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Appesi al gancio del super-euro

Nell’economia reale non ci sono soluzioni durature, che vanno bene sempre, che soddisfano tutti gli attori suò mercato. Questo lo sanno tutti, ma l’ideologia dominante racconta sempre che “il libero mercato tende sempre all’equilibrio”. Falso come giuda, ma ripetutto come un versetto dei Salmi dalle beghine a messa. Due articoli de IlSole24Ore, in questi giorni, mettono in evidenza come la “bonaccia” intorno all’euro – provocata dall’intervento di Draghi nell’agosto del 2012 – si stia tramutando in una camicia di forza insostenibile per i paesi più deboli. Il dato più semplice è quello relativo alla rivalutazione della moneta unica nei confronti di tutte le altre monete mondiali. È noto che “la stabilità” perseguita dalla Bce – e imposta dalla Germania – vale soltanto nel recinto dell’eurozona. Gli altri paesi, e le altre economie, agiscono in altre direzioni, perseguendo a loro modo un “vantaggio competitivo” in grado di farle “crescere” o mantenere i livelli raggiunti. E tra le modalità più antiche del mondo capitalistico c’è la tanto vituperata “svalutazione competitiva”. Ovvero il far calare il valore della porpria moneta – in modo intenzionale o accompagnando una congiunturale fase dei mercati – per favorire le proprie esportazioni (accettando il rischio di veder aumentare i costi delle importazioni). Lo scudo della Bce – anche se espresso soltanto a parole – ha creato così una situazione abbastanza paradossale; l’economia più ferma del pianeta, quella dell’Unione Europea, ha anche la moneta che più si è rafforzata negli ultimi due anni. Il che è uno svantaggio competitivo incolmabile, in alcuni casi, e che vanifica sia le “riforme strutturali” del mercato del lavoro, sia la deflazione salariale. A subire il peso di questa situazione assurda sono ancora una volta le economie dei Piigs, obbligate a ristrutturarsi secondo il modello neomercantilista tedesco – tutto export oriented – senza avere il vantaggio specifico dei prodotti tedeschi (“che si comprano, non si vendono”, ricorda la Cerretelli alludendo all’inesistenza di validi competitori in alcuni settori manifatturieri). Di fatto, un euro “fortissimo” non provoca grossi guai all’economia tedesca – che anzi può approvvigionarsi di energia a prezzi più basi, visto che il prezzo internazionale di questi beni è in dollari – mentre massacra la “competitività” dei prodotti italiani, spagnoli, greci e quant’altri. Risultato? Tutti i “sacrifici” che stiamo facendo diventano inutili ai fini del recupero di quote di mercato. Noi possiamo infatti abbassare il costo del lavoro (i salari reali sono in arretramento da anni), possiamo precarizzare anche il papa, ma se l’euro si mantiene a questi livelli di cambio non facciamo un solo passo avanti. E finché questo squilibrio interno all’area euro non retroagisce sugli interessi tedeschi – i paesi Piigs sono anche paesi compratori di prodotti di Berlino – non c’è modo “normale” (all’interno dei trattati che costituiscono l’Unione Europea) di cambiare né la politica economica implicita della Ue, né la linea monetaria della Bce. La quale, infatti, ha dovuto già cominciare ad allestire grandi “iniezioni di liquidità” nella speranza che “il cavallo” riprenda a bere, invece di morire per eccesso di sacrifici.

Ma in economia non ci sono soluzioni durature… Una volta costruito un sistema sbagliato, puoi metterci diecimila toppe, a costi ogni volta più alti. Ma finché non si rompe, non se ne esce…

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Dal «whatever it takes» di Draghi l’euro è un rifugio. Ma nel frattempo gli altri Paesi hanno svalutato del 30% 

di Vito Lops

Negli annuari della storia dell’ultimo lustro probabilmente saranno ricordati due momenti su tutti nelle vicende della finanza: il fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008 (come simbolo dell’ultima grande crisi finanziaria) e il “whatever it takes” di Mario Draghi a fine luglio 2012 (come simbolo della fine del rischio di deflagrazione dell’Eurozona).

