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L’uscita dalla deflazione si chiama guerra

Ci sono articoli che spiegano meglio di altri la situazione del mondo. Appaiono in genere quando la maturità dei fenomeni consente di portare in evidenza lo stato delle cose, liberando la fotografia da tutte quelle macchie che nascondevano i contorni.

È il caso di questo articolo di Marcello De Cecco, sull’inserto “Affari&Finanza” di Repubblica. Un pezzo clasicamente keynesiano e drammaticamente consapevole che anche le politiche keynesiane, oggi, resterebbero inefficaci.

In primo luogo per la dimensioni dei mercati finanziari globali, straordinariamente più grandi e interconnessi di quanto non fossero quasi un secolo fa. In secondo luogo per l’inesistenza di uno “Stato gobale” in grado di agire investendo nell’economia. In terzo luogo, per il predominio ancora esercitato da teorie economiche smentite dai fatti (impagabile la disamina critica dei “monetaristi doc”), ma che inchiodano le istituzioni europee ancora per molti anni a venire a “scelte automatiche” che sono la malattia, non la soluzione. I trattati e le stesse istituzioni continentali sono stati infatti disegnati su presupposti totalmente sbagliati, ma qualcuno ci sta guadagnando – anche se sempre meno e ormai a rischio di andare in perdita, coma la Germania – e non sembra disposto a rinunciare alla posizione di vantaggio.

L’idea che torna è dunque quella dell’intervento “fine di mondo”, con grandi lavori pubblici e milioni di uomini (decine di milioni, su scala europea) messi al lavoro per disincagliare i consumi di massa e quindi restituuire un mercato a merci ormai facili da produrre ma impossibili da vendere.

Ma c’è un però. La tecnologia ha corso molto, da un secolo a questa parte. I lavori pubblici degli anni ’30 si facevano con pala e piccone; per fare una strada o una ferrovia servivano centinaia di migliaia di sterratori “a mano”. Oggi bastano un po’ ruspe, un paio di “talpe” e qualche decina di camion per il movimento terra. Diciamo mille persone al massimo?

Ma lo stesso gap tecnologico vale in ogni ambito della produzione, sia materiale che “immateriale” (le professionalità informatiche sono ormai afflitte da tassi di soccupazione molti simili a quelle del lavor manuale; la maggior parte delle routine possono ormai essere scritte da macchine invece che da esseri umani, ecc). Si chiama “disoccupazione tecnologica” e – in un’ottica socialista e comunista – sarebbe la premessa necessaria per la riduzione drastica dell’orario di lavoro. Certo, è anche la premessa per abbattere drasticamente i profitti aziendali. Ma le due cose – sviluppo capitalistico dell’economia e aumento dell’occupazione generale – ormai non stanno più insieme. La deflazione dice sostanzialmente questo.

Possiamo sta certi, invece, che – in assenza di spinte rivoluzionarie verso un rovesciamento di sistema – ogni area monetaria o continentale si muoverà “keynesianamente” ma in modo reciprocamente competitivo, “sviluppando” altra capacità produttiva in eccesso e cercando uno sfogo nella conquista di mercati altrui.

Ci siao già passati diverse volte, come umanità: si chiama guerra mondiale.

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Yellen e Draghi la difficile terapia per il rigor mortis della deflazione

Gli economisti monetari avevano collegato l’aumento della massa monetaria all’inflazione e la sua diminuzione alla deflazione. Una teoria fallace. una soluzione potrebbe essere far arrivare denaro all’economia senza l’intermediazione finanziaria

Marcello De Cecco

Si può portare un cavallo al fontanile ma non lo si può costringere a bere. È più efficiente tirare una corda che spingerla. Proverbi a tutti noti. Sono le immagini più spesso evocate per mostrare la differenza essenziale tra inflazione e deflazione, tra aumento dei prezzi e loro diminuzione. Gli economisti monetaristi, che hanno tenuto banco negli anni 70-80 quando imperversava l’inflazione a due cifre, hanno contribuito non poco a confondere le idee alla gente e in particolare a politici e banchieri, affermando che i due processi, inflazione e deflazione, sono entrambi conseguenza diretta dell’aumento della massa monetaria il primo e della sua diminuzione il secondo. Innanzitutto non è certo che i movimenti dei prezzi siano conseguenza di movimenti nella massa monetaria nello stesso senso.

