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La spia del petrolio segnala crisi nera

Funziona tutto al contrario, abbiamo scritto alcuni giorni fa. E guardando alla dinamica del prezzo del petrolio – materia prima fondamentale dell’economia, fonte privilegiata di energia per la mobilità e la produzione industriale, merce che entra nella formazione del prezzo di tutte le altre (come solo il lavoro umano fa) – la conferma esplode davanti agli occhi di tutti. Di quelli che vogliono vedere, almeno.

In effetti non c’è mai stato un momento di guerra guerreggiata in Medio Oriente, addirittura all’interno e fra produttori di greggio, in cui la tensione non si sia scaricata sui prezzi, facendoli innalzare a livelli paurosi. Qui sta avvenendo da oltre un anno l’opposto. Il petrolio è calato di oltre il 70% rispetto al luglio 2014 e di circa il 20% nell’ultimo mese, quello in cui sono cresciute fino al punto di rottura le paure di un possibile conflitto tra Arabia Saudita e Iran, le due più grandi potenze – anche petrolifere – del Golfo.

Qualcuno tra i “previsori” di professione – una categoria sfortunata, in genere; non ci azzeccano quasi mai – arriva ad ipotizzare un prezzo vicino ai 20 dollari.

Se vogliamo aggiungere elementi, non c’è mai stato così tanto petrolio disponibile sul mercato – a prezzi stracciati – a dispetto del fatto che le riserve di idrocarburi vanno scemando rapidamente (pur nell’incertezza di dati che spesso costituiscono un segreto di stato ben protetto). Responsabilità in primo luogo dell’Arabia Saudita, che ha aumentato di proposito i quantitativi estratti, rompendo anche l’unità dell’Opec, nel tentativo di mettere fuori mercato sia la Russia che l’Iran (nemici storici per ragioni diverse), oltre che le società statunitensi dello shale oil; che hanno inondato a loro volta il mercato con idrocarbuti di diversa qualità, ma che devono affrontare costi di estrazione medi oscillanti tra i 40 e gli 80 dollari al barile.

Nell’offensiva saudita i calcoli sbagliati sono stati certamente molti, a cominciare dalla capacità di resistenza del comparto shale, che continua a estrarre in perdita ma può contare – per ora – su finanziamenti poderosi reperiti sui mercati statunitensi, nella speranza di incontrare il prima possibile un rialzo sostanzioso e duratura del prezzo. Non è strano, in ambito capitalistico: faccio debiti ma difendo quote di mercato, poi vediamo…

Anche Russia e Iran, per quanto ammaccati sul piano delle entrate, hanno messo a punto nell’ultimo anno diversi successi politico-diplomatici assumendo – spesso anche di concerto – un ruolo centrale nel conflitto in “Siraq”, che doveva essere nelle intenzioni saudite una specie di “cortile di casa”.

Ma cambiare strategia in corsa non è facile. Quindi per ora si continua a pompare – da parte di tutti i produttori – a più non posso.

Il che provoca molti problemi sia nell’economia reale che nella finanza internazionale, perché il petrolio e tutto ciò che ci gira intorno (titoli, future, swaps, prodotti finanziari derivati di ogni tipo, ecc) hanno un peso devastante qualsiasi equilibrio possibile.

In questo momento prevalgono i timori finanziari, accentuati dalla scelta della Federal Reserve statunitense di aumentare gradualmente i tassi di interesse. Del resto, tra le cose che vanno all’incontrario, non si può certo sottovalutare il dato per cui – per oltre sette anni – su molti mercati il costo del denaro da prestito è stato pari a zero o addirittura negativo. E, in regime capitalistico, vi sembra normale che il capitale non possa programmaticamente ottenere un profitto sul proprio impiego?

Il rialzo dei tassi Usa comporta comunque un apprezzamento del dollaro, che è contemporaneamente unità di misura dei prezzi delle materie prime (commodities) e moneta utilizzata per molti titoli di debito. La contemporanea, robusta, frenata della Cina, diventata da due decenni almeno la manifattura del mondo, implica di fatto una discesa contemporanea di tutte le materie prime (se si produce meno, c’è meno domanda).