Se il primo ha segnato l’inizio di una crisi bancaria e di debito privato che poi contagerà il debito pubblico dell’Eurozona (con gli Stati gravatisi di corpose opere di salvataggio) il secondo ha segnato la fine dell’attacco speculativo su debiti sovrani prima di allora sorretti da una Banca centrale europea “ballerina” a causa di troppi contrasti decisionali interni.

Così Draghi ha rotto gli indugi, stupendo i falchi tedeschi e lanciando una sorta di anatema al mondo della speculazione: “La Bce farà di tutto per sostenere l’euro e vi assicuro che sarà abbastanza”. Il “whatever it takes” di Draghi quindi è entrato nella storia. Questo lo sappiamo, oggi che la conta degli spread è tornata “quasi” affare degli statistici e non più termometro ufficiale di una crisi finanziaria che si è allontanata (lasciando macerie però nell’economia reale: dal 2008 l’Italia ha perso 9 punti di Pil reale, oltre 100 miliardi e il tasso di disoccupazione è decollato dal 7,5% al 13%).

E sappiamo anche che i governi di turno che nel frattempo hanno tentato di arrogarsi il merito della caduta dello spread tra BTp e Bund senza far riferimento al decisivo intervento della Bce hanno omesso la verità, quel fattore scatenante chiamato “whatever it takes”.

Da quel momento la curva degli spread non solo per quel che riguarda l’Italia ma l’intera “periferia” dell’Eurozona si è abbassata. Nei giorni scorsi la Grecia è tornata sul mercato primario emettendo un bond a lungo termine mentre sul mercato secondario i titoli di Atene sono scivolati al 5% quando nel 2012 volavano oltre il 20%. In caduta anche i tassi pagati per finanziarsi dai governi di Lisbona, Madrid, Dublino e compagnia bella.

C’è qualcosa però che bisogna aggiungere a questo racconto. L’andamento dell’euro rispetto alle altre valute non è risultato indifferente all’atteggiamento protettivo della Bce. Da quel momento la divisa unica europea si è rivalutata su tutte le principali valute del globo. Oppure, leggendo il dato al contrario, le valute degli altri Paesi si sono fortemente svalutate nei confronti dell’euro.

Qualche dato. Il dollaro si è svalutato sull’euro del 12%, lo yen giapponese del 32%, la sterlina del 4% (con un picco però a gennaio 2013 del 12%), il dollaro australiano del 21%, quello canadese del 19%. E persino la lira turca, complici le recenti tensioni politiche che hanno alimentato un suo deprezzamento sul mercato dei cambi, ha perso da fine luglio 2012 il 25% del valore sull’euro.

Se vogliamo, se non dimentichiamo che negli ultimi anni le prime econonomie al mondo non stanno facendo altro che svalutare il cambio per mantenersi competitive nella logica di un’economia sempre più globalizzata e mercantile, il poderoso rafforzamento dell’euro seguito al “whatever it takes” suona come un paradosso. Da un lato la Bce ha salvato l’euro ma dopo non è riuscita a essere competitiva al pari di altre banche centrali nella moda del momento (che poi è una moda molto antica), quella di svalutare il cambio.

Certo, non è facile per un istituto che rappresenta più Paesi adottare una politica monetaria che soddisfi le esigenze di tutti i “condomini”. Ci sono alcuni (Spagna, Grecia, Slovacchia, Cipro e Portogallo) che sono già caduti in deflazione e quindi chiedono un’ulteriore mossa espansiva. Ce ne sono altri (Germania in primis) che girano a gonfie vele con un euro fino a quota 1,4 sul dollaro e che non stanno sperimentando la disoccupazione dell’area (6,5% contro il 12% medio dell’Eurozona) né tantomento la stessa inflazione (1,3% contro lo 0,5% dell’area a marzo). Non è facile per la Bce ma non è facile neppure per le imprese con forte vocazione all’export vendere i propri prodotti con il super-euro.

Senza dimenticare che poi, al di là del rapporto di cambio con valute di altri Paesi, persistono tra gli stessi Paesi dell’Eurozona ancora squilibri interni e contraddizioni tutt’ora irrisolte nella bilancia dei pagamenti fotografati dai saldi Target 2, che complicano ulteriormente il percorso decisionale della Banca centrale europea. Rendendo al momento l’intervento di Draghi sull’euro un “salvataggio dimezzato”. E che danno al super-euro un alone da dottor Jekyll e Mister Hyde.