La supposta simmetria tra i due processi è fallace. Nell’ultimo decennio, a fronte di aumenti massicci della massa monetaria, i prezzi non si sono mossi nella stessa direzione: hanno invece iniziato un rallentamento inesorabile. Quelli di alcuni beni importanti come alimentari e molti servizi sono aumentati. Altri come elettrodomestici e prodotti e servizi elettronici, sono diminuiti in maniera drammatica. La media si è quindi mossa poco. Così l’aumento di massa monetaria è andato a gonfiare a dismisura i prezzi delle attività finanziarie e le dimensioni dell’intero sistema finanziario mondiale. In concomitanza con aumenti continui e massicci della massa monetaria, il livello generale dei prezzi è aumentato prima di poco.

In anni più recenti, l’incremento ha cominciato a decelerare e nei tempi recentissimi quasi a fermarsi e a trasformarsi in una diminuzione, come è accaduto già in Grecia e Spagna. Negli Stati Uniti se non si sono ancora raggiunti valori negativi, gli aumenti dei prezzi sono di poco superiori allo zero. Eppure è proprio lì che la massa monetaria è stata fatta crescere più massicciamente. Gli Usa sono stati i primi a gettare moneta nel sistema finanziario come acqua sul fuoco e sono in effetti riusciti a spegnere almeno la parte evidente dell’incendio finanziario che stava portando al crollo dell’intero sistema economico americano e mondiale.

L’economia reale americana, sotto la spinta di dosi massicce di nuovi lavori pubblici attivati per contrastare la depressione che si paventava dopo la crisi, è tornata per breve tempo a crescere ai ritmi pre-crisi ma subito dopo si è infiacchita. E la disoccupazione, che era aumentata a livelli enormi, ha iniziato a diminuire ma a tassi inferiori a quelli che caratterizzarono tutte le fasi di ripresa precedenti. Il mercato del lavoro Usa si è ristretto con l’uscita di milioni di disoccupati che hanno smesso di cercare lavoro, mentre altri milioni lo cercano ancora senza trovarlo. La disoccupazione di lungo periodo e i lavori precari e malpagati sono aumentati anche durante la ripresa.

C’è un rituale che si rispetta in tutti i casi di cambio al timone della Fed, specie se il nuovo arrivato ha fama di essere liberal: deve mostrare i muscoli e può farlo solo con una politica restrittiva. Ma non c’è bisogno di farla, basta annunciarla. I mercati sulle dichiarazioni del capo della Fed impostano le proprie operazioni. Quindi, sulla scia del suo predecessore che voleva lasciare di sé un’immagine di virile rigore tirando le redini non appena il cavallo dava segno di passare a un pur modesto trotterello, le prime affermazioni di Janet Yellen sono state un po’ in contrasto con la sua fama di liberal. Ma lo stereotipo che i media hanno trasmesso della Yellen ha avuto sui mercati l’effetto di rafforzare il rigore imminente evocato da Bernanke prima di uscire di scena. Così gli speculatori si sono affrettati a dare ai trader ordini di ritiro dai mercati emergenti e di investimento su quelli sviluppati. Di fronte al perdere di slancio della ripresa, la povera Yellen è stata costretta a trasmettere un nuovo messaggio, che si decrittava come “sono sempre la stessa, mi sta a cuore la sorte dell’uomo o della donna comune che soffre a causa della deflazione e voglio che trovino di nuovo una occupazione stabile e ben pagata”, riferendosi persino a persone presenti in sala con nome e cognome. Vedremo se questa nuova immagine della Yellen basterà a battere quella precedente e a spronare l’economia americana alla ripresa dando fiducia a investitori, finanziatori, specie di mutui edilizi, e consumatori.

In Europa, dove la deflazione è più pronunciata che in America, il nuovo messaggio mediatico della Fed deve riuscire a battere un’immagine opposta, quella che credibilmente hanno dato insieme Merkel e Bundesbank. Quel che è certo è che i discorsi ‘col cuore in mano’ di Janet Yellen dovranno essere molto convincenti per battere quelli della Merkel con l’elmo a chiodo. Verso la deflazione in Europa spinge la realtà istituzionalmente stabilita delle modifiche costituzionali, dei “patti fiscali” e dei trattati internazionali come lo statuto della Bce, ma anche la previsione degli effetti che avrà la regolazione unica delle banche europee ora in costruzione.

