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Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova (Seconda parte)

Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea? 

RB: Credo che non si possa comprendere la crisi europea e il ruolo dell’Unione Europea e dell’eurozona – ci sono differenze tra l’una e l’altra cosa – se non si parte dai caratteri della crisi globale, e addirittura direi da certi caratteri del capitalismo degli ultimi 30 anni, su scala geopolitica. 

Personalmente, non credo che oggi ci sia null’altro che una ripresa congiunturale del capitalismo anglosassone, quindi non sottolineerei più di tanto quell’aspetto. La crisi globale è la crisi di questo keynesismo privatizzato e finanziarizzato, come l’abbiamo definito Joseph Halevi ed io (e che ho in parte descritto rispondendo alla prima domanda); una forma del capitalismo più recente che ho sintetizzato nella triplice figura del lavoratore traumatizzato, del risparmiatore maniacale-depressivo e del consumatore indebitato. 

Il lavoratore traumatizzato ha a che vedere con le cose che ha descritto Giovanna Vertova nella risposta alla prima domanda, e cioè con le trasformazioni nel mercato del lavoro e nel processo di lavoro. E’ grazie al lavoratore traumatizzato che la cosiddetta Curva di Phillips era divenuta orizzontale nel corso degli anni Novanta: il che significa che il ridursi del tasso registrato di disoccupazione non comportava più un conflitto sul salario o sul tempo di lavoro. Si era così raggiunto di nuovo il pieno impiego, ma era un pieno impiego di lavoratori strutturalmente precari (al di là della configurazione giuridica del loro rapporto di lavoro). 

Il risparmiatore nella fase maniacale ha invece a che vedere con il fenomeno che Gallino definisce come il ‘capitalismo con i soldi degli altri’, un capitalismo che è stato basato su una inflazione nel prezzo delle attività finanziarie. E’ quella che Jan Toporowski chiama la capital market inflation: aumenta il valore dei savings, cioè il valore delle attività nello stock di risparmi accumulati, e corrispettivamente si riduce il saving, ovvero il risparmio come differenza tra il reddito disponibile e il reddito consumato. La prima cosa, l’apprezzamento dei savings, riguarda, se volete, gli ‘investitori’, nel senso dell’intervento sul mercato finanziario (più come speculatori che come rentier). E produce la seconda cosa, la tendenza alla scomparsa del saving, talmente forte che a un certo punto diviene negativo. 

E’ quello che in vari scritti ho definito come la “sussunzione reale del lavoro alla finanza”, intesa quest’ultima tanto con riferimento agli intermediari finanziari quanto alle banche: è il processo che sostiene appunto il consumo a debito. Purtroppo, questo fenomeno è stato visto da quasi tutti, per così dire, a babbo morto, cioè dopo la crisi; e a sinistra è stato inquadrato poveramente, in una logica sottoconsumista e banalmente funzionalista. Non c’è abbastanza consumo, ed ecco che miracolosamente mettiamo nell’equazione di un modellino keynesiano, o neoricardiano, o circuitista, o marxista, una funzione del consumo dipendente dall’indebitamento, et voilà!, senza spiegare il processo che sostiene il meccanismo. 

La Grande Recessione è la crisi di questo capitalismo. Una crisi dovuta a eccessiva profittabilità potenziale (come nel Grande Crollo degli anni Trenta del Novecento, e all’opposto della Lunga Depressione e della Grande Stagflazione che furono crisi dovute a bassa profittabilità). Che, certo, si mostra a un certo punto come crisi da realizzazione, ma non fu dovuta a sottoconsumo (semmai all’opposto). E’ un capitalismo dove la finanza si lega morbosamente, ma strutturalmente, alla produzione (ingenua la sinistra, anche l’ultra sinistra, che oppone produzione buona e finanza cattiva). Per questo la crisi è più di altre una crisi finanziaria – ed è futile opporre cause reali e cause finanziarie. 

