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Meno pensionati, e i “nuovi” hanno assegni più bassi

Difficile districarsi nella condizione dei pensionati italiani, stretti come siamo tra dati fasulli (quelli esibiti per chiedere ulteriori tagli), estrapolazioni arbitrarie, pessima propaganda e giornalismo trash.

Grazie all’Istat – e a un po’ di esperienza giornalistica – si può però guardare meglio e mandare a quel paese i mestatori di cui sopra.

E cosa ci dice l’Istat? Che nel 2014 (i dati per il 2015, appena chiuso, ovviamente non ci possono ancora essere) i pensionati erano 16,3 milioni, -134mila in meno rispetto al 2013. Nessuna sorpresa, è il secondo anno di “effetto Fornero”, dal nome del ministro che nel 2011 ha assestato il colpo quasi definitivo al diritto di trascorrere in santa ace gli ultimi anni di vita. Banalmente, è stata allungata l’età pensionabile e quindi nel 2014 (come nel 2013 e a maggior ragione negli anni da qui in avanti) il numero di quanti sono potuti andare in pensione è largamente inferiore a quello dei pensionati che sono morti, “cessando” così dal trattamento. Siamo curiosi di vedere i dati del 2015, alla luce di quei 68.000 morti in più rispetto all’anno precedente…

Gli attuali pensionati percepiscono in media un reddito pensionistico lordo di 17 mila 040 euro (+400 euro circa sull’anno precedente). Ma attenzione: non c’è stato alcun aumento delle pensioni (se non l’aggiornamento all’inflazione per la fasce di reddito più basse, e comunque in misura assolutamente inferiore ai 400 euro annui). Anzi, avverte l’Istat, “I redditi dei nuovi pensionati sono mediamente inferiori a quelli dei cessati (13.965 euro contro 15.356 euro) e a quelli dei pensionati sopravviventi (17.146 euro), percettori cioè di trattamenti sia nel 2013 sia nel 2014”.

Come si spiega allora questo aumento del trattamento medio? In assenza di dati che spieghino questa discrepanza (meno nuovi pensionati, con assegno più basso) non resta che ipotizzare quanto vediamo spesso negli ospedali o nelle code dal medico di famiglia: il numero più alto di pensionati morti si dovrebbe essere verificato tra quelli più poveri, con un trattamento pensionistico al minimo o poco sopra. Il che sarebbe anche in linea con la marcata riduzione della spesa per ticket sanitari, dopo numerosi aumenti tariffari.

Il calo più drastico c’è stato tra le pensioni di vecchiaia, ossia quelle di lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile (-102 mila) decretata dal duo Fornero-Monti. Ma anche quelle di invalidità (-74.000) pagano un prezzo alto alla “stretta” sulle condizioni di accesso al trattamento.

Di conseguenza, si alza anche l’età media, con un rafforzamento della componente “over 64”.

Altri dati non destano particolari sorprese. Come il fatto che l’entità dell’assegno mensile sia in stretta relazione con il livello dei titoli di studio. Mediamente un pensionato laureato prende circa il doppio di uno con la licenza media. Anche qui bisogna fare attenzione, però: non è che ogni laureato prenda il doppio, perché il numero dei laureati è relativamente e, soprattutto, è qui che si concentrano i titolari di “pensioni d’oro” (ex parlamentari, ministri, magistrati, personale diplomatico, dirigenti di aziende private e pubbliche, ecc).

Il dato, se bisogna dar retta alle parole di ministri come Poletti, cambierà presto nel tempo. Il numero di giovani laureati costretti a lavori precari e sottopagati è tale che ben difficilmente in un lontano futuro questi potranno godere di trattamenti pensionistici molto migliori dei non-laureati. E non basteranno certo quei pochi diplomati aspirati al vertice politico (come lo Stesso Poletti, Lorenzin, Faraone, ecc) ad alzare la media pensionistica del comparto.

Resta comunque quasi intatto il divario di reddito tra pensionati uomini e donne. Quasi 6.000 euro annuali, che solo in parte si possono giustificare con carriere maggiormente discontinue, mentre pesa certamente molto la disparità salariale ancora vigente.

Sempre più marcata, invece, la centralità del pensionato nel reddito familiare per evitare il rischio di cadere nella povertà assoluta o relativa. Come riporta la nota Istat: “Per quasi 7 milioni e 800 mila famiglie con pensionati (62,7%), i trasferimenti pensionistici rappresentano oltre i tre quarti del reddito familiare disponibile ; nel 26,5% dei casi le prestazioni ai pensionati sono l’unica fonte monetaria di reddito (circa 3,3 milioni di famiglie). Se in famiglia vi sono solo pensionati, sale all’86% la percentuale di famiglie in cui i trasferimenti pensionistici costituiscono almeno i tre quarti delle risorse. D’altra parte, per oltre 3 milioni di famiglie (26,3%) i trasferimenti pensionistici rappresentano meno della metà delle entrate familiari”.

E le percentuali aumentano di molto specialmente tra i redditi più bassi: “Nonostante il valore medio e mediano del reddito delle famiglie con pensi onati sia più basso rispetto alle restanti famiglie, il rischio di povertà delle prime (16%) è circa 6 punti percentuali più basso di quello delle seconde. La presenza di trasferimenti pensionistici rappresenta, dunque, un’importante rete di protezione che previene il rischio di disagio economico. La presenza di un pensionato all’interno di nuclei familiari vulnerabili, quali quelli di genitori soli o di famiglie di altra tipologia, consente di dimezzare il rischio di povertà (rispettivamente dal 35,3% al 17,2% e dal 28,9% al 14,2%).”.

Aumentando il numero dei pensionati che “cessano”, perché passati a miglior vita, verrà dunque riscontrato facilmente un aumento della povertà, sia assoluta che relativa.

Ma state tranquilli, “l’Italia è ripartita”. Ve lo garantisce Renzi…

 

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