei rispettivi investimenti diretti all’estero, quello che colpisce nell’ultimo studio, appena pubblicato, su L’economia transatlantica 2014, è il forte grado di interdipendenza reciproca che oscura le “ombre cinesi” che tormentano l’immaginario in Occidente.
L’Europa, per esempio, dal 2000 a oggi ha attirato il 56% degli investimenti globali Usa contro l’1,2% della Cina. In Irlanda gli americani hanno investito il sestuplo, in Olanda il quadruplo che a Pechino. La Gran Bretagna da sola ha assorbito il triplo degli investimenti Usa diretti nei Bric, cioè in Cina, India, Russia e Brasile messe insieme. La Germania ha incassato più di tutta l’America centrale, Messico compreso. L’Italia, con 34,5 miliardi, più dell’India (27,7). Per le società Usa l’Europa è la principale fonte di profitti esteri, 230 miliardi di dollari nel 2013, il 57% del totale, più di quanto abbiano fruttato Asia e America Latina insieme. Nonostante la crisi dell’euro abbia falcidiato gli investimenti europei negli Stati Uniti, questi restano comunque il quadruplo di quelli cinesi. E si potrebbe continuare a lungo sciorinando cifre.
Non c’è niente da dimostrare, in fondo, sulla profondità dei legami economici transatlantici che esistono da tempo e prosperano allegramente. C’è invece da sfruttare, meglio di quanto non si sia fatto finora, il loro enorme potenziale.

Dopo aver a lungo snobbato la vecchia Europa, tutto assorbito dal Pacifico, il presidente Barack Obama, che il 26 marzo sarà a Bruxelles per il vertice Ue-Usa, si è ricreduto. Ha capito che solo creando un solido mercato transatlantico, da 800 milioni di persone con alto potere di acquisto e di innovazione tecnologica, in grado di fissare norme e standard mondiali, avrebbe potuto tener testa al rimescolamento di equilibri di potenza sulla scena globale.
Il negoziato continua ma gli ostacoli da superare sono immensi, tanto che c’è chi teme che alla fine la montagna partorirà un topolino. L’Europa ha paura di uscire schiacciata dal braccio di ferro con gli americani, un po’ come il junior partner anche se è il più “vecchio”. Poi ci sono gli scontri cultural-economici sulla carne agli ormoni, sugli Ogm e il cibo-Frankenstein, in breve sugli standard di sicurezza alimentare, di tutela dei consumatori. E della privacy, dopo gli scandali sullo spionaggio dei cittadini americani.
«Non passeranno», giura Karel De Gucht, il negoziatore europeo. Ma gli americani da sempre interpretano le preoccupazioni Ue come una forma mascherata di protezionismo: non capiscono perché gli europei mangino di gusto le loro bistecche a New York ma poi ne vietino l’import. Bisognerà trovare un modo per intendersi. Questa volta con il Ttip si gioca una partita strategica a lungo termine, il posto dell’Occidente nei futuri equilibri globali, non un semplice accordo commerciale. Nessuno può permettersi il lusso di arrendersi alle difficoltà.

 

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