Ora, bisogna capire che questo era il modello del capitalismo anglosassone, che però reggeva l’intero capitalismo mondiale. Qui è importante il ruolo del capitalismo asiatico per molti decenni, più che quello europeo – qui i lavori di Joseph Halevi sono fondamentali, e di grande originalità. Il capitalismo anglosassone assorbiva le esportazioni che sostenevano i modelli neomercantilisti: essenzialmente la Germania e i suoi ‘satelliti’; ma (anche), non bisogna scordarlo, una parte dell’Italia; sicuramente il Giappone, prima, e i paesi del Sud-Est Asiatico, dopo; e poi la Cina, anche se la Cina ha caratteri particolari rispetto agli altri paesi che ho nominato. 

Bisogna capire che l’America Latina era stata distrutta come modello espansivo capitalistico dalla crisi del debito degli anni Ottanta; in quel decennio il capitalismo del Giappone e del Sud-est Asiatico era invece riuscito a svilupparsi in qualche modo endogenamente. I paesi del Sud-Est asiatico sono entrati molto tardi dentro un universo di ‘libera’ mobilità dei capitali, sono stati capitalismi molto diretti dall’alto, dirigisti. Questi modelli sono andati in crisi alla fine degli anni Novanta per varie ragioni. Rimando agli studi di Joseph Halevi che ho ricordato. 

Vorrei che fosse chiaro – era, mi pare, nel discorso di Giovanna Vertova, ma lo voglio ribadire – che questo capitalismo non ha niente a che vedere con la cosiddetta globalizzazione e con il cosiddetto post-fordismo. Due favole che la sinistra tutta si è bevuta, come il presunto ritorno a un inesistente liberismo o il ‘pensiero unico’. Questo è un capitalismo semmai di ‘localizzazione globale’ (di ‘glocalizzazione’), in cui le nazioni contano, in cui le politiche statali contano, e sono contate, in cui però bisogna analizzare la dinamica delle grandi aree capitalistiche. Anche i processi lavorativi si sono trasformati, ma non, come per molto tempo si è detto, determinando una tendenza alla ‘fine del lavoro’ e alla ‘fine dello stato’. Anche queste pericolose illusioni. 

Il capitalismo europeo è stato parte di questa storia. Questa storia determinava una forte spinta (di classe) all’austerità, che – sia chiaro – c’era ben prima dell’Unione Monetaria Europea, ben prima dell’euro. Non è l’euro la causa della spinta all’austerità: questa è stata percorsa dentro e fuori accordi di cambio fisso, o dentro la c.d. ‘moneta unica’. In Italia è stata pressoché una storia permanente, risale almeno (almeno) ai primi anni Novanta, ma in altra forma si deve tornare alla metà degli anni Settanta – per chi ha buona memoria, o conoscenza della storia. La sovranità statale e la sovranità monetaria non hanno mai, fino ad adesso, giocato a favore delle classi popolari. Mai.  Basta ricordare ciò che ha portato l’uscita dallo SME con la crisi del ’92-’93, che è stata l’inizio della (rapida) distruzione finale delle conquiste dei lavoratori in Italia strappate alla fine degli anni Sessanta e primi Settanta. 

La crisi in Europa è arrivata come una crisi di ‘rimbalzo’, tra la metà del 2007 e la metà del 2008. Quando è esplosa ovunque in termini reali si è avuta una reazione. Tra il 2008 e il 2009, addirittura, con centro la Germania, si sono viste intelligenti politiche di carattere keynesiano: un aumento dei disavanzi dello stato e un aumento del debito pubblico pressoché ovunque (la Cenerentola è stata l’Italia, che ha tenuto i deficit fiscali il più compressi possibile: l’aumento del debito pubblico rispetto al PIL è stato dovuto alla caduta di quest’ultimo). Il problema è che, dopo sei mesi di autentico terrore nelle classi dirigenti, dalla metà del 2009 si sono intravisti germogli di ripresa: non essenzialmente per le politiche di Obama, semmai per la politica di spesa pubblica in disavanzo della Cina, poi per gli stabilizzatori automatici, e appunto per politiche keynesiane come quelle della Germania. A questo punto, si sono tirati i remi in barca, non si è voluto dire e capire che una crisi da debito privato si era trasformata in una crisi da debito pubblico, e se ne è voluto uscire con un giro di vite nelle politiche di austerità. Il che significa che, esattamente nel momento in cui le famiglie (il risparmiatore entrava nella sua fase ‘depressiva’) e le imprese cercavano di uscire dal debito riducendo la loro spesa, anche lo stato ha ridotto la sua. Su questa via tu scivoli sempre di più in deflazione da debiti: paradossalmente, rimani intrappolato nel debito sempre di più. E’ quella che viene chiamata balance sheet recession. 

