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Arrestata Meng Wanzhou di Huawei. Un atto di guerra senza precedenti

Dalla guerra dei dazi alla guerra per via giudiziaria il passo è brevissimo. Ma è chiaro anche ai ciechi che il diritto, in questa storia, non c’entra niente.

Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del gigante cinese della telefonia – Huawei – e figlia del fondatore della società è stata arrestata in Canada su richiesta degli Stati Uniti. L’ordine di arresto parla di inchiesta per aver “violato i controlli commerciali americani in paesi come Cuba, Iran, Sudan e Siria”. Un elenco particolarmente significativo, visto che si tratta di paesi non esattamente nella lista degli “amici degli Usa”. Nelle stesse ore, il governo inglese ha obbligato British Telecom a metter fuori Huawei dal giro dei propri fornitori perché “a rischio spionaggio”.

Due settimane fa, del resto lo stesso Trump aveva avvertito i partner occidentali: evitate di avere rapporti con l’azienda cinese.

Le sanzioni all’Iran sono manifestamente un pretesto, visto che sono state sospese dagli stessi Stati Uniti dopo il raggiungimento dell’accordo sul nucleare, quando ancora era presidente Obama, insieme a Russia, Unione Europea, Cina, ecc. E quelle appena ripristinate da Trump non prevedono l’eseciozne immediata. In ogni caso, si tratterebbe di un atto unilaterale e senza precedenti nei confronti di un’azienda esplicitamente accusata di essere “vicina” al governo cinese (come se Google, Microsoft, Facebook e tutta la Silicon Valley fossero “impermeabili” alle pressioni della Cia sui dati dei loro clienti).

Né si può parlare di un caso isolato, visto un altro governo particolarmente servile nei confronti degli Usa – quello italiano – nei giorno scorsi ha fatto allertare il Copasir (comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) per affrontare proprio il “problema” della sicurezza dei dati nel rapporto con Huawei.

In sovrappiù, il povero ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, è stato chiamato a rispondere sull’argomento nel corso di un question time parlamentare: “Stiamo valutando con attenzione la situazione le nostre agenzie di intelligence, Aisi e Aise, devono provvedere a fare le certificazioni di sicurezza che rappresentano i nostri strumenti di garanzia”.

La preoccupazione per Huawei non riguarda ovviamente gli smartphone, di cui è pure un leader globale, ma le infrastrutture di telecomunicazioni, dai router ai ripetitori, specie ora che si va preparando la svolta del 5G. In pratica, anche molti degli operatori della telefonia si ritrovano ad usare infrastrutture costruite da Huawei su cui – dicono gli americani – non avrebbero il pieno controllo.

Ovviamente, gli Stati Uniti tendono a “consigliare” di utilizzare tecnologie made in Usa, come se invece loro fossero al di sopra di ogni sospetto in fatto di spionaggio (ricordiamo, a memoria, che persino il cellulare di Angela Merkel era sotto il controllo dello spionaggio yankee, 24 h su 24).

Scherzi spionistici a parte, la notizia dell’arresto alza il vello sulla portata reale del conflitto aperto da Trump nei confronti della Cina. In aperto contrasto, oltretutto, con i messaggi rassicuranti diffuso dopo l’incontro al G20 con Xi Jinping, sulla riduzione di portata della “guerra dei dazi”.

L’arresto, oltretutto, è avvenuto il 1 dicembre a Vancouver. Proprio nelle stesse ore dell’incontro tra Trump e Xi. Impossibile pensare a una semplice coincidenza. E’ obbligatorio invece ragionare sul fatto che le mosse “diplomatiche” tra le due superpotenze economiche (e non solo, ovviamente) si svolgono su diversi piani, che non escludono affatto, anzi prevedono, calci sotto il tavolo, coltellate alla schiena, iniziative di vera e propria guerra. Appena mimata.

La posta in gioco è per un verso l’egemonia tecnologica. Al di là delle chiacchiere propagandistiche, infatti, la Cina non è più da tempo soltanto la “fabbrica del mondo”, dove si può produrre a costi (del lavoro) bassi e far partire tsunami di merce senza competitori all’altezza. Il costo del lavoro avvicina ormai da presso quello europeo (e con quello italiano la partita sembra ormai chiusa, con la parità quasi raggiunta), ma l’efficienza del sistema e la dimensione delle economie di scala è imparagonabile.

