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Il governo dà i numeri, oggi

Oggi il governo presenta il Def, il Documento di economia e finanza che deve dar conto delle stime del governo sull’economia italiana per quest’anno; nonché delineare il “Programma nazionale di riforma” e e quindi anche gli interventi sull’Irpef, sull’Irap e sul taglio alla spesa pubblica.

In teoria, le chiacchiere e gli annuci dovrebbero lasciare il posto ai numeri “certi” e quindi alle “coperture vere”. Non bisogna infatti dimenticare che – una volta vincolati al perseguimenti del “pareggio di bilancio” e al rientro dal debito, con ulteriori vincoli da rispettare come il 3% nel rapporto tra deficit e Pil – ogni voce di spesa in più va “coperta” con tagli ad altre voci. Si tratta insomma di decidere a cosa si rinuncia per avere che cosa.

E qui il governo è già in difficoltà. Il solo “taglio del cuneo fiscale” – la differenza tra lordo e netto in busta paga – se si dovesse rispettare la promessa inziale di Renzi (“80 euro in più al mese”), comporta ,imori entrate statali per circa 6,6 miliardi nel 2014. Ma Carlo Cottarelli, avrebbe trovato risorse da tagliare soltanto per 3,5-5 miliardi. Inevitabile, dunque, abbassare il livello della promessa: o meno euro a testa per i 10 milioni di lavoratori dipendenti con reddito lordo tra gli 8.000 e i 25.000 euro annui, oppure 80 euro per meno gente (verosimilmente per i redditi più vicini alla soglia massima).

Stesso discorso per il taglio dell’Irap alle imprese. Il 10% di riduzione costa 2,6 miliardi di minori entrate, ma la copertura indicata inizialmente (l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie) ne garantisce poco più della metà. Probabile dunque che il taglio sia solo del 5%, con ovvi mugugni di Confindustria, che chiedeva molto di più (addirittura l’abolizione totale!). E bisogna ricordare che è con l’Irap che viene finanziata la spesa sanitaria: ogni “ritocco” qui incide percià sulla tenuta del sistema sanitario nazionale, già destabilizzato da anni di riduzioni “lineari”.

Sul piano delle previsioni, le stime ipotizzate sono parecchio ottimistiche: +0,8% di “crescita” del Pil e deficit contenuto dentro il 2,6%. Ma va sottolineato che il Def è un “documento programmatico” destinato a numerose correzioni e riscritture – soprattutto da parte dell’Unione Europea, che da quest’anno allarga i sui poteri di controllo per l’entrata in vigore del trattato “Two Pack” – o addirittura a rovesciamenti completi, a seconda di come si sviluppa la congiuntura.

Dove si reperiranno le risorse? Dove ci saranno i tagli più evidenti?

Il governo “ggiovane” ha bisogno – democristianamente – di mantenere alta la sua popolarità, quindi non sembra aria di sforbiciate immediate e impopolari. Per ora, infatti, l’accento cade soprattutto sugli stipendi dei manager della pubblica amministrazione (da contenre entro i 239mila euro, che è il vitalizio del Presidente della Repubblica), oppure sugli acquisti di beni e servizi (se ne potrebbero ricavare 800 milioni), quasi mezzo miliardo alla Difesa (che ha intanto annunciato la “smilitarizzazione” dei cappellani militari, riconsegnandoli alle finanze del Vaticano); e infine sui bilanci di Camera, Senato e altri organismi costituzionali, ecc.

Un taglio di minore entità dovrebbe abbattersi anche sugli “incentivi alle imprese”, specie dopo l’analisi di Banca d’Italia che ne ha dimostrato la costosissima inefficacia.

Possiamo dunque tirare un sospiro di sollievo? Ma quando mai…

Il lavoro dipendente in generale verrà chiamato a sacrifici inenanrrabili, ma in nome della “crescita dell’occupazione”. Come? Col “jobs act” Renzi punta direttamente a liquefare le regole del mercato del lavoro, lasciando alle imprese la totale libertà di regolazione dei rapporti con i propri dipendenti. La prima società a trarne le conseguenze è stata per ora la Nestlé, multinazionale svizzera che ha acquisito tra l’altro la gloriosa Perugina: ha proposto infatti ai sindacati l’eliminazione dei contratti a tempo indeterminato e il passaggio del personale a forme di contratto più “flessibili”. La ragione addotta? Il mercato dei dolciumi sarebbe “stagionale”; quindi anche i lavoratori dovrebbero adeguarsi a tre mesi sì e tre mesi no…

Un anticipo di futuro…

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