Negli Stati Uniti le politiche sono riuscite a tenere l’economia sopra il pelo dell’acqua. In Europa è invece scoppiata la crisi greca, tutta la situazione è scivolata in un gigantesco gioco del domino, e in una ricaduta più pesante nella crisi (il double deep). Vorrei però che si tenesse conto del fatto che il problema della crisi europea è sicuramente un problema di cattivo disegno istituzionale, ma la cosa non si ferma lì. Il cattivo disegno istituzionale non ve lo sto a descrivere più di tanto, tanto la cosa è nota. I parametri sulla spesa pubblica che spingono all’austerità, per esempio. Ma come scrivemmo tempo fa Joseph ed io quei parametri sono essenzialmente ‘politici’, vengono applicati all’interno di una gerarchia di potere europea, nei vari spazi geografici distinti del capitalismo europeo, da un centro che è il capitale monopolistico tedesco. C’è poi il problema delle regole della banca centrale, che non è stata pensata come prestatore di ultima istanza. Ma anche qui, questo limite è in qualche modo stato aggirato, nel senso che la BCE progressivamente è andata cambiando. Certo, è facile dire ‘troppo poco, troppo tardi’. Io penso però che cambiare, sufficientemente per non precipitare nella rottura dell’euro, mantenendo però lo stato di crisi permanente all’orizzonte, beh, io comincio a sospettare che questo sia qualcosa di voluto. Perchè il problema che ha di fronte Draghi e su cui riflette con molta lucidità è che per uscire da questa fase con un capitale europeo (contro i capitali europei) bisogna inventare una nuova forma di capitalismo. 

Secondo me, Mario Draghi è davvero lucido da questo punto di vista: l’Euro, dice, così com’è, è un calabrone che non dovrebbe volare. Perché voli, pensa, vanno cambiate le condizioni del welfare, del lavoro, della spesa pubblica, vanno favorite nuove condizioni di concorrenzialità sul mercato dei beni e dei servizi. E’, a suo modo, più marxista dei marxisti. 

Questo mi porta a dire che, senz’altro, se scatto una fotografia in un momento dato, posso sempre individuare le contraddizioni e dire che domani mattina, o forse fra un anno, l’Euro esploderà. E’ il modo di ragionare che adottano, un giorno sì e l’altro pure, i nostri economisti ‘contro l’euro’. Non mi convince. Dobbiamo cominciare a chiederci se l’investimento politico e le trasformazioni in atto non siano tali per cui l’Euro è qui per rimanere: come dissi una volta, parafrasando Eliot, questo è il modo in cui l’Euro finisce, non però con un’esplosione, semmai con un gemito. Addirittura, dobbiamo cominciare a pensare che l’Euro in quanto tale possa sopravvivere. Mi chiedo però – e chi conosce la mia biografia intellettuale e politica lo sa: non sono certo stato un fautore dell’entrata nell’Euro – se non si debba avere un progetto nostro su scala europea (certo, anche più che europeo: ma partiamo da dove siamo), di costruzione di un movimento di classe, dal basso e politico, della sinistra che cominci a ragionare non sulla scala nazionale, non sul ritorno alla sovranità nazionale, ma si ponga all’altezza della sfida lanciata da Draghi ma anche dalla Merkel – bisogna ricordare infatti che la Merkel ha appoggiato Draghi quando due della Bundesbank sono andati via dalla BCE. Certo, è una strada piena di oscillazioni e scarti. 

Ora, il punto che diventa problematico è se in realtà sia vero quello che ci dicono gran parte degli economisti eretici fuori d’Italia ma ancora di più in Italia, cioè che sì, l’uscita dall’Euro sarebbe una soluzione, l’unico problema è di vedere se questa uscita debba essere da destra o da sinistra. Se noi creiamo delle garanzie di difesa del lavoro nell’uscita, allora non vi sarebbero dubbi, dovremmo prendere quella strada, un’opzione caratterizzata da forme di protezionismo e di controllo dei capitali. 

