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Reddito di cittadinanza: poche risorse, molte insidie

Come noto, lo scorso dicembre il Governo ha redatto la ‘Legge di bilancio’, all’interno della quale è stato previsto uno stanziamento per il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’ (RDC). Tuttavia, questa misura ha visto la luce solo la scorsa settimana grazie ad un decreto legge che, assieme a ‘quota 100’, avrebbe dovuto contenere le misure a maggiore impatto sociale proposte dalla compagine governativa. In maniera non sorprendente, ed in maniera analoga al provvedimento sulle pensioni, il RDC è ancora una volta ben rappresentativo di una politica economica perfettamente compatibile sia con i dettami dell’austerità, viste le scarse risorse ad esso destinate (dovute al cedimento immediato alle pressioni europee per portare il deficit dal 2,4% al 2,04%), sia con un più generale impianto neoliberista, viste le pressioni al ribasso che tale provvedimento comporterà su salari e condizioni di lavoro.

Una prima stima, eravamo a marzo 2018, prevedeva un costo intorno ai 14-16 miliardi di euro e avrebbe dovuto coprire circa 9 milioni di persone. Ad ottobre 2018 il Governo dichiarava che sarebbe stato stanziato un fondo da circa 9 miliardi di euro, dopo aver inserito alcune condizionalità alla percezione piena dei 780 euro mensili (su tutte, il non essere proprietari di una casa e un ISEE inferiore a 9.360 euro annui). Oggi si è arrivati a 6 miliardi di euro (più 1 miliardo per il potenziamento dei centri per l’impiego), limitando ad 1,375 milioni di famiglie (circa 4,5 milioni di persone) i possibili beneficiari: l’entrata in vigore solamente ad aprile consente di sostenerne le spese per 9 mesi anziché 12. Per il 2020 sono stati stanziati 7,6 miliardi, per il 2021 i miliardi sono 7,8.

Nella realtà, quasi nessuno prenderà i millantati e sbandierati 780 euro: si stima che, tra i possibili fruitori, il reddito medio sarà circa 490 euro, e per avere diritto a questo importo bisogna comunque avere una situazione economica alle spalle particolarmente svantaggiata. Il primo ostacolo riguarda la posizione ISEE: come valori massimi che consentono il percepimento del reddito si va dai 6.000 euro annui per una famiglia composta da un solo individuo proprietario di una casa fino ai 19.656 euro per una famiglia composta da almeno 3 elementi che vivono in affitto. Non si devono inoltre possedere secondi immobili per un valore superiore ai 30.000 euro, nonché un patrimonio mobiliare superiore ai 6.000 euro nel caso di una persona singola, fino ai 10.000 euro per una famiglia di 3 persone. Vi sono poi ulteriori vincoli legati alla proprietà di automobili o motocicli che superino rispettivamente i 1600 e 250 cc di cilindrata. Questo ovviamente rientra nella logica dell’austerità: riducendo la possibilità di fare deficit, si riducono i fondi disponibili per gli interventi pubblici nell’economia.

Il problema cardine di questa misura resta l’aspetto legato alla condizionalità, ossia l’obbligo a dover accettare una proposta di lavoro, tra le 3 che vengono presentate entro i 18 mesi per cui ci si può avvalere del contributo economico dato dal RDC. Ad essa si somma poi la forte pressione fatta sul lavoratore per indurlo a spostarsi. Infatti, nei primi 12 mesi la prima offerta di lavoro è ritenuta congrua (dal punto di vista territoriale) se il luogo di lavoro si trova entro 100 chilometri, la seconda se si trova entro 250 chilometri, la terza se si trova sul territorio nazionale. Tra il dodicesimo e il diciottesimo mese le prima due offerte di lavoro sono ritenute congrue se entro 250 chilometri, la terza su tutto il territorio nazionale. Dopo il diciottesimo mese (e, quindi, in caso di rinnovo del beneficio), sono congrue dal punto di vista geografico tutte le offerte sul territorio nazionale. La congruità è un elemento chiave dello schema del RDC in quanto il rifiuto di 3 offerte definite ‘congrue’ comporta la perdita del diritto al sussidio.

Inoltre, il decadimento dalla posizione di percettore può avvenire per il rifiuto di 3 offerte, o per il rifiuto anche di una sola se il RDC è stato percepito già per dodici mesi. La già orribile condizionalità diventa perciò, per come viene concepita, il tassello fondamentale della strategia politica di riduzione dei lavoratori a pedine mobili alla mercé delle esigenze del mercato unico europeo. In ottica nostrana, ciò avrà le ripercussioni più forti soprattutto per i territori del Sud Italia, già martoriati da cifre monstre per quanto concerne disoccupazione ed inattività. In più, lo spostamento abitativo comporterà un aggravio delle spese (in primis, proprio l’affitto) tale da rendere una miseria il già di per sé magro salario corrisposto per lo svolgimento del lavoro.

Ma non finisce qui. La misura del RDC si sostanzia in modo esplicito come una forma di redistribuzione diretta di risorse dalla collettività (lo Stato) alle imprese. Attraverso un cosiddetto “patto di formazione”, le imprese che assumono beneficiari del reddito di cittadinanza possono ottenere in cambio dalle 5 alle 18 mensilità del RDC stesso. Addirittura, se un’impresa si impegna ad assumere a tempo indeterminato un lavoratore senza licenziarlo per 24 mesi (ironico che una forma di contratto a tempo indeterminato richieda comunque l’impegno a non licenziare entro due anni!) riceve «sotto forma di sgravio contributivo, un importo pari alla metà della differenza tra l’importo corrispondente a 18 mensilità di RDC e quello già goduto dal beneficiario stesso». Ciò significa che all’impresa quel lavoratore costerà molto poco.

