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Un paese in vendita

Berlusconi si ritira e vende. O almeno cede quote rilevanti dei suoi gioielli. Mediaset e Milan sono sul mercato, anzi in fase avanzata di trattativa finale. Un tycoon thailandese (o forse uno cinese) prenderà in mano la squadra di calcio, che si porta dietro progetti multimilionari per stadio e accessori (diritti televisivi, merchandising, ecc). I più noti Rupert Murdoch e Vincent Bolloré trattano per entrare in Mediaset; e non certo da comprimari.

Non ce be frega assolutamente nulla delle sorti del signor Caimano, qui cerchiamo semplicemente di capire  – attraverso un esempio rilevante per dimensioni del capitale “movimentato” – la tendenza, le direttrici di sviluppo o decadenza del paese in cui viviamo.

L’elemento principale, evidentissimo, è che questo è un paese in vendita. Si può discutere ogni volta se il prezzo è adeguato, ma non il senso di tutte le operazioni industriali ch estanno avvenendo da qualche anno a questa parte. Non esise infatti una sola grande operazione, giocata intorno a un qualche pezzo pregiato del patrimonio industriale, che abbia visto protagonista un imprenditore “italico”. 

Fiat è diventata americana e non mistero di mantenere in Italia una presenza minima soltanto per motivi di marchio (specie per quanto riguarda i brand a più alto margine di profitto: Ferrari e Maserati). Ha cambiato nome (Fca), sede legale e fiscale (Olanda e Gran Bretagna), ha in Chrysler il suo futuro (trainato soprattutto dal marchio Jeep). 

Pirelli va in buona misura ai cinesi, Alitalia agli arabi di Etihad, i treni Breda (Finmeccanica, ovvero proprietà statale) ancora ai cinesi, Indesit è stata regalata agli americani di Whirlpool che infatti ora stanno chiudendo, Lamborghini e Ducati sono da anni in mano tedesca. Potremmo fare un elenco lunghissimo, ma non cambierebbe il segno: l’imprenditore “nazionale” vende, quello multinazionale compra. 

Nemeno le società ad esclusivo valore simbolico-indentitario – come in fondo sono quelle del calcio – seguono un destino differente. La Roma è statunitense, il Milan sarà asiatico come l’Inter di Tohrir, la Juve è per ora ancora una controllata Fiat (con tutte le conseguenze legate al cambiamento di orizzonte della società madre). Vanno in mani multinazionali le squadre che hanno una notorietà internazionale per meriti sportivi o storico-culturali (Roma, per esempio). Restano per ora in mani locali le società senza appeal globale (Carpi, stai sereno!), ma devono temere incusioni – per esempio – Firenze e Napoli.

E’ il mercato, bellezza! Tutto si vende e si compra, non esiste nulla di sacro e inviolabile (al massimo qualche asset strategico perché legato alla sicurezza militare, ma anche li…). Nulla che possa o debba essere “difeso” nazionalisticamente.

E noi siamo internazionalisti da sempre, dov’è lo scandalo?

Un paese la cui nervatura produttiva e anche simbolica è di proprietà delle multinazionali è un paese ributtato nel Terzo Mondo (non è insulto, ma una constatazione), ma senza più la possibilità di diventare “emergente”. E’ un paese che, qualsiasi sia la sua maggioranza politica, è privato della possibilità di decidere il come governarsi. L’esempio delle tribolazioni greche – la cui unica industria ancora “nazionale” è costituita dal commercio navale – dovrebbe essere illuminante. Se la “rappresentanza politica” egemone non corrisponde pienamente alle attese dell’impresa multinazionale, quell’impresa se ne va da un’altra parte, smobilita, depriva questo territorio degli strumenti per creare comunque ricchezza.

Diventa insomma un paese “irriformabile”. Perché – per usare un’immagine banale e consunta – dalla “stanza dei bottoni” non si può più attivare quasi niente, tranne la polizia per reprimere le rivolte. 

E’ una condizione generale, sul pianeta. Fanno eccezione i paesi o le aree geostrategiche forti (Usa, Cina, Russia, in parte le filiere produttive europee che fanno capo alle multinazionali “tedesche”), che mantengono programmaticamente una capacità autonoma di “fare industria”, in barba ai princìpi del libero mercato che pure a parole difendono e in nome del quale pretendono “liberalizzazioni” e “privatizzazioni” nei territori altrui. Soprattutto in quelli altrui.

E’ una condizione non nuova in linea di principio, ma lo è certamente come dimensione delle dinamiche che sono in atto. E che qui da noi, tra un guitto di Pontassieve e un Caimano in disarmo, non trovano alcuna resistenza. Anzi…

 

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