Sia chiaro, e l’ho già detto, non credo che esista il liberismo; ma non credo neanche che esista il protezionismo. La realtà è sempre di commercio più o meno manovrato. Bisogna però capire se si fa questo tipo di ragionamenti su scala continentale o su scala nazionale, e in questo momento mi sembra molto difficile, anzi impossibile, farli su scala nazionale. E’ vero non solo per quel che riguarda il protezionismo, ma anche per quel che riguarda il controllo del movimento dei capitali. Sono per un controllo del movimento dei capitali su scala europea, ho molti più dubbi sulla scala nazionale. 

Ora, quello che secondo me viene completamente cancellato dal dibattito, tranne poche voci, sono due cose: 1) che c’è stata una potente integrazione finanziaria e bancaria su scala europea 2) che si sono davvero costruite delle catene transnazionali di produzione. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna capire che ci sono stati, a partire dall’inizio del Duemila, degli accordi e delle politiche che hanno integrato i sistemi bancari e i sistemi finanziari in Europa. Anche, ma non solo, un sistema di pagamento unico. Ora, come afferma Marc Lavoie e come sostiene Randy Wray, in un sistema di pagamenti unici i disavanzi di partite correnti non determinano, di per sé, la crisi dell’Euro: non ne sono né la causa né l’esito. Con Halevi mettemo in rilievo il problema reale dei disavanzi di partite correnti al primo convegno di Rive Gauche: nel 2005, quando praticamente tutti su questo tema erano, diciamo così, ‘distratti’, e ora è invece diventato quasi l’unico tema. E’ appunto un problema reale serissimo, in termini di diseguaglianze crescenti tra le aree europee, ma non dal punto di vista monetario nell’area della moneta unica, non direttamente. Inoltre, l’integrazione tra gli stati patrimoniali delle banche e degli intermediari finanziari, così come il problema della gestione del finanziamento dei debiti pubblici, fanno sì che sia molto rischioso uscire dalla moneta unica. 

Se si ragiona in questo modo si capisce che se tu hai un tasso di cambio variabile, la variazione del cambio che è utile dal punto di vista della bilancia commerciale sarebbe quella di una svalutazione; invece la variazione del cambio che sarebbe utile per una economia integrata finanziariamente, cioè dal lato dei movimenti di capitale, del finanziamento, del debito pubblico ecc., è una situazione in cui il cambio o è stabile, oppure tende alla rivalutazione. Per di più, Keynes ci ha insegnato che non sono i ‘fondamentali’ o i movimenti reali della bilancia commerciale a determinare il tasso di cambio, lo determinano molto di più la finanza e la speculazione. Quindi, ammesso e non concesso che tu uscendo riacquisti l’autonomia e salvi l’industria, rischi comunque di precipitare in una crisi bancaria e finanziaria devastante, per molti anni. 

C’è ancora un altro punto, contenuto in un articolo molto bello di Anna Simonazzi con Andrea Ginzburg e Gianluigi Nocella. Qui sostanzialmente si dice: guardiamo a che cosa è successo sul terreno delle catene transnazionali di produzione. La Germania, dal 2005 in poi, ha massicciamente esternalizzato parti significative della propria produzione, con una catena che va ad Est, dove trova lavoro qualificato che costa meno, e magari gli costa ancora di meno perché in questa catena ci sono paesi che non stanno ancora nell’Euro e svalutano. Chiediamoci ora cosa avverrebbe se aumentasse la domanda effettiva, come è senz’altro auspicabile? Un aumento delle importazioni verrebbe dalla propria catena produttiva, quindi questo trainerebbe essenzialmente l’Est europeo. E i cosiddetti GIIPS (Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo, Spagna)? Beh, questi paesi esportano beni di consumo in Germania, ma sono sempre meno integrati tra di loro e non godrebbero, se non in maniera limitata, dell’espansione della domanda effettiva in Germania. Non sto dicendo che non ci voglia un’espansione della domanda effettiva in Europa, sia chiaro: ci vorrebbe, ma non sarebbe, da sola, una risposta al problema, se non si agganciasse a politiche in senso lato industriali, di ridefinizione della specializzazione produttiva, anche nella cosiddetta periferia dell’Europa. D’altra parte, va detto che l’unica ragione per mettere insieme i vari paesi della periferia dell’Europa è che hanno un disavanzo di bilancia corrente; ma se voi andate a vedere i modelli di questi paesi, sono tutti diversissimi l’uno dall’altro. 

