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Lampedusa allo stremo e in rivolta

La risposta del governo: tendopoli in campagna

Cinzia Gubbini

C’è un’altra sigla di cui prende re nota nel gergo dell’emer genza: dopo Cie e Cara strutture nate nel tentativo di «gover nare» le migrazioni ora c’è Cai. Sono i «Centri di accoglienza e identificazione», ovvero le tendopoli che da ieri il governo ha cominciato a costruire con l’intenzione di svuotare, dopo venti giorni di agonia, l’isola di Lampedusa.

Per ora i Cai ufficiali sono due: una a Manduria, in provincia di Taranto, una all’ex aeroporto Chinisia di Trapa ni. Ma già si sa che altri due Cai sorge ranno a Pian del Lago, in provincia di Caltanissetta e un altro a Rovereto, nel la frazione di Marco. Altre tendopoli dovrebbero nascere a Coltano, in pro vincia di Pisa, e a Mulazzo, in provin cia di Massa Carrara. Ma da parte d egli enti locali è rivolta: il governo non ha concordato il piano con nessuno.

Lo ha fatto notare il presidente della re gione Puglia Nichi Vendola, che ieri è intervenuto anche al Tg3: «L’accoglien za per noi è un obbligo ha detto Ven dola ma ci ribelliamo al modello del la discarica umana. Cosa sono queste tendopoli? Non è chiaro. E perché non sono stati rispettati gli accordi presi con il Viminale?».

In effetti solo pochi giorni fa il mini stero dell’Interno aveva organizzato una riunione ufficiale con le Regioni e le Province. L’accordo era stato strom bazzato ai quattro venti. Ogni Regione avrebbe fatto la sua parte, proporzio nalmente al numero di abitanti. Da parte sua il governo si impegnava a for nire dei finanziamenti alle casse dis sanguate degli enti locali, e avrebbe po tenziato il sistema Sprar il circuito di «micro accoglienza» che fin qui ha sempre funzionato cercando di evita re i maxi assembramenti. Per ora que gli impegni rimangono sulla carta. Di stanziamenti non si è più parlato. Il go verno sta utilizzando terreni di proprie tà del ministero della Difesa. Per la ge stione si sta affidando a Protezione Ci vile e Cri, e in alcuni casi come a Pian del Lago, dove del resto si sta allargan do il Cie già presente appoggiandosi agli enti gestori. In quanto ai fondi non se n’è più sentito parlare, e anco ra ieri arrivavano secchi «no» da parte degli enti locali a qualsiasi tipo di aiuto

senza adeguati stanziamenti, come ha anche ribadito in una lettera il presi dente dell’Anci Chiamparino.

Il governo è stretto in una morsa, e sembra proprio non sapere che pesci pigliare. Il piano iniziale che intende va risolvere il problema da una parte fermando i barconi e dall’altra organiz zando almeno qualche rimpatrio da Lampedusa verso la Tunisia si è sgre tolato dopo la visita di Frattini e Maro ni a Tunisi la scorsa settimana. Il mini stro degli Esteri e quello dell’Interno pensavano sarebbe bastato presentar si a Tunisi con 230 milioni di euro in ta sca, come hanno fatto la settimana scorsa, per strappare un «sì». Ma le co se sono cambiate. Non ci sono più dit tatori accondiscendenti con cui parla re, come dimostra il documento che pubblichiamo qui a fianco. Gli interes si dell’Europa non sono più al centro del Mediterraneo.

Ma il ritardo accumulato ora si fa sentire. A Lampedusa la situazione or mai è paradossale, con cinquemila stranieri costretti a vivere all’addiaccio da giorni e giorni, i primi problemi che cominciano a mostrarsi si è verificato un furto in un’abitazione e come ine vitabile corollario l’estrema destra che soffia sul fuoco (ieri sull’isola il comi zio di Roberto Fiore). Gli sbarchi cominciano ad essere consistenti,: soltan to ieri sono arrivate duemila persone.

L’ente gestore del centro di Lampedu sa fa quel che può, e lo fa con il massi mo sforzo: prepara diecimila pasti al giorno, distribuisce pacchetti di siga rette ogni mattina per cercare di non far precipitare la situazione.

