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La “new economy” non produce (abbastanza) posti di lavoro

Ricordate quel mantra (capitalista) secondo cio il progresso tecnologico distrugge vecchi posti di lavoro ma ne produce molti di più?

Beh, non è più vero. La new economy in generale ha creato milioni di nuovi occupati, in tutto il mondo, ma ha distrutto più di quanto ha creato. Soprattutto ha reso possibili nuove forme di relazione tra impresa e singoli lavoratori fondate sulla precarietà assoluta e la strutturale “inavvicinabilità” dell’azienda da parte dei “sottoposti”.

Un esempio serve però a chiarire un discorso altrimenti complesso. 

Il Wall Street Journal – un media diretta espressione del capitale finanziario globale, di proprietà di Rupert Murdoch, dunque insospettabile di cripto-marxismo – è andato ad analizzare la realtà di alcune aziende leader della sharing economy, la cosiddetta “economia della condivisione”, scoprendo che non c’è nulla di peggio: profitti altissimi, salari da fame, sfruttamento totale, precarietà assoluta, posti di lavoro programmaticamente “volatili”. Anzi, quasi inesistenti.

In concreto sono stati scandagliati i modelli di business di Uber (che ha sollevato le proteste dei tassisti di tutto il mondo) e Airbnb (che connette chiunque voglia fare della sua abitazione un “bed and breakfast” temporaneo), o imprese similari. Una pacchia per il consumatore dinamico globalizzato, che può dunque scegliere l’offerta al prezzo più basso, una bonanza indescrivibile per le aziende che gestiscono lo sharing, un mezzo disastro per chi deve fornire il servizio materiale a prezzi stracciati.

Non è complicato capire che un affittacamere a giornata non è certo un “dipendente” di Airbnb; ma neanche un piccolo imprenditore in proprio, perché dipende totalmente dal “passaparola” online intermediato dalla multinazionale, che si ciuccia buona parte del prezzo spuntato e scontato. 

Ancora peggio va per chi ha a che fare con Uber. Qui l’azienda promette guadagni favolosi, fino a 90.000 dollari l’anno (80.000 euro), ma è una bufala. La tariffa media spuntata da un autista improvvisato viaggia, negli Stati Uniti, intorno ai 17 dollari l’ora, da cui deve però scalare i costi (benzina e usura dell’automobile, gomme, ecc, che un problema tutto suo). Insomma, al massimo 10 dollari l’ora (9 euro), meno di una baby sitter o quasi. E sorvoliamo sulla “continuità” di questo reddito, esposto ai ritmi delle stagione, della concorrenza tra poveri cristi, ecc.

Sì, va bene, direte voi, ma è pur sempre un posto di lavoro. Nemmeno un po’. Uber dice di aumentare i suoi autisti a un ritmo di 20.000 al mese (boom!). Ma la quasi totalità di loro vive in realtà con altre occupazioni e “arrotonda” offrendo un passaggio pagato con l’intermediazione di Uber. Nemmeno l’ufficio statistico statunitense, uno dei più larghi di manica sui criteri per considerare un essere umano “occupato”, riuscirebbe a calcolare questo come un “posto di lavoro”.

Quei 20.000 “nuovi autisti” sono insomma semplicemente nomi su una lista di nomi contattabili via software, in automatico (si risparmia molto, rispetto a una centralinista). Non esistono contratti, non sono possibili reclami, non c’ènulla che possa far definire questa attività saltuaria un “posto di lavoro”. E’ piuttosto una sorta di job on call totalmente a tua carico. Diciamo che è un qualcosa più vicino alla prostituzione che non a una vera “attività economica”…

Sul piano sistemico, dunque, questo modello di business reso possibile da tecnologie informatiche distrugge altri modelli di business fondati sull’occupazione mediamente “stabile” (per come può esserlo il servizio taxi negli Stati Uniti o altrove. ma già se si guarda al settore alberghiero la situazione è molto più pesante). Ma non crea un numero di nuovi posti di lavoro almeno paragonabile, per quantità, a quelli che cancella.

In più, precarizza totalemente la relazione tra dipendente e azienda, sottraendola a qualsiasi regolazione di legge. DI fatto, una azienda sharing non deve nulla se non la mercede pattuita per la quantità di tempo stabilita (un “servizio escort” dicevamo…). I suoi unici dipendenti veri sono gli amministratori del sistema software e qualche impiegato addetto a smaltire le lamentele (di “clienti” e “collaboratori”), indirizzandole verso un mega-cestino da cui non usciranno più.

A meno di fantasiose e clamorose class action che farebbe sgonfare questo modello di business a una velocita tripla rispetto ala sua crescita.

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