Su tutti questi temi ho recentemente scritto un lavoro a sei mani, con Francesco Garibaldo e Mariana Mortagua, una deputata della sinistra portoghese che studia alla SOAS di Londra, e che è stato presentato a Grenoble, Roma e Berlino e si trova online

Cosa penso della cosa che dice Joseph Halevi, ossia che l’unica cosa che tiene unite le componenti capitalistiche europee è la deflazione salariale, garantita dall’Euro? Ne penso molto bene, ma la ridefinirei a mio modo. Lui parla di deflazione salariale. Deflazione salariale è un termine ambiguo, a mio parere. C’è stata davvero una compressione dei salari in Germania, resa possibile anche dal fatto che una serie di beni di consumo vengono dall’estero e sono di relativa minore qualità, in parte viene dai mini-jobs e la precarizzazione che si diffonde pure lì. C’è senz’altro anche una caduta dei salari rispetto a una produttività del lavoro che cresce significativamente. Questo non comporta la diminuzione dei costi relativi del lavoro per unità di prodotto: questa è una questione tecnica su cui non entro nel dettaglio (rimando all’articolo di Simonazzi ed altri). 

Il problema cruciale è però – come Joseph stesso ci insegna – che noi abbiamo a che fare con un paese, la Germania, che ha un capitale monopolistico, e pure in qualche modo innovatore. Il punto vero è che, rispetto alla deflazione salariale (che significa una crescita della produttività maggiore del loro salario), loro sono comunque in grado di mantenere il margine di profitto lordo a livello elevato, perché possono mantenere un alto grado monopolio. Ecco, metterla semplicemente e sinteticamente in termini di ‘deflazione salariale’ consente secondo me di intendere in modo banale e semplicisticamente il discorso di Joseph, un po’ sulla scorta di quelli che sono i filoni dominanti dell’economia alternativa in Italia: credo invece che il suo discorso non sia poi tanto lontano da quello che vi sto facendo. Un discorso che però, di nuovo, ti porta al quesito: se esci dall’Euro, davvero importerai significativamente meno merci ‘tedesche’? Dipende dalla composizione produttiva, dipende dal contenuto di importazioni in termini di materie prime: ma dipende anche dalla dipendenza dal capitale monopolistico tedesco, il che significa che certe importazioni possono essere (almeno in parte) indipendenti dal prezzo relativo, qui dipendente dal tasso di cambio in svalutazione. 

Insisto: nei vari paesi è diverso anche il contenuto di importazioni della propria produzione. La Germania ha esternalizzato ma ha un contenuto di importazioni che controlla per quel che riguarda la propria matrice produttiva. Noi assolutamente no, noi non siamo, che so, la Latvia per quanto riguarda le materie prime o la finanza. Dopodiché, certo, l’Italia tra i paesi dei GIIPS è forse quello che sarebbe meglio messo per aumentare le esportazioni di fronte a una svalutazione, abbiamo ancora un sistema manifatturiero vitale – sarebbe un problema serio per gli altri. In ogni caso, se uscisse l’Italia, l’UME così come la conosciamo non esisterebbe più. 

È dunque possibile – anche se incerto, e forse improbabile – che si guadagni dalla svalutazione per quanto riguarda il lato della bilancia commerciale. Ma anche se questo fosse vero, c’è la questione degli effetti sul sistema finanziario e bancario del deprezzamento, che potrebbero probabilmente essere controproducenti, anche per quanto riguarda la gestione del debito pubblico. 

