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Contro la guerra, un nuovo modello di sviluppo

 Rocco Di Michele

A passo di corsa, ché niente come la guerra alle porte di casa smuove i cervelli. L’assemblea nazionale «Uniti per lo sciopero», filiazione diretta di «Uniti contro la crisi», registra quest’urgenza. Anche a costo di farsi spiazzare dal più impaziente di tutti, dall’unico in quest’aula che la guerra sa di certo cos’è. Nell’aula I di Lettere, cuore di mille assemblee storiche, Gino Strada lancia la manifestazione nazionale del 2 aprile, a Roma, in piazza S. Giovanni, sorprendendo un po’ tutti i gruppi, i sindacati, i collettivi. La logica assembleare dei movimenti degli ultimi 20 anni, con la paziente ricerca della condivisione anche nel dettaglio, è sembrata immobile di fronte alla rapidità con cui jet anglo-francesi e missili Usa hanno aperto la danza infernale sui cieli libici.
Una difficoltà più obiettiva viene dal dover affiancare, in uno spazio stretto di tempo, mobilitazioni incentrate su temi vicini ma distinti (acqua, nucleare, scuola, contratti… guerra), scontando le piccole frizioni inevitabili quando ‘insiemi’ che si erano pensati come autonomi si devono concentrare. Serve maturità, e viene trovata rapidamente. Il collegamento in video con Lampedusa dà il senso del bisogno di fare, ora e qui. L’assemblea vira così verso un obiettivo semplice: prendere decisioni. Tocca a Gianni Rinaldini, coordinatore de «La Cgil che vogliamo», collegare strettamente i distinti. «Contro la guerra, contro i bombardamenti», con l’autocritica necessaria per la lentezza con cui i movimenti si sono pronunciati a sostegno delle rivolte del Nordafrica: «gli altri ci hanno giocato, per costruire una campagna di falsi che portava alla guerra». Ma è l’incidente di Fukushima, contemporaneo e gravissimo, a «segnare uno spartiacque rispetto al futuro». È «il modello di sviluppo centrato sul nucleare e il petrolio ad essere entrato irrimediabilmente in crisi». Chi si ostina a voler rimettere in piedi questo modello ­ tutti i governi dei cosiddetti paesi avanzati – non fa che «accelerare i processi di guerra per appropriarsi delle fonti di energia».
Dentro questo livello di complessità si collocano tutti i temi: quelli referendari sui beni comuni come l’acqua, il no al nucleare, e la precarietà, il reddito di cittadinanza, la scuola, le risorse finanziarie da trovare «tagliando le spese militari» e con nuovi strumenti fiscali che alleggeriscano la posizione di lavoratori e pensionati, redistribuendo il peso «su quel 10% di famiglie che possiedono il 50% della ricchezza». Tutti temi che chiamano in causa la riduzione di democrazia che stiamo vivendo qui. Perché se «si riducono i diritti del lavoro», «si elimina il contratto nazionale» e «si parte per la guerra», è la democrazia a venir svuotata di efficacia.
Difficile dirlo meglio di come ha fatto Moni Ovadia, che ritrova la parola giusta – «rivoluzionario» – per definire il bisogno di cambiare il modello di sviluppo. Modello che oggi – con il patto appena siglato tra capi di governo europei – «prevede esplicitamente di eliminare la contrattazione e fissa vincoli solo monetari, non sociali, alle politiche economiche». Facile prevedere davanti a tutti noi anni di «tagli finanziari e sociali insopportabili». Un punto essenziale riguarda il rapporto con i migranti, «eroi da difendere finché stanno sull’altra sponda del Mediterraneo e gente pericolosa da respingere quando arrivano qui». Ne vien fuori, oltre alla proposta di una «staffetta» con quanti stanno operando a Lampedusa, anche l’organizzazione di «una carovana che travalichi i confini della Tunisia».
Lo sciopero generale del 6 maggio, «strappato con fatica» a una Cgil a lungo esitante – lo ripeteranno in tanti, da Luca Casarini a Mimmo Pantaleo (segretario generale della Flc) – non è il sogno della «spallata finale», ma «una tappa fondamentale in un percorso che arriva a Genova, per il decennale». Ed è soprattutto Maurizio Landini, vulcanico segretario della Fiom, a spiegare che «bisogna farlo riuscire, svuotare i posti di lavoro, bloccare il paese»; «prolungarlo a 8 ore, generalizzarlo a tutte le figure sociali, ai precari»; non bisogna «sprecare l’occasione», anche se «non sarà sufficiente a cambiare il quadro politico e sociale». Si dovrà «andare avanti, costruire azioni unitarie sui territori», «includere e mettere all’opera l’intelligenza di tutti i lavoratori» per «delineare un sistema industriale con al centro le energie rinnovabili». Il nesso guerra-petrolio, del resto, è fin troppo chiaro. E brucia il futuro dell’umanità.
Il percorso disegnato nel documento finale ha tappe quasi settimanali di mobilitazione nazionale (oggi per l’acqua pubblica, sabato prossimo contro la guerra, il 9 aprile contro la precarietà, poi lo sciopero, i referendum e altre giornate ancora non calendarizzate, fino al 20 luglio ligure).
A passo di corsa, perché «gli altri sanno benissimo cosa voglio e cercano già ora di dividerci».

