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Salari fermi, si mangia sempre meno

Ottimismi da proaganda elettorale a parte, la situazione conomica di chi lavora sta diventando tragica. Lo spiega con precisione scientifica l’Istat, che ha reso noto stamattina quanto siano rimasti fermi i salari e gli stipendi in questo paese; e quanto, quasi per conseguenza obbligata, si siano ristretti i consumi, persino quelli alimentari, di solito classificati come “incomprimibili”.

Alla fine di aprile 2014 i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore interessano ormai soltanto il 38,4% degli occupati dipendenti e corrispondono al 37,6% del monte retributivo osservato. L’indice delle retribuzioni contrattuali orarie rimane pertanto invariato rispetto al mese precedente e aumenta appena dell’1,2% nei confronti di aprile 2013 (docdici mesi prima).

In particolare, ad aprile le retribuzioni contrattuali orarie registrano un incremento tendenziale dell’1,6% per i dipendenti del settore privato (grazie al minimo contributo delle categorie i cui contratti sono stati nel frattempo rinnovati)  e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione (dove ormai da cinque anni vige un totale blocco della contrattazione, accompagnato spesso anche dall’eliminazione della indennità di vacanza contrattuale (pochi spiccioli, comunque).

I settori che ad aprile presentano gli incrementi tendenziali maggiori sono: gomma, plastica e lavorazione minerali non metalliferi (3,5%); agricoltura e telecomunicazioni (entrambi 3,1%).

Alla fine di aprile la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 61,6% nel totale dell’economia e del 50,3% nel settore privato. L’attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto è in media di 28,3 mesi per l’insieme dei dipendenti e di 14,5 mesi per quelli del settore privato. Da questi numeri (da oltre un anno a quasi due e mezzo di ritardo) si capisce che ormai il rinnovo contrattuale è considerato dalle imprese un ricordo del passato, da non ripetere più.

Di conseguenza, le cose vanno malissimo nel commercio al dettaglio. A marzo 2014 l’indice vendite al dettaglio (valore corrente che incorpora la dinamica sia delle quantità sia dei prezzi) registra una diminuzione rispetto al mese precedente (‑0,2%). Nella media del trimestre gennaio-marzo 2014, l’indice registra una flessione dello 0,3% nei confronti dei tre mesi precedenti. Variazioni minime si dirà, ma soltanto perché riferite a un perioso appena mensile.

Rispetto a marzo 2013, infatti, l’indice grezzo del totale delle vendite segna una flessione addirittura del 3,5%. Ma è soprattutto il crollo delle vendite di prodotti alimentari (-6,8%) a indicare che la crisi sta ora affamando anche praticamente una massa di popolazione crescente.Se si compra cibo per quasi il 7% in meno, nell’arco di soli 12 mesi, vuol dire che c’è una sofferenza sociale altissima.

Paradossalmente le cose sembrano andare meno peggio per i prodotti non alimentari (-1,5%); ma qui il tracollo era avvenuto molto prima (si tagliano inizialmente tutte le spese considerate “comprimibili”, come vestiti, calzature, elettrodomestici per sostituire quelli vecchi, ecc).

La conferma viene dalla pesantissima perdita accusata dalla grande distribuzione (-5,1%), che per anni aveva “retto” grazie alla sua maggiore economia di scala, che consente di praticare prezzi inferiori (le “offerte”) rispetto al piccolo commercio. Che ha da parte sua pagato prima il prezzo più alto ed ora “decresce” a un ritmo minore (-2,3%).

I due rapporti Istat:

pdfRetribuzioni_contrattuali_-_23_mag_2014_-_Testo_integrale_copia.pdf93.85 KB

 

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