In più, tali contributi si hanno previo «incremento netto del numero di dipendenti a tempo pieno e indeterminato», che è quindi compatibile con una mera sostituzione di lavoratori a tempo determinato con altri a tempo indeterminato (cosa che di per sé non sarebbe sufficiente a garantire un miglioramento della tutela dei lavoratori, stando all’attuale normativa sui contratti a tempo indeterminato che non prevede la possibilità di reintegro a seguito di licenziamento ex art. 18). Ipotizzando che un contratto per un neolaureato possa essere sui 1.800 euro lordi, l’impresa dovrà corrispondere solamente 1.000 euro di tasca propria. Un abbattimento di circa il 45% del costo del lavoro! E pensare che c’è anche chi si lamenta del fatto che l’incentivo ad assumere per le imprese sia troppo poco, meno efficace del bonus contributivo del governo Renzi.

Ma questo potrebbe veramente rappresentare un incentivo a nuove assunzioni? Tutte le misure di questo tipo, compreso il bonus Renzi, hanno sperimentato una prima fase in cui le assunzioni sono aumentate, per poi crollare quando tale incentivo smetteva di funzionare. E cosa potrebbe succedere se questa forma di “assistenzialismo” alle imprese dovesse essere permanente? La domanda di lavoro, e di conseguenza le assunzioni, può incrementare permanentemente solo se a crescere è la domanda di beni e servizi. Il reddito di cittadinanza, in questa forma, non rappresenta alcuna garanzia in tal senso. Ciò che più verosimilmente accadrà – come è già accaduto in altri paesi che hanno sperimentato misure simili – è un aumento del turn-over lavorativo, ossia un aumento della precarietà.

Infatti, tutti i contratti a tempo determinato difficilmente verranno rinnovati o, meglio ancora, stabilizzati. Per le imprese sarà più conveniente concludere questi rapporti di lavoro e assumere nuovo personale che può beneficiare del reddito di cittadinanza perché, adesso lo sappiamo, riesce ad abbattere in maniera consistente il costo del lavoro. Questa condizione di estrema precarietà potrebbe portare, nel tempo, ad una riduzione generale dei salari. Ben altra storia sarebbe invece un intervento diretto dello Stato mirante alla creazione di posti di lavoro pubblici e garantiti da un contratto di lavoro sensibilmente più protettivo nei riguardi del lavoratore. D’altronde sappiamo che, restando dentro la gabbia dell’austerità europea, tali misure sono escluse dal novero delle possibilità concrete.

Infine, ciliegina sulla torta, ricordiamo come anche la fanfara con la quale si celebra il ruolo dei centri per l’impiego, in teoria rivitalizzati dalle assunzioni di 30.000 “navigator”, è assolutamente immotivata. Anche ipotizzando un loro ineccepibile funzionamento, essi non potrebbero intaccare (se non marginalmente) la montagna dei disoccupati.

In conclusione, restano da soppesare attentamente due piani entro i quali il RDC ha effetto. Nell’immediato, e per quanto concerne il singolo lavoratore, si può avere qualche beneficio da tale provvedimento. E’ difficile negare che chi è in condizioni di totale disperazione non possa avere una flebile boccata d’ossigeno da qualche contributo di questo genere. Tuttavia, come visto, già questo aspetto è messo fortemente in dubbio dalle innumerevoli clausole che costellano il diritto all’assegnazione. In più, ed è qui la chiave interpretativa fondamentale, tale provvedimento, per come è congegnato, peggiora la situazione per la classe dei lavoratori nel suo complesso, come è possibile verificare con il famoso caso tedesco della riforma Hartz IV, il modello europeo di mercato del lavoro. Quest’ultimo caso ci illustra come, persino con un impianto ben oliato, a suo modo efficiente e con contributi sensibilmente più elevati che in quello italiano, la struttura complessiva di quella riforma ha portato nel mercato del lavoro tedesco un effetto disciplinante che si è, di lì a pochi anni, riverberato con forza sulle retribuzioni del lavoro dipendente. Se pensiamo a quanto le retribuzioni nel nostro paese siano già sensibilmente inferiori a quelle tedesche, la portata economica e sociale della riforma si prospetta enorme. Questo è dovuto alle varie componenti del mix velenoso proposto dal governo.

La condizionalità comporta lo sdoganamento della costrizione per i lavoratori ad accettare lavori e salari che prima avrebbero potuto rifiutare, e tutto questo per mano diretta del governo; lo stesso intervento governativo va a rimpinguare le casse delle imprese, evitando accuratamente di intervenire esso stesso in prima istanza per creare lavoro; le risorse date a questo progetto sono assolutamente inadeguate a causa dell’adesione ai dogmi di austerità europei.

Alla luce dei diversi snodi potenzialmente peggiorativi per le condizioni del mondo del lavoro che abbiamo cercato di analizzare, possiamo aggiungere la riforma che riguarda il Reddito di cittadinanza al quadro più generale di impianto economico che il governo sta portando avanti. Come per ‘quota 100’, anche qui gli la carica propulsiva data al governo dalle urne si risolve in una misura che ha tutti i crismi per essere l’ennesima beffa, impacchettata abilmente, ma non per questo meno pericolosa.

  

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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