Finalmente ieri il governo ha annun ciato che entro domani l’isola sarà svuotata. Sono in arrivo sei navi, per la prima volta dall’inizio degli sbarchi, cinque saranno di linea – costo mini mo rispetto all’ impiego delle navi mili tari – mentre la sesta sarà la nave della Marina militare San Marco. Sempre domani si terrà l’ennesimo consiglio dei ministri straordinario in cui dice il Viminale verrà presentato il famo so «piano». I siti in cui insediare i nuo vi Cai dovrebbero essere tredici in tut to, ma per il momento la dislocazione è «top secret». Certo, se le tendopoli sa ranno come quelle costruite a Mandu ria sembrano fatte apposta per permet tere ai migranti di scappare e raggiun gere Ventimiglia, il confine con la Fran cia, dove da giorni il governo francese ha rafforzato i controlli e respinge chiunque tenti di entrare nel suo terri torio. La situazione, insomma, è fuori controllo. E forse a qualcuno piace co sì. Di consegnare ai migranti un per messo di soggiorno per protezione tem poranea, come si fa in questi casi e co me chiedono da settimane le associa zioni, non se ne parla. Per il governo chi arriva dall’Africa susahariana è au tomaticamente richiedente asilo e chi è tunisino è automaticamente clande stino. Anche se ci sono casi di tunisini che non volevano chiedere asilo a cui invece è stato fatto compilare il modu lo perché si erano liberati posti nei Ca ra, e tunisini che volevano chieder asi lo a cui è stata consegnata un’espulsio ne perché si erano liberati posti nei Cie. Una prova di incapacità che non accontenta nessuno.

 

 

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Quei tunisini mai sbarcati

Gilberto Mastromatteo

TUNISI

Ahmed Nakach aveva 22 anni. In Italia voleva andarci per cercare un lavoro e costruirsi una famiglia. Ma a Lampedusa non è mai arrivato. È uno dei circa 40 di spersi del naufragio del 14 marzo al le Kerkennah, l’arcipelago che si tro va di fronte alle coste tunisine di Sfax. Solo uno dei molti avvenuti nel le ultime due settimane nel Canale di Sicilia. E di cui in pochi parlano.

Suo fratello Alì tiene in mano una fo totessera che lo ritrae. Assieme agli altri familiari dei dispersi ha dato vi ta a due distinti sit in di protesta a Tu nisi, uno alla casba, davanti alla sede del Palazzo del Governo, l’altro sotto l’Ambasciata italiana. Chiedono che le autorità tunisine e italiane collabo rino per recuperare e restituire loro le salme.

«Dallo scorso lunedì 14 marzo non ho più notizie di Ahmed” spiega Alì, fissando la foto di suo fratello. Si era imbarcato per Lampedusa assie me agli altri connazionali, tutti uomi ni, per la maggior parte sotto i trent’anni. Erano partiti da Chergui, la maggiore delle isole Kerkennah.

Da qui la più grande delle Pelagie di sta solo un centinaio di miglia. L’Eu ropa è a meno di due giorni di navi gazione, se il mare è calmo. Ma quel la notte non è stato così. «Ho ricevu to la sua ultima chiamata attorno al le 9 di mattina – racconta Alì – era im paurito, urlava di chiamare la poli

zia, di chiedere aiuto perché il mare era agitato e la barca stava per rove sciarsi. Da allora non sono più riusci to a mettermi in contatto con lui. E così è andata anche per tutti gli altri familiari dei passeggeri di quella bar ca». Da circa una settimana, ogni giorno le famiglie dei naufraghi piantonano il Palazzo del Governo. Aspettano di essere ricevute da qualche rappresentante del nuovo esecutivo di transizione. Vogliono sapere che fi ne hanno fatto i loro cari, fuggiti ver so un futuro migliore, dopo aver pa gato 2 mila dinari ciascuno (circa mil le euro). Ma finora l’attesa è stata va na. «Nessuno ci ha ancora dato udienza – dice Essayda, sorella di Mondher Ayari, di cui tiene stretta la foto tra le mani – ogni giorno vedia mo passare l’auto del premier Beji Caid el Sebsi, che sfreccia via veloce per non fermarsi. Stiamo aiutando i profughi africani e asiatici che fuggo no dalla Libia alla frontiera di Ras Jdir. Ma di noi che siamo tunisini, a nessuno importa nulla». Del resto, le

notizie che giungono da Lampedusa non sono rincuoranti. «Mio cugino Makrem è arrivato sull’isola – rivela Alì – sono riuscito a parlare con lui per telefono. Mi ha confermato che di quella barca non si sa nulla».