Subito questi problemi diventano “reali”, perché molti paesi emergenti sono appunto produttori di commodities (quindi hanno davanti ancora un lungo periodo di prezzi bassi e in discesa), ma anche indebitati in dollari (sette anni di denaro a tasso zero, soprattutto negli Usa, avevano favorito la domanda di prestiti per investire in miniere e infrastrutture per l’estrazione e per il trasporto). Una condizione esplosiva, come sa chi va in cassa integrazione o in mobilità e vede salire il costo del mutuo…

Non basta. Un quarto di secolo di globalizzazione aveva creato una divisione internazionale del lavoro che sembrava accontentare tutti. Alcuni “emergenti” diventavano paesi industrializzati per produrre una enorme varietà di manufatti (dai giocattoli agli smartphone), deindustrializzando al contempo i paesi più avanzati, che andavano concentrandosi sui servizi e sui prodotti a più alto valore aggiunto, a tecnologia avanzata.

Sembrava l’uovo di Colombo. “Loro” producevano per noi tutta quella minutaglia (in senso lato) che non era più conveniente produrre qui. Mentre “noi” continuavamo a produrre macchinari ad alta tecnologia da vendere a “loro”. In questo modo si poteva dare anche una mazzata stordente ai lavoratori e alle loro rappresentanze sindacali e politiche, riducendo salari e cancellando istituti storici del welfare occidentale (sanità, pensioni, istruzione) e ristabilire condizioni “ottocentesche” nei rapporti di forza tra le classi. I più bassi salari “laggiù” mantenevano bassissimi i prezzi delle merci che andavano comprate “qui”, anche da chi si ritrovava con un salario bloccato o in discesa. Che pacchia…

Il ballo del prezzo del petrolio, prima salito fino a 147 dollari al barile – nelle settimane precedenti l’esplosione del ciclone Lehmann Bothers, nel 2008 – poi crollato a 30, quindi risalito alla media dei 100-110 dollari al barile, tra il 2010 e la metà del 2014, infine ricaduto ai livelli attuali, sembra aver spezzato quel “circolo virtuoso”. O, almeno, ha registrato la rottura di equilibri stabili per quasi 70 anni.

La crisi degli “emergenti” significa per i paesi industrializzati la crisi delle esportazioni proprio mentre il basso prezzo del greggio potrebbe favorire la produzione – laggiù – di merci a prezzo ancora più basso. Uno scenario deflattivo niente affatto virtuoso, perché i prezzi in discesa bloccano gli investimenti, oltre che i salari. E allontanano qualsiasi ipotesi di “crescita” dell’economia globale.

Il blocco degli investimenti avverrebbe – sta già avvenendo – anche e soprattutto nel comparto delle estrazioni di greggio. Il che pregiudica, a medio termine, la possibilità di mantenere gli attuali alti livelli di produzione ed anche la possibilità di affrontare un eventuale rialzo della domanda.

Infine, il ripetersi di attacchi “terroristici” (è ormai il tempo di smettere di utilizzare questo termine per indicare gli episodi di una guerra inter-imperialista asimmetrica, dunque combattuta da una parte con i cacciabombardieri, dall’altra con bombardieri umani a caccia di “turisti”) sta lucidamente definendo una rima di frattura tra il mondo industrializzato occidentale e i paesi sunniti (non genericamente “islamici”). Una separazione di fatto – fisica – che pone le basi per un conflitto più paese tra un mondo dipendente dal petrolio (fieramente diviso tra blocchi niente affatto reciprocamente amichevoli: Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina) e quella parte di mondo che ne custodisce, sottoterra, i due terzi delle riserve. Una separazione che, quanto meno, mette fortemente  rischio la circolazione complessiva: di capitali e merci, certamente, mentre centrifuga intere popolazioni in fuga dalla guerra verso gli ex paradisi ocidentali.

Se ci fosse un “progetto”, a governare quel che accade, ci si potrebbe quasi sentire tranquilli. Ma non ce né alcuno. Solo una crisi globale che macina gli equilibri esistiti, Senza apparentemente avere alcuna idea su quali equilibri possano sostituirli.

Tutto funziona al contrario, appunto…

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