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articolo

«Una primavera di conflitto generalizzato»
Ylenia Sina
«Siamo realisti, esigiamo l’impossibile». Sotto questo striscione, nell’aula Amaldi della Facoltà di fisica della Sapienza di Roma, è iniziata ieri pomeriggio l’Assemblea Nazionale di Atenei in Rivolta (Air) dal titolo «Organizziamo la rivolta».
Un appuntamento che per i nodi della rete nazionale di collettivi nata durante i movimenti studenteschi dell’Onda rappresenta un «passo avanti per superare la frammentazione dei percorsi locali» ma anche un’occasione per permettere un confronto con i diversi attori sociali protagonisti delle lotte dei mesi scorsi. «Vogliamo cogliere l’opportunità e l’urgenza di una primavera di conflitto generalizzato nel nostro paese», spiega Antonella di Air, «con l’obbiettivo di organizzare una mobilitazione unitaria di tutte le opposizioni sociali che intercetti il malessere diffuso nel Paese». Un percorso che si pone «lo sforzo di creare un’opposizione comune a questo governo e a Confindustria che attraversi le mobilitazioni dei prossimi mesi ma che sappia anche imporre un’agenda autonoma», dichiarano da Air, «per evitare che tutto venga appiattito sulla data del 6 maggio, lontana nel tempo e dalle nostre aspettative, data che non vogliamo attraversare in maniera acritica».
Prima tappa la manifestazione di oggi per l’acqua bene comune e contro il nucleare. Dopo l’assemblea plenaria durante la quale hanno preso parola tutti i nodi locali di Atenei in rivolta, il dibattito ha costituito lo spazio in cui sindacati (Fiom, Usb, Cobas, Cub), Forum dei movimenti per l’acqua, precari, movimenti sociali e per il diritto alla casa, lavoratori autoconvocati, collettivi di genere e migranti si sono confrontati tra loro. In apertura uno sguardo all’Europa e al Mediterraneo per voce di Daisy, in rappresentanza di un movimento studentesco inglese «tutt’altro che tramontato», e di Anis, studente tunisino che ha portato la testimonianza delle rivolte che hanno cacciato Ben Ali: «ci vuole un movimento unico e unito perché se ne vadano tutti e la loro politica se ne vada con loro».
A irrompere nel dibattito che ha posto con urgenza la necessità di contrastare in maniera unitaria le politiche del governo e di Confindustria, è la guerra in Libia: un evento che cambia l’agenda politica italiana, che rafforza l’attacco ai diritti sociali e giustifica le politiche di austerità imposte dai vari governi europei, che ripropone la questione delle risorse energetiche e accelera la privatizzazione dei beni comuni. I lavori proseguiranno stamattina con tre workshop sui temi «comunicazione e lotte», «organizzazione» e «università sociale» per poi recarsi tutti insieme alla manifestazione nazionale per l’acqua bene comune. Quindi, domenica alle ore 10 con l’assemblea plenaria conclusiva «perché anche in Italia c’è bisogno di costruire rivolta».


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