Tutti in Occidente e in particolar modo in Europa, persino in Germania e negli altri Paesi creditori, sono in grado di vedere coi propri occhi la deflazione che avanza e stabilisce sulle economie un progressivo rigor mortis. Il flebile movimento che il corpo fiaccato delle economie europee sembra mostrare in questi giorni non deve illudere. E’ l’equivalente di quel che è accaduto negli Stati Uniti: la prospettiva di fondo, prezzi fermi o addirittura in ribasso, gela nel lungo andare le intenzioni positive mostrate dalle imprese riguardo agli investimenti e alla forza lavoro.

Negli Stati Uniti, ma anche altrove in Occidente, continua intanto a crescere la disuguaglianza, che imperversa da un trentennio. E ci si chiede come farà l’1% della popolazione a consumare tutto ciò che produrrà un’industria col potenziale di quelle americana ed europea. I grandi economisti che si formarono negli anni 20 e 30 sapevano bene che uno dei maggiori misteri dell’economia era come, perché e quando si fermava il circolo vizioso della deflazione. Con un sistema finanziario speculativo ancor più rigoglioso di quello dei loro tempi, oggi non vale nemmeno la “formula della disperazione” escogitata da Keynes contro la preferenza per la liquidità: vogliono carta e dunque diamogliene quanta ne vogliono. Stampiamo moneta e prima o poi i prezzi ricominceranno a salire, le prospettive di investimento volgeranno al bello, salirà l’occupazione e i cittadini riceveranno di nuovo credito dalle banche da spendere in beni di consumo e mutui per comprare case.

Ma in Europa le istituzioni di cui ci siamo dotati sono disegnate proprio per contrastare queste cure da cavallo. Ora le nuove istituzioni comuni di controllo si apprestano a esaminare con rigore i conti delle maggiori banche. Questo ha già avuto un effetto-annuncio importante: le banche hanno preceduto i controlli chiedendo di rientrare a clienti ai quali hanno avevano concesso credito su previsioni aziendali ottimistiche, svanite con la crisi. L’effetto restrittivo di tale diminuzione del credito è stato pesante e non è esaurito. Da qui la decisione del consiglio di gestione della Bce, giovedì, di tenere fermi i propri tassi di riferimento per la quinta volta, e di Mario Draghi di far chiaramente capire, nella sua introduzione scritta e nella conferenza stampa successiva alla riunione del consiglio, che la Bce è tanto preoccupata dalla situazione europea da prepararsi a ridurre ulteriormente i tassi.

A tenere il dito nella diga dell’austerità è ormai rimasto il solo capo della Bundesbank, abbandonato dagli altri falchi che ormai sembrano ogni giorno più convinti dal comportamento delle loro economie nazionali a trasformarsi in colombe. Ma anche in Germania si è appena introdotto da parte del governo un aumento – anche se a scoppio ritardato – del salario minimo di quasi il 10% e fa una certa impressione apprendere che esso si applicherà a ben cinque milioni di lavoratori tedeschi. Il povero Weidman si troverà presto, se non sta attento, a essere considerato come l’ultimo giapponese della seconda guerra mondiale.

I mercati sembrano ancora credere a Draghi e lo hanno mostrato facendo scendere subito il tasso di cambio dell’euro dal livello letale al quale si era attestato. Ricordiamo però che per ribaltare veramente e durevolmente le aspettative di imprenditori e consumatori e dare un colpo decisivo alla disoccupazione europea potrebbe essere necessario ricorrere al “deterrente ultimo” suggerito da Keynes e applicato prima da Hitler e poi dalle democrazie: il ricorso a lavori pubblici massicci e prolungati, che aumentino direttamente occupazione, massa salariale e investimenti senza ricorrere alle intermediazioni finanziarie.

Per gli economisti tradizionali è l’arma della fine del mondo del dottor Strangelove, e infatti in Europa ad essa si fece ricorso solo dopo che l’economia capitalistica degli anni venti si era autodistrutta.

 

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