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Fermare il super euro per «riunire» l’Eurozona

di Adriana Cerretelli

«I prodotti tedeschi non si vendono, si comprano. Per questo sono largamente anelastici ai tassi di cambio» ricordava tempo fa un grande imprenditore europeo. Quindi un euro che batte il dollaro in un rapporto di quasi 1,40 non impressiona nessuno a Berlino. Dove anzi ci si rallegra perché si ha la piena consapevolezza che, se non avesse la zavorra del Sud – in questo caso provvidenziale – da perfetta fotocopia del vecchio marco, l’euro schizzerebbe ancora più in alto, verso livelli che alla lunga potrebbero diventare insostenibili perfino per la competitiva economia tedesca.
Con lo spettro della rottura della moneta unica momentaneamente esorcizzato, con la lunga crisi dell’Eurozona non ancora risolta ma in fase dormiente, con il progressivo risanamento dei conti e le riforme strutturali che cominciano a dare frutti positivi nelle economie mediterranee, ora però lo scenario potrebbe cambiare. Non ci fosse il nuovo spettro della deflazione, la sindrome giapponese a tormentare l’Europa dalla crescita anemica e dalla ripresa lenta sia pure con fondamentali, come deficit e debito pubblico, decisamente migliori di quelli americani, l’attesa di un euro ancora più forte rispetto al dollaro sarebbe nella logica delle cose.

Tanto più se l’annunciata svolta della Bce, convertitasi alla politica di quantitive easing della Fed, dovesse prendere corpo e la prossima iniezione di circa 1.000 miliardi nell’economia dovesse davvero riuscire a far ripartire una robusta crescita europea. Con progressivo riassorbimento dei 27 milioni di disoccupati prodotti dalla peggior recessione dal dopoguerra. Di crescita l’Eurozona ha un bisogno disperato, non solo perché, a politiche invariate, i suoi tassi di sviluppo anche nel prossimo decennio rischiano di fermarsi alla metà di quelli americani ma anche perché a questi ritmi la sostenibilità dei debiti, in primis in un Paese come l’Italia, diventa problematica.
Anche la Germania, del resto, sta perdendo colpi: resta sempre la locomotiva del gruppo ma in fase di rallentamento. Eccessivo per alcuni osservatori, anche tedeschi.
Il che spiega come mai Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, abbia appoggiato e non contestato (come quasi sempre) la recente decisione di Mario Draghi di provare a dare una spinta alla crescita allentando la leva monetaria.
Ammesso che riesca, l’operazione potrebbe indubbiamente distendere il clima della riunione del G-7 che si terrà ai primi di giugno a Bruxelles: per una volta gli americani non potranno accusare l’Europa, o meglio la Germania, di non far nulla per sostenere la crescita globale e gli europei non potranno mettere in croce gli Stati Uniti per il solito dumping monetario sui fili del mini-dollaro.

Potrebbe decongestionare l’atmosfera del G-7 ma non la convivenza intra-euro, la frattura Nord-Sud approfonditasi nel quinquennio di crisi. Mentre tentano faticosamente di convergere su modello e virtù tedesche aggiustando i conti pubblici e facendo riforme costose, in termini economici e sociali, per recuperare competitività globale, le economie mediterranee non possono ritrovarsi al collo anche il laccio dell’euro forte, magari anche sempre più forte.
Se i patti di stabilità sottoscritti vanno mantenuti, se conti sani e riforme sono prima di tutto nell’interesse nazionale dei Paesi membri più fragili, un rapporto di cambio ragionevole con il dollaro in un’Eurozona che finora è cresciuta puntando essenzialmente sull’export non è una variabile che si possa ignorare. Soprattutto in questa difficile fase di transizione, si spera, verso una stabilità economica più solida e duratura.
Non tutti i Paesi dell’euro sono uguali e non tutti oggi sono in grado di convivere senza danni con un euro forte: non si può far finta di non saperlo né a Bruxelles, né a Berlino né a Francoforte. Al contrario bisogna tenerne conto nel giudizio sulle performance dei diversi membri del club. Altrimenti il fuoco della crisi, che ancora non si è del tutto spento, prima o poi potrebbe far ripartire l’incendio.

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