Sono almeno cinquanta le perso ne che fanno la spola tra la casba e l’ufficio dell’ambasciatore Pietro Be nassi, nel quartiere Barcelone. Sono madri, padri, sorelle e fratelli dei di spersi. Vengono da ogni parte della Tunisia. Qualcuno, come Alì, vive a Tunisi, altri sono di Sfax, Sousse, Zar zis o Kairouan. Hanno volti tirati per la preoccupazione e per lo scarso sonno. «C’è gente che non mangia e non dorme più da giorni – dice Es sayda – e la polizia cosa fa? Ogni vol ta che ci avviciniamo alza i manga nelli, persino su donne e bambini. Solo perché chiediamo di parlare

con Sebsi o con qualcun’altro del Go verno. Ben Ali se n’è andato ma la mentalità di questi politici non è af fatto cambiata. Una cosa è certa: non molleremo finché non avremo una risposta. Vogliamo riavere i no stri parenti, vivi o morti». In ballo c’è la memoria dei loro cari, da tutelare, per evitare che il loro possa essere un nuovo naufragio fantasma, come quello avvenuto il 26 dicembre del

1996 a Portopalo di Capo Passero, quando il mare di mezzo inghiottì vi ta e ricordo di circa 300 migranti pakistani e indiani.

Molti i ragazzi che sono spariti nel mare dall’inizio di marzo. Da quan do, cioè, è iniziata la seconda ondata migratoria del 2011 verso Lampedu sa, dopo quella di metà febbraio. Ne gli ultimi giorni, l’eco di alcuni natan ti colati a picco è giunta fin nelle zo ne più interne della Tunisia, in città depresse come Gafsa, Thala, Tozeur o Ben Guardane, dalle quali sta fug gendo un’intera generazione. «Se ne vanno perché qua non c’è lavoro – spiega Mohamed, fratello di Brahim

Nassine, il più piccolo dei dispersi, coi suoi 14 anni –. Anche dopo la ri voluzione, tutto è rimasto come pri ma». Per questo si continua a tentare la sorte, ogni notte.

Lungo la costa orientale si dipana la lunga mappa dei punti di parten za: Kelibia, Chebba, Sfax, specie nel la zona di Sakiet Eddaier, le isole di El Attaya e Djerba. E poi giù lungo il golfo di Gabes, fino a Zarzis. Gli smuggler che stanno gestendo que sta nuova tornata migratoria sono di

versi da quelli che operavano in Li bia fino al 2008. «Sono tunisini – spie ga Alì – alcuni di loro si occupano di recuperare una barca e di fare la col letta tra i passeggeri. Poi si imbarca no assieme a loro. Anche il 14 marzo è andata così». Compongono, insom ma, una grande rete, più che un’orga

nizzazione verticistica. Zone come le spiagge di Zarzis o più a nord il porto di Sfax e, per l’appunto, le isole Ke rkennah, sono diventate ricettacolo di ogni tipo di trafficanti. Polizia ed esercito tunisini fanno quel che pos sono, ma non certo semplice.

È notizia di ieri che tre persone so no state arrestate con l’accusa di ave re organizzato, da Zarzis, il viaggio verso l’Italia di un gruppo di migranti conclusosi sette giorni fa con tre mor ti annegati. La barca, con a bordo 49 persone, ha avuto un’avaria in mare aperto. I migranti in preda al panico

si sono gettati in acqua, cercando di raggiungere la costa a nuoto. Tre di lo ro non sono mai giunti alla riva.

«Abbiamo bisogno di aiuto – implo ra Alì – diteci a chi possiamo rivolger ci. Non è possibile che ci lascino così, senza una risposta. Che l’Italia ci aiu ti. Anche voi pattugliate quelle acque. Non potete preoccuparvi solo di eri gere un muro nel Mediterraneo. La vostra televisione non fa che riempir ci gli occhi e le orecchie con i finti naufraghi dell’Isola dei famosi. Dovete rendervi conto che dentro questo mare, così vicino a casa vostra, c’è muore veramente».

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