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E venne il giorno più atteso: lunedì la Bce aprirà i rubinetti della liquidità, stampando 60 miliardi di euro in più ogni mese, da qui al settembre 2016 (“ma anche oltre, se necessario…”), per acquistare titoli di stato dei paesi dell’eurozona (40 miliardi) e “prodotti derivati” (asset backed securities, titoli speculativi impacchettati da bance di investimento private).

In pratica, si tratta di una gigantesca operazione di “lavanderia” mirata a liberare le banche private da tutta quella carta straccia che hanno in cassaforte e che non ha più mercato né prezzo adeguati. In questo modo, colmando di liquidità le banche, la Bce spera di avviare un circolo virtuoso in cui il credito ricomincia a fluire verso le imprese che vogliono investire e le famiglie che vogliono fare acquisti impegnativi.

In questo modo, si calcola, l’inflazione dovrebbe ricominciare a salire, almeno fino all’obiettivo “desiderabile” dell’1,8% annuo, così da lasciarsi alle spalle il mostro della deflazione. Ovvero quell’oscura voragine in cui si smette di investire e comprare perch* i prezzi sono in calo e quindi si attende che calino ancora per fare affari migliori, fino al punto che nessuno investe o compra più.

La domanda è: ma le imprese vogliono investire? E i consumatori hanno abbastanza reddito per programmare acquisti sul medio periodo?

Se guardiamo ai dati recenti, molti dubbi sono legittimi. Dall’inizio della crisi finanziaria gli investimenti in Europa sono praticamente scomparsi (-25%; ma per l’Italia c’è addirittura un -58% negli investimenti dall’estero), mentre i consumi di merci non di prima necessità sono calati o rimasti fermi (i giornali di oggi vanno a spiluccare sugli incassi dei baristi e sulla lieve ripresa del mercato automobilistico per “dimostrare” che la ripresa è alle porte).

In secondo luogo, la liquidità della Bce sarà per l’80% in capo alle banche centrali nazionali. La Banca d’Italia, per esempio, sarà impegnata per 130 miliardi (la quota proporzionali alla partecipazione nella Bce), vincolando così le proprie riserve, anche quelle auree. Di fatto, questo significa inchiodare ogni singolo stato, a cominciare da quello italiano, e impedirgli di chiedere – in qualsiasi futuro – di “rinegoziare” il debito. 

Nessuna “condivisione comunitaria del rischio”, insomma, se non nella misura limitata al 20%. Visto il criterio del quantitative easing – acquisto di titoli di stato per non più del 33% del debito e in proporzione alle quote possedute in Bce – il maggiore beneficiario di questo repulisti sarà… la Germania. Le cui banche private sono anche quelle più speculative dell’eurozona (insieme alle francesi) e le più impelagate con i titoli “derivati”. Ma, secondo le regole decise dalla sorvelgianza bancaria europea, sarebbero anche le più “sane” perché meno impegnate nei prestiti a imprese e famiglie. Una situazione da pazzi, se non fosse vera, per cui si va a rafforzare la posizione dei più forti, proprio mentre si preme il piede sul tubo dell’ossigeno per Atene e Cipro.

Non a caso l’unico problema che la Bce e l’Unione Europea sembrano prendere in considerazione è “l’indisciplina” del nuovo governo greco rispetto alle direttive della Troika. Un richiamo diretto, e assolutamente inusuale, è venuto dallo stesso Mario Draghi, ieri, nei confronti di Yanis Varoufakis, ministro delle finanze del governo Tsipras. Parlava delle sue dichiarazioni sulla sostanziale non ripagabilità del debito ellenico, ma pare proprio che fosse innervosito dalla più recente “trovata tecnica” del Tesoro greco: “farsi prestare (a scadenza brevissima, ma rinnovata di continuo) i fondi che le imprese statali hanno depositato presso le banche commerciali. Queste ultime funzionano solo grazie ai fondi di emergenza della Bce, che però poi affluiscono al Tesoro greco… In sostanza l’Eurotower, senza che le sia stato detto, si trova a coprire il deficit del governo di Atene tramiti i depositi bancari delle imprese pubbliche stornati al Tesoro. I soldi per rendere liquidi e pagabili quei depositi vengono da Francoforte” (Federico Fubini, Repubblica, oggi).

Una trovata da azzeccagarbugli, che sfrutta “le regole” esistenti – pensate per favorire solo le banche private – per rivolgerle contro chi le ha pensate e dare lo stesso un po’  di fiato al paese. Chiaro che è un gioco destinato a non durare a lungo. Ma se hai deciso di restare nella Ue e nell’euro, e nessuno dei tuoi “partner” vuole farti respirare, non ti resta che passare alle maniere forti. O almeno “furbe”.

Grecia (e Cipro) a parte, le attese ottimistiche sulla “ripresa alle porte” si giocano sull’incrocio possibile di alcune variabili: il Qe della Bce, il calo del prezzo del petrolio e la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro (ma non di altre monete). Draghi vi aggiunge sempre la “necessità di profonde riforme strutturali” (diritto e regole del mercato del lavoro, tagli a sanità, pensioni, spesa pubblica in genere), ma dovunque si fa fatica a realizzarle senza conflitto sociale.

Di questi elementi, però, già uno minaccia di svanire presto. L’Arabia Saudita, pochi giorni fa, ha riaperto la corsa al rialzo del prezzo del greggio, aumentando di oltre un dollaro la tariffa sulle forniture di aprile. Un segnale chiaro: la breve stagione del calo è già finita. Un vantaggio in meno, a medio termine, peraltro già erosa dal acontemporaneo calo dell’euro (il petrolio si paga in dollari, quindi se l’euro cala se ne devono spendere di più).

In ogni caso, a bocce ferme, il Qe di Draghi avrà un certo effetto sugli spread, e quindi sulla quota di interessi sul debito pubblico che, specie i paesi più deboli, debbono sborsare. Una buona notizia per quei governi che debbono trovare qualche spicciolo per fare almeno gli investimenti pubblici “permessi” dall’Unione Europea.

Ma da questo beneficio, ha spiegato lo stesso Draghi, sarà per il momento esclusa la Grecia, che “prima deve fare le riforme” e poi – forse – avrà qualche soldo. La spina che può bucare il pallone dell’ottimismo, insomma, sta ancora lì. Puntuta.

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