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Abbiate fiducia. E’ un ordine!

Contrordine, italiani! Ora dovete avere fiducia, la crisi sta finendo, il paese ha cambiato verso, anzi, abbiamo fatto cambiare verso anche all’Europa…

Vien da sorridere a vedere anziani editorialisti nei panni del renzista giovanilista, ottimista a tutti i costi. Eppure più d’uno, dopo la pubblicazione dei dati Istat di ieri, ha fatto propria la retorica sbrasona e ideologica del premier: “il peggio è alle nostre spalle”, “i consumatori intravedono la luce in fondo al tunnel” e via sviolinando.

Partiamo dalla realtà. Cosa di cono i dati Istat? Due cose molto diverse tra loro: a) i consumi dlle famiglie sono scesi nel 2014 per il quarto anno consecutivo, dell’1,2% (ma sarà difficile che ne troviate notizia, almeno nei titoli dei giornali , di oggi), gli indici della “fiducia” sono in risalita, sia sul fronte dei consumatori (110,9) che su quello delle imprese (94,9).

Due osservazioni preliminari: la “fiducia delle imprese” resta ben sotto i 100 punti (il livello del 2005, anno di riferimento), e appare assai più contenuta di quella diei “consumatori”. C’è da capirlo, del resto. Le prime fanno i conti con fatturato e ordinativi, guardano al futuro senza illusioni, ma con avidità. La rilevazione tra i consumatori è assai pià aleatori, perché le risposte date dalle persone prese a campione sono inevitabilmente orientate – in parte – dalle proprie condizioni di vita e anche dal “clima” costruito dai mezzi di informazione. Senza nulla togliere alla serietà delle rilevazioni Istat, dunque, è proprio l’indice in quanto tale a essere costitutivamente “volatile”.

I consumi, invece, sono dati a consuntivo, cose già accadute, incorreggibili. La differenza è alquanto grande.

Dopo di che, qualche notizia “ottimistica” si può anche trovare. Ma non viene dalle dinamiche interne a questo paese. La Germania, nonostante tutto, è “costretta” fa crescere i salari (la domanda di forza lavoro è salita del 14$ in un anno, mentre la disoccupazione è ferma al 6,5%, poco sopra il limite fisiologico). I metalmeccanici, peer esempio, hanno firmato un contratto cn aumenti del 3,4%; che in un periodo di moderata deflazione significa circa il 3.5% di potere d’acquisto in più.

La previsione facile facile è di un aumento dei consumi tedeschi, che dovrebbe logicamente tradursi in maggiori importazioni di merci da altri partner europei. Un po’ di fiato anche per le economie dei Piigs, insomma, comunque costrette alla stretta salariale interna per favorire un modello export oriented.

La stessa decisione della Commissione europea – far slittare ad altri anni la vigenza del “fiscal compact”, altrimenti l’Italia sarebbe crollata in pochi mesi ai livelli greci – contribuisce ad “addolcire” le pillole amarissime che il governo Renzi sta infilando a forza nella gola di un modo del lavoro dipendente mai così catatonico.

Mettiamoci anche il quantitative easing della Bce, che muoverà i primi passi sui mercati la prossima settimana, e abbiamo un quadro esterno meno depressivo. Non è detto che il soldi regalati alle banche in cambio di titoli di stato finiranno in percentuale significativa in pestiti alle imprese; né che le imprese stesse chiederanno prestiti per fare nuovi investimenti produttivi. Ma è un vincolo negativo in meno, ertamente. Così come il calo dello spread sotto i 100 punti significa, per lo stato italiano, meno miliardi da sborsare per interessi sul debito pubblico.

C’è da aver fiducia? Diciamo che si “driver” per la crescita, o “locomotive”, non se ne vedono. Né come settori produttivi, né come aree geopolitiche. Anzi, i segnali che arrivano dagli Stati Uniti – dove la Federal Reserve sembra sul punto di far ripartire al rialzo i tassi di interesse, ancora una volta in controtendenza rispetto all’Europa – ripropongono scenari meno lineari.

Per esempio, l’ex presidente della Fed Alan Greenspan smentisce le dichiarazioni dell’attuale numero uno dell’istituto, Janet Yellen. “Il mercato azionario sta riportando davvero una buona performance. L’economia no”.
La “crescita economica degli Stati Uniti non è solida” ed è stata la Fed il principale motore dell’espansione dei P/E delle azioni. La Banca centrale americana, insomma, sarebbe la vera responsabile dell’inflazione in atto nel mercato azionario (ha creato una “bolla”, così come aveva fatto più volte lo stesso Greenspan).
Peggio: “il fatto che i tassi a lungo termine siano bassi non è un enigma. E’ un’indicazione di quanto la crescita dell’economia globale sia debole”. Il punto è che la “la domanda effettiva è straordinariamente debole – simile agli ultimi stadi della Grande Depressione”.
Alla domanda su come le cose andranno a finire, Greenspan risponde: “Dipende… quando i tassi di interesse reali inizieranno a salire, è allora che la crisi potrebbe colpire”. Infine: “quasi tutti i problemi sono dovuti all’assenza di investimenti in capitale di lungo periodo, riflettendo perfettamente la preferenza delle
aziende di rafforzare gli azionisti attraverso operazioni di buyback, piuttosto che investire nella crescita societaria dell’economia…” e comunque “nessuno vuole investire nel lungo termine perchè nessuno sa cosa
accadrà”.

Come dovrebbe esser noto a tutti, dopo “gli ultimi stadi della Grande Depressione” scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, non la crescita economica…

E quindi, su cosa pretendete di sollevare “speranze”?

 

 

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