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Battisti libero: problemi giuridici ed eccezioni reazionarie

Patrizio Gonnella *
 Sabino Cassese e la «aberrante» non estradizione

 

Patrizio Gonnella *
La discussione politica intorno alla mancata estradizione di Cesare Battisti ha assunto toni da crociata che hanno impedito un pacato e utile ragionamento intorno ai nodi giuridici che sottostanno alla decisione brasiliana. Su uno di questi nodi vorrei soffermarmi. Nell’articolo di Antonio Cassese pubblicato ieri su Repubblica era definito aberrante il provvedimento giuridico di mancata estradizione. Tra gli argomenti usati è comparso quello per cui in Italia non vi sarebbe una sistematica violazione dei diritti dei detenuti. Sia per cognizione diretta che alla luce di autorevoli sentenze di organismi giurisdizionali europei, mi sentirei di dire che in Italia i diritti e la dignità dei detenuti siano sufficientemente calpestati. I diritti umani nelle carceri italiane non sono rispettati né sulla carta né nella vita quotidiana. Il sistema normativo di protezione è lacunoso ed ineffettivo.
L’Italia non ha mai ratificato il protocollo opzionale della convenzione dell’Onu contro la tortura. Ciò significa che non ha mai istituito – così come avrebbe voluto l’Onu – un organismo indipendente di controllo dei luoghi di detenzione. Inoltre non ha mai introdotto il crimine di tortura nel codice penale. Erano queste due delle tante osservazioni critiche fatte dallo Human Rights Council (organismo Onu) all’Italia nel giugno 2010. Una terza osservazione in ambito penale riguardava il sovraffollamento carcerario che metteva – e mette – a rischio i diritti umani delle persone recluse. Il sovraffollamento non è una calamità naturale. E’ frutto di scelte legislative e di prassi di polizia. In questo anno l’Italia non ha fatto praticamente nulla per ovviare alle critiche degli organismi sopranazionali. Abbiamo – dopo Cipro e Bulgaria – le carceri più affollate di Europa: circa 145 detenuti ogni 100 posti-letto. La Corte europea dei diritti umani – rifacendosi agli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura – ha condannato l’Italia nel 2009 nel caso Sulejmanovic per violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 che proibisce la tortura. Il detenuto bosniaco fu costretto a vivere per periodi di tempo congrui in una cella di meno di tre metri quadri. Il suo non era un caso singolo. Nei giorni scorsi la Corte ci ha comunicato l’ammissibilità dei primi 2 ricorsi esaminati, rispetto agli oltre 100 finora presentati dal nostro difensore civico. In ognuno di questi 100 ricorsi raccontiamo di detenuti che hanno vissuto in celle con meno di 3 metri quadri a disposizione. Ben oltre la metà delle carceri italiane è quindi fuorilegge rispetto alle norme internazionali. In questi giorni migliaia di detenuti stanno protestando in modo pacifico e non violento in adesione allo sciopero della fame di Marco Pannella. Una protesta al limite rumorosa ma mai violenta. Eppure dalle carceri arrivano segnali di trasferimenti punitivi di coloro che vi aderiscono. La libertà di espressione è quindi negata. Anche il diritto alla vita è messo in discussione. 70 sono i detenuti morti dall’inizio dell’anno. Non sono un’inezia. Negli ospedali psichiatrici giudiziari le condizioni di vita sono terribili.
L’Italia non può usare l’argomento carcerario per sostenere in ambiti internazionali la legalità de proprio sistema giuridico.
* Presidente Antigone
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È un killer uruguayano e si chiama Troccoli