Vorrei dire qualcosa sulla posizione di Augusto Graziani, spesso richiamata a sproposito in questa discussione. Nel suo schema di ragionamento, primo, Graziani ha sempre insistito che bisogna tenere conto degli effetti della svalutazione della lira in un contesto come quello del nostro paese, caratterizzato da ampi divari regionali: ammesso e non concesso che la svalutazione, anche oggi, possa dare un po’ di fiato al sistema produttivo, questo favorirebbe alcune regioni a danno di altre, e quindi aumenterebbe il divario regionale. Secondo, Graziani ha sempre ricordato che la svalutazione, per come è stata spesso gestita da noi, è stata sfruttata dalle imprese italiane per acquisire margini di competitività di prezzo senza procedere in alcun modo a un’autentica politica di innovazione autonoma. In passato si sono avuti aumenti della produttività trainati anche da investimenti in macchine e mezzi di produzione, ma ciò è avvenuto in una logica reattiva, passiva, adattiva. 

GV: Prima di tutto, sono d’accordo con quello che dice Riccardo Bellofiore: gli elementi peculiari arrivano dopo quello che viene chiamato il neoliberismo e la nascita di questo nuovo sistema capitalistico. Si sa che i “trent’anni gloriosi” sono crollati a seguito di tante cose, e si può dire che, con la fine degli anni ’70, quel modello è crollato. Sono seguiti gli anni della trasformazione e della ristrutturazione, che hanno portato in auge quel modello che adesso viene chiamato neoliberismo. Con questo nuovo modello sono tornate di moda tutta una serie di teorie economiche (l’ortodossia o, meglio, le diverse ortodossie, il monetarismo, la supply-side economics – l’economia dal lato dell’offerta, etc.) e, quindi, anche di scelte di politica economica, non favorevoli alla classe lavoratrice. Tra le altre cose queste teorie ipotizzano il ritiro dello stato nell’economia, che invece non è mai avvenuto nella realtà. Il neoliberismo non è il ritiro dello stato dall’economia, ma è un certo tipo di intervento statale non favorevole della classe lavoratrice. 

Comunque, per tornare alla domanda, tutto ciò avveniva prima della costruzione della moneta unica, dei parametri del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita. L’Euro sta all’interno di questo nuovo modello, e quindi non poteva che essere costruito nell’ottica di favorire una certa classe piuttosto che un’altra. La costruzione istituzionale dell’Euro è già una costruzione di classe, perchè il neoliberismo è il ritorno al potere della classe dominante, come sostiene David Harvey nel suo libro Breve storia del neoliberismo. Il neoliberismo, come ritorno al potere della classe dominante, non poteva che istituire quel tipo di integrazione europea. Inoltre va ricordato il fatto che questo avviene nel momento in cui  i paesi europei sono guidati da partiti di sinistra o centro-sinistra. Un disegno istituzionale sbagliato, dove si spacciano per verità assolute i parametri di Maastricht. Inoltre nel neoliberismo c’è anche una visione dell’economia neutra e tecnica, per cui i parametri di Maastricht diventano il riferimento, per poi scoprire che sono politicamente creati. Non solo non esiste alcuna giustificazione teorica, nemmeno nel mainstream, al valore del 3% del rapporto disavanzo/PIL, ma gli stessi parametri vengono applicati in relazione ai rapporti di forza tra i paesi. Come ricordava Riccardo, i due paesi che li hanno sforati per primi sono stati la Francia e la Germania, ma non è stata applicata loro alcuna procedura di infrazione per deficit eccessivo. Quindi, questo tipo di interazione europea è una costruzione politica, in cui l’economia e le scienze economiche vengono usate strategicamente, in modo tecnocratico e quindi, fintamente, neutre, per portare avanti scelte politiche. Inoltre queste scelte politiche, così come i parametri di Maastricht, hanno lo scopo di rigerarchizzare i capitalismi europei sulla base dei rapporti di potere: la Germania  come locomotrice d’Europa, dopo il pesante periodo della ricostruzione, la Francia con le sue specificità, etc. Il progetto dell’euro è quindi anche un tentativo di riorganizzare su scala gerarchica i diversi capitalismi, attraverso il sistema di produzione, le catene transnazionali di valore e così via. 

