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La “spinta” della Bce? Un salvataggio delle banche a nostre spese

Fa un po’ senso vedere un economista di vaglia, addirittura un prodotto della vecchia scuola Pci, come Pier Carlo Padoan, “giurare” che la recessione quest’anno finirà, mettendo in moto una ripresa “moderata” – ci mancherebbe pure… – e una tenuta dell’occupazione, anche se come sempre un po’ ritardata rispetto alla dinamica produttiva.

Quali elementi porta alla sua promessa, previsione, annuncio? Il principale puntello è costituito dalla politica monetaria che, nella riunione del consiglio del prossimo 22 gennaio, dovrebbe far partire l’attesissimo quantitative easing. Ovvero, nella vulgata mediatica, l’acquisto di titoli di stato emessi dai paesi con probli di raggiungimento dei target di bilancio.

Ma è così?

Secondo Milano Finanza, autorevole quotidiano finanziario specializzato, le cose stanno un po’ diversamente. L’accordo raggiunto tra la stessa Bce e la Banca d’Italia – per quanto riguarda in specifico il nostro sistema finanziario, sarebbe invece molto più limitato: “Circa 50 miliardi di prestiti originali potranno essere venduto all’Eurotower a 20 miliardi circa; eventuali perdite ulteriori per circa il 40%, a causa del default dei creditori, comporterebbe poi per il governo un indennizzo di 8 miliardi all’Eurotower”.

Troppo complicato? Ma no, si tratta, come spiega Mf, dello “spurgo della sentina in cui sono stati accumulati i crediti incagliati delle nostre banche”. In pratica: le “nostre” banche verrebbero ripulite di tutti quei “crediti inesigibili”, ovvero perdite sicure anche se non ancora classificate come tali.

Ma chi paga? In parte le banche stesse, che accettano di perdere il 40% invece di dover mettere a bilancio un meno 100% su quei crediti. In parte la Bce, che però chiede ai singoli Stati di coprire a loro volta circa un terzo delle perdite stesse. Insomma: alla fine ci chiederanno di pagare noi – tramite i conti pubblici – una parte delle perdite della banche.

Persino un giornale molto liberista come Mf resta inorridito. “Una lezione amara per tutti quelli che hanno fin qui onorato i propri impegni, i cittadini che hanno pagato i mutui e gli imprenditori che hanno rispettato le scadenze”. E in effetti, dal punto di vista capitalistico, se non è più necessario rispettare i contratti – subendo la sanzione del mercato e dello Stato: fallimento, liquidazione, perdita dell’”onorabilità” e quindi del diritto di firmare altri contratti – viene giù il presupposto stesso del modo di produzione, si inceppa il meccanismo della riproduzione del sistema premiando – a sconto – i malfattori.

Come è possibile pensare che un meccanismo del genere produca “crescita”? Certo, le banche alleggerite di questi buchi potrebbero essere in teoria più disponibili ad assumere nuovi rischi, erogando nuovi prestiti a nuovi soggetti (imprese e famiglie). Peccato che i “requisiti di capitale” imposti dalla stessa Bce alle banche siano tali da suggerire molta più cautela che in passato nella concessione di crediti (banalmente: le banche devono aumentare la quota di capitale immobilizzata, posta “a riserva” in caso di emergenza).

Le aspettative create dal “piano Juncker”, quello che prometteva “300 miliardi di investimenti”, si sono già sgonfiate. Si trattava solo di un gioco di finanza creativa, con 15 miliardi che avrebbero dovuto per magia moltiplicarsi fino a 315, grazie a investitori privati che stanno pensando di usare i loro soldi in tutt’altro modo (come dimostra l’andamento ciclotimico delle borse mondiali).

Ma soprattutto: il resto del mondo sta andando verso una “ripresa”, così da inserire l’Unione Europea e l’Italia in un processo virtuoso?

No. I dati della Banca Mondiale sono stati pubblicati solo stamattina, ma dubitiamo fortemente che un ex economista dell’Ocse e ministro dell’economia di questo paese non abbia ricevuto il dossier prima dei giornalisti. La Banca Mondiale ha infratti tagliato le stime di crescita globale, sia per quest’anno che per il prossimo; avvertendo tra l’altro che l’economia internazionale è troppo dipendente dai soli Stati Uniti, la maggiore potenza economica al mondo.
Per il 2015 la previsione scende dal 3,4 al 3%, mentre per il prossimo anno si passa dal +3,5 al 3,3%. Un po’ più che una limatura, specie per l’anno in corso. Ma soprattutto una diagnosi preoccupata dello stato della malattia. La centralità dell’economia statunitense, sostanzialmente sostenuta dal loro ruolo di “consumatori di ultima istanza”, non è affatto una buona notizia per nessun paese. Non si vedono all’orizzonte altre “locomotive”, anche perché – cinesi a parte – tutti stanno puntando su un modello export oriented, che spinge a una riduzione dei consumi interni per espandersi su altri mercati. E se tutti fanno la stessa cosa il disastro è assicurato, perché un mercato globale funziona se esportatori e importatori, alla fin fine, si equivalgono. Altrimenti scoppiano guerre commerciali, monetarie, sui dazi, sugli “ostacoli non tariffari”, ecc. Che è poi la situazione attuale.

In un mondo di aspiranti esportatori è inevitabile che abbiano più successo quelli che possono vantare costi produttivi minori. Ovvero un costo del lavoro “competitivo”, visto che per tutti gli altri “fattori della produzione” (macchinari, energia, materie prime, ecc) i costi internazionali sono uguali per tutti. Non è quindi un caso che le stime di crescita siano migliorate soltanto per l’Asia meridionale (in cui parecchie multinazionali occidentali hanno trasferito di recente filiere produttive prima basate in patria o in Cina), mentre per aree come la Russia – fortemente dipendente dal prezzo del petrolio – si passi dall’attesa di una crescita dell’1,5% a una calo del Pil del 2,9%.
Un ragionamento che spinge anche la Banca Mondiale a non sopravvalutare gli effetti positivi del basso prezzo del greggio, perché i paesi produttori – obbligatoriamente – saranno costretti a tagliare le importazioni (che tutti vorrebbero invece veder aumentare). Di conseguenza, oltre a una crescita più debole, si confermano tutti i trend deflazionistici ora in azione.
En passant, cambiano le gerarchie ecnomiche globali. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, infatti, a parità di potere di acquisto la Cina è già ora diventata la prima potenza economica mondiale. Ma laggiù il mercato cercano di governarlo programmando, non aspettando che si rianimi abbonando “i buffi”.

 

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