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Quelli che hanno perso. Ombre migranti del Sahel

Seduto nell’ufficio Keita mostra le mani, la pianta dei piedi e le ginocchia. Proprio lì lo picchiavano coi bastoni i poliziotti di Ghadames, in Libia. Bastoni qualunque che come dappertutto fanno male se accompagnati da insulti. Sono entrati di notte nella casa dove Keita si trovava con altri amici senza documenti. Sapevano che era stati pagati il giorno prima. Erano i soldi del viaggio a Tripoli e oltre per il Mare Nostro. Mesi di lavoro andati in polvere in pochi minuti. Dopo una mezza giornata in prigione li hanno abbandonati nel deserto alla frontiera dell’Algeria. Keita sa che in Italia ci sono tanti senegalesi come lui che si trovano bene. A Genova, in Via Pré, c’è il negozio Touba, santuario meta di pellegrinaggi per i Muridi. In poco spazio si vendono trecce finte, profumi, generi di inutile necessità e soprattutto informazioni. Si organizzano viaggi commerciali fino a Dubai e ritorno. Paese che vai senegalese che incontri. Keita è stanco del viaggio. Il deserto non è mai alle spalle.
Keita era partito dal Senegal con 450 mila franchi circa, e fanno 680 euro. La somma era stata inghiottita dal viaggio e dalla libera circolazione di beni, persone e ladri. Dall’Algeria era passato in Libia col proposito di guadagnare abbastanza per pagarsi il viaggio di mare. Torna ferito alle mani, ai piedi e alle ginocchia. Ora che è cominciato il Ramadan non riesce a fare la preghiera come si deve. Lo aspetta la moglie che era d’accordo col viaggio, questo almeno afferma sottovoce. La prima delle figlie si chiama Fanta e ha 12 anni. Il secondo si chiama Moussa e il terzo, di poco più di due anni, si chiama Khedim che vuol dire servitore. A Keita dispiace con vergogna di non portare neppure un regalo ai suoi figli se non la sua vita. Sulla strada di ritorno gli hanno portato via quanto rimaneva per il viaggio e solo un viandate come lui lo ha salvato. Ha il rammarico di non poterlo rimborsare. Rialza i pantaloni e mostra le ginocchia ancora segnate.
Di fortunato lei ha solo il nome. L’hanno chiamata Lucky, in quei giorni in Liberia. Tutto sembrava funzionare bene. I comandanti e i comandati del battello in buona maggioranza schiavi o loro discendenti. Poi la guerra spazza le gerarchie. A 14 anni per salvarsi deve scappare nella vicina Guinea. Rimane anni e impara a fare trecce. Diventa un’esperta parrucchiera e decide il viaggio in Kenia. Suo padre era statio ucciso nel memorabile 6 di aprile nella Monrovia che tutti ancora ricordano. Sparavano a tutto e i gruppi armati passavano da un quartirere all’altro per eliminarsi a vicenda. Lucky non ha mai cominciato la pace, da allora. Dal Kenia, con James, amico incontrato all’aeroporto, passano nel Sudan. Aveva raccolto informazioni sbagliate. Sono messi fuori del paese. Senza documenti, soldi e futuro. Le guerre si portano dentro per sempre come un bagaglio impossibile da spedire. Lucky ha lasciato due figli a casa. Il terzo è morto in seguito alla guerra.
E’ partita stamane al Centro di Depistaggio Anonimo e Volontario. Sono gli ammalati di AIDS che passano veloci negli uffici del servizio. Lucky è tornata con la risposta positiva dall’esame del sangue. Lucky ha 35 anni e da qualche settimana non riesce a mangiare. E’ passata ieri e voleva tornare al paese di fretta. Sapeva il perché e allora ha accettato il depistaggio. La data di oggi col numero anonimo 1197. Il risultato arriva come una conferma di sorpresa che anche lei sapeva. Le suore di Madre Teresa hanno un reparto di accoglienza per questi malati e Lucky ha accettato di abbandonarsi nelle loro mani. A Monrovia abitava nella centralissima Ashmun Street. La casa dove ancora vive suo padre è poco lontana dalla Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù. Forse per questo insisteva per tornare lì, come un’ombra migrante.

* Niamey, Niger

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