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“Riforme o morte”, lo scontro cieco dentro la Bce

La pressione della Troika perché “le riforme” siano rapide, incisive, devastanti, sta assumendo velocemente i connotati di un ordine. La convergenza tra poteri monetari (la Bce), la Commissione di Bruxelles (il “governo europeo”), le sparate sempre più “tamarre” di Renzi, i moniti un tantinello isterici di Napolitano (ieri decisamente fuori da ogni aplomb istituzionale), mostra la potenza di fuoco che è stata messa in opera.

Ma anche le difficoltà insuperabili nella gestione dell’attuale crisi, entrata felicemente nell’ottavo anno consecutivo e di cui nessuno vede più la fine (ricordate i sette anni passati a sentirsi dire “la ripresa arriverà alla fine dell’anno”?).

Lasciamo da parte Renzi e Napolitano, in preda alle necessità della “comunicazione” compulsiva, e guardiamo al confronto-scontro in atto dentro la Bce e tra questa e l’establishment tedesco. L’oggetto dello scontro è noto: Mario Draghi (e tutti i membri del board che rappresentano paesi in forte difficoltà) spinge per “azioni non convenzionali”, politiche monetarie ancora più espansive, mentre contemporaneamente preme sui governi in deficit perché “facciano le riforme”. Bundesbank e Berlino pretendonoinvece soltanto queste ultime, e mostrano di temere che l’espansione della liquidità attuata e promessa dalla Bce possa generare “bolle finanziarie”.

Avviso per i lettori non esperti di economia: non fatevi ingannare, in questo scontro non ci sono “i buoni”. Quindi consigliamo di non cadere nella tentazione di “schierarsi” con tizio contro caio. Andrebbero mandati a quel paese entrambi gli schieramenti…

Il presidente della Bce, ieri, nel corso di un’audizione davanti alla Commissione affari economici del Parlamento europeo, ha riconosciuto che «La ripresa nella zona euro sta perdendo impulso, la crescita del Pil si è fermata nel secondo trimestre, le informazioni sulle condizioni economiche ricevute durante l’estate sono state più deboli del previsto e i rischi sono chiaramente al ribasso». Se non si fa nulla di “espansivo” questa situazione peggiorerà, è ovvio. Ma la Bce possiede solo strumenti monetari, non di politica economica. Significa manovrare sui tassi di interessi (ormai azzerati, quindi strumento congelato), sui prestiti alle banche private (già fatto più volte, senza risultati per l’economia reale; e in atto ora, in nuova forma, con le operazioni Tltro).

La “crescita”, invece, ovvero l’incremento della produzione di merci e ricchezza, è possibile solo con un aumento degli investimenti. Investimenti privati, necessariamente, visto che quelli pubblici – infrastrutture a parte, che incidono comunque limitatamente sulle generazione di ricchezza – sono vietati dai trattati dell’Unione Europea. Messi così, è come andare sul ring con le mani legate dietro la schiena…

Alla Germania va naturalmente bene così. O meglio: è andate bene così finora. I dati recenti mostrano che anche la locomotiva tedesca è in affanno, perché le esportazioni extra-Ue non crescono più e quelle infra-Ue diminuiscono (se strangoli i tuoi partner, del resto, quelli non possono continuare a comprare). Tutti – compresa la Bce – chiedono a questo punto che Berlino rispetti almeno il trattato europeo che vieta un “surplus eccessivo” nella bilancia dei pagamenti (il rapporto tra import ed export), dopo quasi dieci anni di grande sforamento verso l’alto; ovvero che Merkel attui una politica favorevole ai consumi interni (leggi: aumenti salariali), in modo da offrire mercato solvibile per merci europee altrimenti da buttare o da non produrre più.

Qui i “vincolisti” di Berlino diventano improvvisamente “liberi di agire come vogliono”, rifiutandosi di onorare un trattato anche da loro sottoscritto. È quello che ieri Draghi ha – obliquamente – ricordato: i paesi «che hanno spazio di bilancio devono seguire le raccomandazioni europee che hanno loro stessi sottoscritto al Consiglio europeo», perché «Nel Patto di stabilità ci sono margini di flessibilità per tutti. Chi non ha margini di bilancio può ridistribuire le priorità orientandole alla crescita, cioè dando priorità a investimenti, abbassando le tasse e pensando di ridurre la spesa improduttiva».

Non è un invito ad “abbassare la guardia” rispetto a paesi come l’Italia («I rischi di riforme strutturali insufficienti possono pesare sull’ambiente per gli investimenti»), ma un riconoscimento del banale fatto che se uno “guadagna troppo” a spese dei partner blocca la “crescita comune”. E infine anche la propria.

Berlino e Bundesbank sono notoriamente monotematici e parecchio sordi, da questo orecchio. La loro paura di una “bolla finanziaria” non è insensata, visti gli oceani di liquidità monetaria seminati nel mondo soprattutto dalla Federal Reserve statunitense e da un paio di anni anche dalla Banca del Giappone, in misura assolutament incomparabile con la più prudente (e divisa) Bce. Ma, appunto, tutta questa liquidità non ha mai preso – se non in misura infinitesimale – la via del finanziamento all’economia reale. E nessuno sa come costringere le banche private di investimento a finanziare le imprese produttive (dai ritorni incerti e a lungo termine) anziché i mercati azionari e obbligazionari (dai ritorni più incerti ancora, ma “all’istante”).

È insomma uno scontro tra due ipotesi di “vie d’uscita” dalla crisi, col palese difetto di non portare – nessuna delle due – ad un’uscita. Entrambe criticano “giustamente” gli errori di impostazione strutturale dell’altra, riconoscendone limiti e dannosità; il che significa che sanno riconoscere gli errori ma non correggerli. Si muovono su una scacchiera concettuale (sostenuta da immensi interessi economico-finanziari) in cui le mosse possibili sono poche.

Del resto, non è che possano vedere nel meccanismo dell’accumulaziona capitalistica “il problema” che ha generato e genererà all’infinito gli “squilibri” che poi i Draghi e i Weidmann sono chiamati a compensare o risolvere. Ormai inutilmente. Quindi continuano a “scontrarsi” trovando l’accordo nel consigliare di spremere le popolazioni – abolendo il welfare (sanità, pensioni, istruzione, ecc), tagliando i salari, eliminando i diritti di chi lavora, precarizzando tutti – nella speranza che, aumentando “la competitività”, il meccanismo riprenda a funzionare. (Vi avevamo avvetito: non vi schierate…)

Purtroppo per loro, tutte le altre “economie continentali” – tranne la cinese, per ora – stanno facendo esattamente la stessa cosa. L’aumento di “competitività” può essere certamente perseguito. Ma in un mondo limitato (“la terra è tonda”, non si può andare oltre) l’aumento di “competitività” si risolve alla fine in aumento di “competizione”.

E l’orizzonte della guerra di tutti contro tutti – non più solo “economico-finanziaria-monetaria” – non è mai stato così percepibile come oggi.

 

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