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Inizio d’anno da paura per le borse globali

In una situazione incerta, ogni notizia è potenzialmente negativa. Se poi si tratta della bomba atomica in mano a qualcuno che prima non l’aveva (la Corea del Nord ne ha fatta esplodere una per un test, e asserisce che fosse all’idrogeno) e che soprattutto nessuno controlla, allora qualche scossone alle borse sembra inevitabile.

Col passare delle ore, lo spavento sembrava rientrato, e solo Tokyo – nel frattempo chiusa – aveva lasciato sul terreno qualcosa di tangibile (appena l’1%, però), mentre tutte le piazze europee, pur partendo in rosso, avevano rapidamente recuperato livelli più tranquilli. Al dunque, sembrava prevalere una considerazione di buon senso: anche con l’atomica il Nord Corea non preoccupa troppo il mondo reale, al massimo agita le redazioni giornalistiche e la propaganda governativa (unanimemente contro).

Sullo sfondo, le preoccupazioni della finanza globale sono ben altre. E ben presto queste ultime hanno riportato in negativo le quotazioni sul Vecchio Continente.

Il rallentamento dell’economia cinese è consistente, così come la volatilità delle sue due piazze finanziarie interne (Shangai e Shenzen). E certo non ha tranquillizzato affato la decisione della Banca centrale di Pechino si svalutare nuovamente lo yuan, indicando il tasso di riferimento a 6,5314 per un dollaro. Meno che nell’aprile 2011. L’impressione generale è che la Cina stia “accompagnando” la discesa della moneta nazionale, nel tentativo di evitare quanto occorso tempo fa al rublo russo. Ma è chiaro che si tratta anche di una risposta alla “guerra delle monete” in atto ormai da diversi anni.

Ma è tutto il fronte dei paesi un tempo “emergenti” (una quindicina quelli principali, dal Brasile alla Turchia, alla Thailandia) a far segnare performance generalmente negative.

E qui l’intreccio di contraddizioni all’apparenza irrisolvibili – senza grossi dolori, almeno – si fa veramente inestricabile. Questi paesi, in appena cinque anni, e mentre tutto l’Occidente sviluppato arretrava o restava fermo (+6%), sono cresciuti mediamente del 48%. Un gigantesco balzo in avanti finanziato ricorrendo al debito, grazie anche ai tassi zero praticati a lungo dalla Federal Reserve statunitense, dalla Boj giapponese e infine dalla Bce. Conseguenza: circa il 70% di questo indebitamento è denominato in dollari, e ora sta subendo una prima rivalutazione in seguito alla scelta della Fed, a dicembre, di cominciare a rialzare i tassi di interesse.

Questo signifca dover pagare un “servizio del debito” più caro, proprio nel momento in cui – invece – la frenata cinese ha mandato fuori giri il mercato globale delle materie prime (di cui gli emergenti sono in genere forti produttori), facendo crollare i prezzi mediamente di un terzo come conseguenza diretta del calo della domanda di Pechino. E se ti crollano le entrate mentre crescono le uscite, è facilissimo andare in crisi, nonostante tutti questi paesi applichino normative decisamente friendly nei confronti dei capitali stranieri.

I quali hanno ben presto preso altre strade, dirigendosi in primo luogo verso quelle aree monetarie (dollaro e yen) in grado di fornire a breve rendimenti maggiori. L’Institute of International Finance calcola infatti che per la prima volta da oltre 25 anni i capitali in fuga dai paesi emergenti hanno superato quantitativamente quelli in ingresso.

Il circolo vizioso diventa così chiarissimo, perché la carenza di capitali da investimento trascina al ribasso la dinamica dell’economia reale di questi paesi mentre innalza il costo del debito in modo potenzialmente devastante.

E nonostante i giornali economici italiani siano pieni di “consigli per i piccoli investitori” per affrontare tempi tempestosi, gli “investitori istituzionali” – belli carichi di denaro liquido, dopo sette anni di quantitative easing – sono assai più incerti sulla direzione da rendere. E quindi, com’è quasi ovvio, per ora parcheggiano in quei porti che sentono più sicuri. Gli Usa.

 

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