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La pace in piazza, senza ambiguità

Una piattaforma senza ambiguità, nel solco dell’appello lanciato da quell’hombre vertical che si chiama Gino Strada e da altre persone della sua stessa pasta. Contro l’intervento in Libia e per «sostenere le rivoluzioni e le lotte per la democrazia e la libertà, garantire accoglienza e protezione ai profughi e ai migranti, opporsi alle dittature, ai regimi, alle occupazioni militari, alle repressioni in corso».

Il Coordinamento2aprile ha raccolto le adesioni di numerose sigle di associazioni e organizzazioni, tra cui anche la Rete dei comunisti.

A Roma alcune migliaia di manifestanti si sono radunati a piazza Navona. Sul palco allestito da Emergency ha parlato Gino Strada: «Quando si bombarda si chiama guerra – ha detto – Poi si possono utilizzare tutti gli aggettivi, ma rimane sempre guerra. Il problema non è cosa si può fare ora, ma cosa si poteva fare in questi anni. Cos’ha fatto la politica? Si sarebbero potuti spedire degli ispettori, eppure con la Libia in questi anni si è trattato. Ora bisogna abolire la guerra come si è fatto con la schiavitù».

E’ questo, in effetti, il punto vero su cui concentrare l’attenzione immediata e la riflessione politica. Dalla guerra contro la Jugoslavia in poi, ovvero dal 1999, la guerra è diventato il modo ordinario di regolare i problemi che l’Occidente individuava in paesi deboli dal punto di vista politico e militare, ma ricchi dal punto di vista delle risorse naturali, o da quello geostrategico. Da tutte queste guerre non è maturata alcune “democrazia”. Al massimo qualche regime semi-dittatoriale che si legittima tramite brogli elettorali colossali coperti dagli occupanti in armi (l’Iraq, per esempio).

Di tutte queste guerre – cinque, finora – solo Usa, Gran Bretagna e Italia sono stati sempre presenti. Significherà pur qualcosa.

A Torino, alla «Fabbrica delle idee», c’era invece don Luigi Ciotti: «ora bisogna lavorare per spegnere l’incendio scoppiato in Libia, non alimentarlo. Bisogna togliere la parole alle armi e ridarla alla politica», ha detto il fondatore di «Libera» e del Gruppo Abele.

Manifestazioni si sono tenute anche a Milano (5.000 persone a piazza Fontana), Genova, Firenze, Vicenza e altre 35 città, ma anche a Ventimiglia e Manduria, le due cittadine più coinvolte nell’arrivo massiccio di migranti dal Nord Africa.

Sit-in di proteste si anche davanti alla base aerea di Decimomannu (Cagliari) – che ospita 22 aerei a disposizione della coalizione da Spagna, Olanda e Emirati Arabi Uniti – e nei pressi della Base Usaf di Aviano (Pordenone).

 

Da ieri e fino al 4 aprile una delegazione di diverse organizzazioni italiane sarà in Tunisia per una visita di «conoscenza e solidarietà» con la rivoluzione tunisina, su invito delle organizzazioni tunisine che fanno parte del Forum sociale del Maghreb.

 

La partecipazione alle manifestazioni è stata importante, ma non oceanica. Ha pesato, in questo frangente, il disorientamento di quella che finora era stata la “sinistra”. I “mostri sacri” – da Ingrao alla Rossanda – si sono rivelati incapaci di distinguere analiticamente, e quindi politicamente, tra le rivolte popolari e le guerre civili. Tra richieste di avanzamento democratico (il Tunisia, Egitto, Behrein, e altri paesi arabi) e conflitto tribale per chi deve controllare la risorsa principale di un paese. Non è assolutamente vero, insomma, che “le rivolte arabe sono tutte uguali”. Ogi paese ha la sua storia, le sue contraddizioni, i suoi problemi. Ed è evidente che i paesi “nell’orbita” degli interessi occidentali hanno espresso rivolte sponsorizzate a parole qui da noi (senza neppure un singulto di vergogna umanitaria per l’invasione del Bahrein da parte dell’Arabia Saudita, al solo scopo di reprimere le manifestazioni in piazza della Perla, a Manama), ma non aiutate in alcun modo. Mentre il conflitto interno alla Libia, tra parti della popolazione chiaramente identificabili anche sul piano territoriale, ha ricevuto una partecipazione diretta, anche sul piano militare.

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