E’ invece un paese ultra-avanzato, specie per quel che riguard alcuni dei comparti tecnologici, in special modo per tutto cià che serve a far partire il 5G, che dovrebbe permettere la comunicazione disintermediata tra strumenti elettronici diversi (“l’internet delle cose”). Con ricadute incommensurabili – con gli strumenti ordinari – sulla possibilità di far funzionare automatismi su scala ciclopica.

Un ambito che – in tempi di competizione globale crescente – presenta numerosi aspetti problematici. In caso di conflitto aperto, per esempio, sarebbe relativamente semplice (per chi controlla le tecnologie delle infrastrutture) mandare in blackout l’avversario di turno. Riportandolo in un attimo all’età della pietra, ma senza la conoscenza (diffusa) dei metodi di sopravvivenza dell’età della pietra.

Pesa il fatto che le infrastrutture telco cinesi siano in parte decisiva sotto controllo di aziende o pubbliche e solo relativamente “private”. E quindi la tanto decantata “sovranità dei mercati rispetto agli Stati” si rivela qui un elemento di debolezza per quelle potenze che… ci hanno creduto. Unione Europea compresa.

Gli stati Uniti, con questa amministrazione, cercano di romepre l’asimmetria pubblico/privato che ha finito per avvantaggiare la paziente tessitura cinese. Ma lo fanno con la metodologia propria dei vecchi imperialisti anglosassoni che andavano a bombardare il porto di Hong Kong (1848) per imporre ai cinesi l’apertura del loro mercato all’oppio commerciato dall’Inghilterra.

Naturalmente non sono più quei tempi. Se l’arresto di “Sabrina” – nickname di Meng Wanzhou quando gira per l’Occidente – è stato pensato come una forma di pressione per “convincere” Pechino a esaudire le richieste Usa entro i 90 giorni posti da Trump come data limite per ottenere ciò che ha chiesto, si tratta di un gioco molto pericoloso. Cui i cinesi stanno per ora rispondendo con la solita flemma (hanno apena ribadiito di voler implementare nei tempi più rapidi gli accordi raggiunti a Buenos Aires l’altra settimana), ma nel contempo possono anche loro suonare su una tastiera molto estesa.

Lo sanno bene “i mercati”. Che oggi hanno reagito malissimo in tutto il pianeta. Vero è che c’erano anche diverse altre notzie non buone (il petrolio è tornato a scendere di prezzo, a 51 dollari, che mette fuori mercato quasi tutto lo shale oil statunitense; i dati su disoccupazione e richieste di sussidio sono stati inferiori alle attese), ma l’andamento di Wall Street e di tutte le piazze europee è stato molto negativo. Perdite di oltre il 3% a Londra, parigi e Francoforte. Oltre il 2% sia il Dow Jones che il Nasdaq.

E tutti sanno che una delle armi cinesi più affilate sono in circolazione proprio sui mercati finanziari…

Ultima notazione, tutta nostra. Fin qui i manager apicali delle grandi imprese multinazionali sono stati degli intoccabili, in qualsiasi paese del pianeta. E se Carlos Ghosn – fino a qualche settimana fa capo assoluto del colosso automobilistico franco-giapponese Renault-Nissan – sembrava un’eccezione alla regola, con molti aspetti problematici sotto il profilo giuridico (arrestato in Giappone dai giapponesi, con accuse contestate da Pariigi), quello di Meng Wanzhou rischia di aprire una stagione in cui i grandi manager multinazionali non sapranno più se effettuare o no un viaggio in paesi men che “controllati” dalla propria azienda.

Uno scenario imprevedibile, ai tempi della (seconda) globalizzazione trionfante. Ma che non può non avere conseguenze reali pesanti. In qualche modo simili a quelle seguite alla fine della prima (a cavallo tra ‘800 e ‘900), su scala ovviamente incomparabile.

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