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Pil e occupazione sotto l’effetto droga della “decontribuzione”

Occupazione e Pil in aumento, pare, e Renzi si intesta il successo. Tutto normale, se fosse anche vero. Ma leggere i dati pubblicati ieri dall’Istat, in tre distinti report (Occupati e disoccupati, sia su base che trimestrale, e Conti economici trimestrali), qualche legittimo dubbio è venuto anche Dario Di Vico – vicedirettore del Corriere della Sera – figuriamoci a noi…

Partiamo dall’occupazione. Su base mensile – luglio – quella dell’Istat è una “stima”, una previsione, non ancora un dato acquisito. E in ogni caso quello 0,1% in più non appare una cifra per cui alzare archi di trionfo. Sempre meglio di un segno meno, certo, ma non un “cambio di passo”.

Vista in dettaglio, poi, la cosa assume contorni ancora meno entusiasmanti. Ci sono 44.000 occupati in più rispetto al mese precedente e 235.000 rispetto allo stesso mese dell’anno prime. Ma il prodotto interno lordo (Pil) è aumentato dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dello 0,7% nei confronti del secondo trimestre del 2014.

In percentuale, insomma, si tratta di una crescita inferiore a quella dell’occupazione. Cosa significa? L’Istat non ce lo può dire, perché questa relazione non viene rilevata statisticamente, ma con molta probabilità si tratta di occupati in attività a bassa “composizione organica”, ovvero di scarso livello tecnologico e niente affatto “innovative”. Turismo, ristorazione, alberghiero, ecc.

La conferma viene dai dati settoriali. Nell’industria propriamente detta l’occupazione è rimasta invariata (è cresciuta un poco al Nord, è diminuita al Sud), mentre nell’edilizia c’è stata una ripresa quasi impercettibile; solo i servizi hanno effettivamente “tirato” posti di lavoro. Probabilmente si tratta di un effetto indiretto del famigerato Jobs Act: la possibilità per le imprese di utilizzare la decontribuzione sui nuovi assunti (fino a 8.000 euro l’anno), mantenendo la possibilità di licenziare in qualunque momento, ha spinto un certo tipo di “imprese” a far emergere una parte del lavoro nero.

La diminuzione del tasso di disoccupazione, in questo quadro, appare come il sommarsi di emersione dal nero e “scoraggiamento” dei disoccupati di lungo corso, che smettono dunque di iscriversi ai centri per l’impiego ed escono perciò automaticamente dalle rilevazioni statistiche.

Questa tendenza generale (emersione dal nero in settori ad alta composizione di lavoro) esce confernata e rafforzata da una lettura dei dati trimestrali. Nel secondo trimestre 2015, infatti, continua la crescita degli occupati, stimata a +180 mila unità (0,8% in un anno). Si tratta del quinto trimestre positivo a fronte di una crescita del Pil – nello stesso periodo – quasi impercettibile. Perché le imprese assumono “in chiaro” gente se la produzione di ricchezza non aumenta? O sono diventate una branca della Caritas, oppure c’è da sfruttare un vantaggio (quello contributivo, appunto) che peserà a medio termine sulle entrate dell’Inps mentre alleggerisce i bilanci aziendali.

Non si spiega altrimenti l’aumento dell’occupazione nel Mezzogiorno (+2,1%, 120 mila unità), né quella dei lavoratori a tempo pieno (+139 mila unità). Tanto più che non diminuisce affatto la crescita degli occupati a tempo parziale (+1,0%, 41 mila unità nel raffronto tendenziale), peraltro nella stragrande maggioranza in part time involontario (per il 64,6%); né aumenta il numero dei lavoratori “autonomi”. Quindi non resta che l’ipotesi iniziale: emersione dal nero pagata dallo Stato.

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