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Fermo: uccisi dalla crisi in un deserto chiamato Marche

La storia ha fatto il giro dei tg già all’ora di pranzo. Imprenditore spara e uccide due ex dipendenti. Loro, forse, si erano presentati con una piccozza, e sicuramente erano lì per chiedere degli stipendi mai pagati per parecchie migliaia di euro. Il duplice omicidio di Fermo passa come un lampo nella cronaca nera italiana, la solita storiaccia di sangue e soldi. I vicini di casa sconvolti. Le lacrime delle famiglie. I commenti al bar sul «mondo di lupi, signora mia». Qualcuno invoca la legittima difesa, la Cgil, laconica, parla di ennesimo effetto della crisi economica. Passa così una giornata italiana: all’inizio la notizia è in testa su tutte le edizioni online dei giornali, poi viene progressivamente affossata dalle nuovissime avventure del governo e dalla immancabile sfilata di tette e gattini. Mettiamoci pure che è successo nelle Marche, terra non così interessante per le redazioni nazionali. Mettiamoci anche la “natura di classe” del duplice omicidio: imprenditore italiano ammazza due lavoratori kosovari. Gli stranieri sono le vittime. Se aggiungiamo che l’imprenditore ha sparato ben cinque colpi, che uno dei due operai è stato colpito alle spalle mentre scappava – altro che legittima difesa – e che non essendo il tizio un carabiniere difficilmente potrà affermare di essere inciampato, la scarsa attenzione dei media nazionali per il fatto è presto spiegata.

A parti invertite, sul luogo del delitto non sarebbero arrivati soltanto i soliti neristi locali e la Rai regionale, ma avrebbero sfilato anche le telecamere dei vari programmi pomeridiani, gli inviatoni dei grandi giornali, magari pure qualche politico reazionario. 

Eppure quanto avvenuto a Fermo dovrebbe far suonare più di un campanello d’allarme. La depressione economica in cui sta sprofondando diventa sempre più depressione a tutto tondo, con i suoi inevitabili effetti distruttivi e autodistruttivi. Ancora nelle Marche, un anno e mezzo fa, due anziani decisero di impiccarsi, a Civitanova. Campavano con 400 euro al mese, la pensione sociale di lei. Lui era un esodato, non ce la faceva più nemmeno a pagare i contributi della sua partita Iva. Storia di ordinaria miseria, vergogna di essere poveri. Telecamere accese poche ore, poi il silenzio.

Le Marche sono tutte così: il territorio al plurale è un cumulo di macerie. Sociali, umane, politiche. L’anno prossimo si tornerà a votare per il consiglio regionale, tutti gli indizi fanno pensare alla riconferma (per la terza volta) di Gian Mario Spacca alla presidenza. Lui – uomo della potentissima famiglia Merloni, reale proprietaria della lingua di terra che si estende da San Marino all’ex Regno delle Due Sicilie – è l’artefice del ‘Modello Marche’: un centrosinistra con molto centro e poca sinistra. L’Udc è entusiasta, quelli che un tempo si definivano montiani e che adesso, verosimilmente, hanno paura a guardarsi allo specchio la mattina, pure. Il Pd, in fondo, anche. Tanto si vince: la destra non esiste, la sinistra nemmeno. Esiste solo un grande centro che tutto può e tutto fa. Le elezioni del 2013 e del 2014 avrebbero raccontato un’altra storia, con il centro ridotto a prefisso telefonico, eroso da Grillo prima e da Renzi poi. Ma da queste parti si fa poco caso a quello che succede «fuori».
I già citati Merloni, dopo aver cercato di far passare un piano lacrime e sangue per la loro azienda (la Indesit), alla fine hanno venduto tutto agli statunitensi. La resa dei padroni è sconfortante quanto la chiusura di tutte le fabbriche di Ascoli Piceno, dove finiva la Cassa del Mezzogiorno, che portò tante multinazionali. Migliaia di posti di lavoro guadagnati in maniera troppo facile e poi persi in un soffio: non è un caso che, da queste parti, pur di scongiurare il «Modello Marche», la gente scelga di votare la destra fascista locale. Merloni che abdica vuol dire che neanche lui ci crede più, a questo sogno chiamato Marche.

Poi ci sono le storie minime, i piccoli imprenditori divenuti benestanti perché parte di un indotto enorme, poi progressivamente abbandonati a se stessi con la crisi economica. Ancora più in basso ci sono i lavoratori: qui la crisi economica non la risolvono con una qualsiasi «politica del lavoro», ma a colpi di rifinanziamento degli ammortizzatori sociali. Un pugno di dollari, un altro, un altro ancora. Intanto i giovani vanno via, e non vogliono tornare più. C’è da capirli, restare nelle Marche è una gara di resistenza, e probabilmente manco ne vale la pena. 

Ogni tanto qualcuno s’impicca dentro casa. E’ successo pochi mesi fa a un ex pezzo grosso della Confindustria fermana: lasciato col culo per terra ha deciso di appendere una corda allo stipite della finestra e di farla finita così. Ma succede ancora più spesso tra i lavoratori, che magari finiscono ad ammazzarsi tra di loro per l’ultimo tozzo di pane, o contratto a giornata.

La costa, ormai completamente prostituita al turismo, la sopravvivenza è legata agli imprenditori balneari che offrono lavoro a tre euro (lordi) l’ora. Quando va bene. E allora puntare sul turismo è un dovere.

Si è fatto un gran parlare del film di Martone su Leopardi, portato in concorso al Festival di Venezia. La verità è che il poeta di Recanati questa terra non l’ha mai amata, perché a sua volta da questa terra era odiato. E questo odio continua, nei secoli, perché in fondo le Marche sono sempre uguali a se stesse dai tempi del poeta. Bottegai vestiti da preti e preti vestiti da bottegai. Il film (verosimilmente brutto e pretenzioso) viene preso soltanto come veicolo turistico. Leopardi morì a Napoli, dopo aver girato mezza Italia. Col senno di poi si può dire che non è stato un caso.

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1 Commento


  • Lorenzo Asthorone Paciaroni

    Ritratto crudo e terribile di una regione da cui, con l’embargo calzaturiero che ci siamo meritati – era rimasta la Russia a cui vendere, in Italia ormai è impensabile – e il crollo del bianco che tiene mezza Fabriano in cassa integrazione da quasi un decennio – e quelle è la Fabriano fortunata -, non ci si può aspettare più nulla di diverso dal declino rapido e silenzioso.

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