Da economista donna ci tengo a sottolineare anche la questione di genere. Un altro attacco volontario dell’Unione Europea è quello al welfare e, quindi, alla riproduzione sociale. Le privatizzazioni, iniziate da Reagan e dalla Thatcher, e il tentativo, sempre più riuscito, di smantellare il welfare hanno, ovviamente, degli impatti di genere. Le ricadute vengono sentite più pesantemente da parte di chi si fa carico del lavoro domestico e di cura, cioè le donne. Economiste femministe spiegano come l’attacco al welfare sia funzionale all’apertura di nuovi spazi di profitto per il capitale. Tutto lo spazio legato al welfare diventa un nuovo settore dove il capitale può fare nuovi profitti, che riesce  ad ottenere sempre meno nella produzione.  I servizi sociali legati alla riproduzione sociale rischiano di essere mercificati, contribuendo così a peggiorare le condizioni di vita delle lavoratrici. 

All’interno di questo progetto di integrazione europea ci sono delle caratteristiche peculiari. Prima di tutto il fatto che non esiste una politica fiscale comune, non esiste la possibilità di compensare gli squilibri tra le diverse aree. Non si è mai voluto fare uno stato federale con una bilancio europeo alle spalle. Vorrei essere chiara: non si è voluto crearlo politicamente, perché economicamente sarebbe fattibilissimo. Quindi esiste una struttura che tutto è tranne che neutra. 

La seconda questione è l’uscita dall’Euro come modalità per uscire da questa crisi. Sono un po’ più dubbiosa di Bellofiore. Vorrei essere chiara. Penso che la creazione della moneta unica sia stata un errore politico prima ancora che economico e per questo motivo sono sempre stata molto scettica circa la sua creazione. Detto questo, bisogna tenere presente che un conto sarebbe stato non creare l’euro (cioè non creare questo tipo di integrazione europea) e quindi non entrarci, un altro è uscirne ora. L’ipotesi secondo la quale l’uscita dall’euro, e la svalutazione che ne seguirebbe, permetterebbero  un miglioramento della competitività delle imprese italiane con un conseguente aumento delle esportazioni non mi convince pienamente. L’Italia è sempre stato un paese di trasformazione, e quindi obbligato ad importare tutte le materie prime. Già prima della crisi avevamo una bilancia commerciale negativa addirittura del grano, nonostante la pasta sia il piatto principale della nostra alimentazione. Inoltre siamo un paese povero di materie energetiche (petrolio, gas, metano, etc.) e senza una seria politica energetica. Abbiamo, quindi, una bolletta energetica particolarmente elevata. Allora la svalutazione che seguirà l’uscita dall’euro farà certo aumentare le nostre esportazioni, ma aumenteranno anche i costi di tutte le nostre importazioni. Siamo sicuri che, alla fine, il saldo sarà positivo? Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe fare un’analisi seria con le tabelle input-output per capire esattamente cosa importiamo e quanto ci costerebbero di più queste importazioni, cosa esportiamo e quanto guadagneremmo di più dalle esportazioni, e verificare se tutto ciò permetterebbe un saldo positivo della bilancia commerciale. 

Tuttavia, oltre a queste preoccupazioni di tipo prettamente economico, vedo anche delle enormi difficoltà politiche. Non vedo, oggi, in Italia, una forza politica in grado di gestire una uscita da sinistra. Politicamente e sindacalmente il mondo del lavoro è molto poco rappresentato ed  i vari movimenti sociali, che anche esistono, non sono una massa critica tale da poter incidere sulle scelte di politica economica. Anche gli economisti di sinistra che propongono l’uscita dall’euro peccano di “tecnicismo” o “politicismo”: sono cioè convinti che basti dimostrare la fattibilità economica dell’uscita, o che tutto dipenda dalla politica, senza nessun rapporto tra le due cose. Resto convinta che solo un forte conflitto sociale possa spostare i rapporti di forza verso un’uscita da sinistra. Che è esattamente quello che manca oggi in Italia. In assenza di tutto questo l’uscita dall’euro rischia di essere gestita da destra, traducendosi in un massacro per la classe lavoratrice (come nota a margine, vale la pena ricordare che la svalutazione della lira del 1992 del Governo Amato ha portato gli accordi del 1992 e del 1993, la riforma delle pensioni e i primi attacchi al welfare. Così come vale la pena di ricordare che, oggi, né per la classe lavoratrice statunitense né per quella inglese – due paesi che hanno ancora la loro sovranità monetaria – la vita sia rosa e fiori. Manca una proposta seria di un’uscita di classe.

Fine seconda parte (continua)

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