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Dazi Usa, la prima frenata

Gli Usa fanno un passo indietro sulla “guerra dei dazi” con la Cina, le borse festeggiano, l’Europa dovrebbe tremare. Ma conviene essere cauti e guardare con un po’ di freddo realismo cosa sta accadendo davvero.

Donald Trump ha firmato ieri un’offerta di accordo commerciale con la Cina che prevede una importante riduzione dei dazi americani esistenti e la cancellazione dell’aumento dei dazi su 160 miliardi di prodotti di largo consumo, che sarebbero dovuti partire domenica 15 dicembre.

Si attende la risposta cinese, che però appare scontata, visto che le trattative sul tema impegnano gruppi molto consistenti di diplomatici e quindi ogni mossa “ufficiale” dei leader si basa su accordi di fatto già raggiunti sui vari tavoli.

L’”offerta” di Trump dovrebbe avere come contropartita immediata un raddoppio degli acquisti cinesi di prodotti agricoli statunitensi (soprattutto soia e carne di maiale), fino a circa 50 miliardi di dollari; oltre a una prima apertura del mercato cinese ai servizi finanziari based in Usa e una maggiore attenzione alla tutela della “proprietà intellettuale” (leggi: brevetti industriali).

Due cose sono immediatamente da sottolineare: a) la curiosità per cui la superpotenza considerata all’avanguardia tecnologica preme per esportare più materie prime agricole, ossia prodotti non lavorati, come un qualsiasi paese del terzo mondo; b) i dazi già in essere non vengono annullati, ma solo dimezzati.

Comunque sia, è indubbio che si tratti di una prova generale di pace commerciale, guardinga come tutte le mosse su questo terreno. Non a caso questo pacchetto viene chiamato in gergo “fase uno” e, se tutti troveranno conveniente procedere in questa direzione, si potrà presto vedere l’inizio della “fase due”.

Per il momento, viene comunque disinnescata la bomba che sarebbe dovuta esplodere il 15 dicembre, in piena frenesia natalizia, con effetti negativi – non troppo paradossalmente – proprio per l’economia Usa. I dazi che sarebbe dovuti infatti scattare da lunedì erano del 15% e avrebbero colpito 160 miliardi di prodotti di largo consumo: smartphone, scarpe sportive, giocattoli, ecc. In pratica sarebbero stati tassati Nike e iPhone prodotti in Cina, proprio mentre lo shopping natalizio avrebbe dovuto semmai favorire la riduzione dei prezzi. La contromossa cinese, con dazi sulle merci Usa, avrebbe poi aggravato il danno, aumentando l’invenduto in magazzino.

Non a caso, la Casa Bianca è stata in questi mesi oggetto delle pressioni contrastanti provenienti da due diverse – e quasi opposte – associazioni di imprese Usa. La prima, composta da 150 associazioni sotto la sigla «America for Free Trade», chiedeva a Trump di «raggiungere l’accordo sulla ’Phase one’ con la Cina e ad adottare i passi necessari per risolvere le controversie commerciali in corso. Crediamo che sia davvero importante far procedere i negoziati senza lo spettro di nuove tariffe».
La seconda, oltre 260 produttori manifatturieri associati nella «Coalition for a Prosperous America», esprimevano «sincero apprezzamento» per i dazi alla Cina come ritorsione per le «ripetute violazione della proprietà intellettuale».

Contrasto di interessi che si rifletteva anche sui negoziatori Usa – nel frattempo impegnati anche nella riscrittura del trattato di libero commercio con Canada e Messico – con Lighthizer favorevole quantomeno ad un rinvio del big bang dei dazi e Navarro con il detonatore già pronto. Nemmeno il capitale Usa è più quello di una volta…

Perché, però, l’Europa dovrebbe preoccuparsi?

Per il semplice motivo che non ha una politica industriale e commerciale “espansiva” e quindi sta progressivamente diventando il “buco nero” dell’economia mondiale. Le politiche di austerità, ridotte all’osso, favoriscono la speculazione finanziaria rispetto alla produzione industriale; è entrato in crisi il modello “mercantilista” tedesco, che privilegiava le esportazioni come elemento di traino economico, e quindi la “fame di profitto” – in assenza di uno sviluppo del mercato interno (i bassi salari non consentono crescita dei consumi) – si sfoga come “concorrenza interna”, come tentativo dei gruppi più forti di fagocitare queli più piccoli. Il Mes, il Solvency II e la “ponderazione dei titoli di Stato” (di fatto un rating assegnato arbitrariamente) vanno tutti in questa direzione, facilitando (o creando) crolli “mirati” a favore di chi è in condizione di poterne profittare.

Se questa “autofagia” del capitalismo europeo avvenisse sotto una campana di vetro, sarebbe un fenomeno grave ma descrivibile come un “ridisegno interno” delle filiere del valore e delle egemonie nazionali, quasi a somma zero. Ma ovviamente il vuoto non c’è…

Al contrario, la “guerra dei dazi” Usa ha colpito anche buona parte dell’economia europea, soprattutto quella tedesca (vero obbiettivo dell’offensiva yankee). E la reazione per il momento non c’è. Di impegnare i favolosi surplus tedeschi per spingere una ripresa europea, naturalmente, non se ne parla neppure.

E allora non resta che osservare il montare dei problemi senza soluzione.

Un po’ come, in altro campo, avviene con le “allerte meteo” che si moltiplicano per il cambiamento climatico: si chiudono scuole e altro, sperando che passi la nottata, senza fare nulla (modifiche radicali del modello di sviluppo) per risolvere l’origine del problema.

Ma per quanto ci si possa “chiudere in casa”, i problemi del mondo vengono a bussare alla tua porta…

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