 Maurizio Matteuzzi

Indignazione generalizzata. Ma selettiva. C’è un «Caso Battisti», però al contrario. In Italia. La mancata estradizione non provoca polemiche, scalpore. Il «nostro» Cesare Battisti è uruguayano, anche se dal 2002, nonostante fosse un criminale, un assassino, un torturatore (e si sapeva), ha avuto cittadinanza e passaporto italiani. Si chiama Néstor Troccoli, uruguayano del ’47, ex capitano di vascello della marina, membro dell’intelligenge della dittatura ( ’73-’85). In Uruguay ha ammesso di avere torturato detenuti politici, partecipato al trasporto di una trentina di uruguayani dall’Argentina («sovversivi» poi desaparecidos) nell’ambito del Plan Condor. Ammesso e rivendicato in un libro, «L’ira del Leviatano», in cui scrive che «il dovere di un soldato è eseguire gli ordini dello Stato senza discutere». Nel ’97 arrivò a Marina di Camerota, nel Salernitano, da dove il suo bisnonno era partito ai primi ‘800 per raggiungere Garibaldi a Montevideo. Poi ci tornò «per sempre» e da cittadino italiano nel 2007 dopo che in Uruguay, nonostante l’ impunità per i killer della dittatura, l’aria s’era fatta meno sicura ed era pronto un ordine d’arresto. Fu arrestato a Marina di Camerota nel dicembre 2007 ma su ordine del giudice Giancarlo Capaldo, con l’accusa di aver sequestrato e fatto sparire 6 cittadini di origine italiana. Da lì cominciò un percorso kafkiano che si concluse con il rimpallo delle responsabilità e la sua impunità. L’Uruguay aveva avviato la richiesta di estradizione. Che forse arrivò tardi. Forse quando arrivò l’ambasciatore uruguayano tardò a inoltrarla alla Farnesina. I termini decorsero. Lui fu scarcerato nell’aprile 2008. Scandalo in Uruguay. Nel settembre 2008 il ministro della giustizia Angelino Alfano chiuse il caso negando definitivamente l’estradizione di Troccoli perché, in quanto cittadino italiano per il trattato bilaterale del… 1879, non è estradabile. Ricorso dell’Uruguay alla Corte di cassazione italiana. Respinto. Troccoli in spiaggia.
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Quarto partner commerciale, terra di investimenti
L’amicizia corre su Fiat

Loris Campetti

«Una stretta e solida amicizia» lega l’Italia al Brasile e tale rapporto «non cambierà a causa di questa situazione». La situazione di cui parlava Silvio Berlusconi all’inizio di gennaio è la stessa che oggi manda in fibrillazione il mondo politico: il caso Battisti. Chi invece si occupa più che di politica d’affari – come il presidente del consiglio – teme reazioni esasperate che possano mettere a repentaglio l’interscambio economico tra i due paesi. Improbabile che avvenga, dato che il Brasile è il quarto partner commerciale dell’Italia, e viceversa, con un saldo positivo per il nostro paese di qualche centinaia di migliaia di dollari. Nel 2010 l’importazione in Brasile di made in Italy ha registrato un trend in crescita, nel primo quadrimestre addirittura del 43,7%, mentre l’esportazione brasiliana il Italia è aumentata del 25%. Sempre nel primo quadrimestre, il valore dell’interscambio è stato di 2,65 miliardi di dollari.
Ma gli affari – e dunque la «solidità» dell’amicizia, per dirla con Berlusconi – va ben oltre l’interscambio. Provate a chiedere a Sergio Marchionne se il Brasile è o non è un «paese amico»: la Fiat vende nel subcontinente latino americano più di quando venda in Italia ed è al primo posto nell’hit parade brasiliana delle quattro ruote, davanti alla Volkswagen. Betim (Belo Horizonte), nel Minas Gerais, ospita uno dei più grandi stabilimenti della multinazionale (già) italiana, ma sono molte le fabbriche di componentistica e dell’intero settore automotive. Nei primi cinque mesi del 2011 la Fiat ha venduto in Brasile 300 mila vetture, 20 mila più dei concorrenti tedeschi. Una quota di produzione è destinata all’esportazione in altri paesi dell’area e, in parte minore, in Europa.
Si moltiplicano gli accordi commerciali in moltissimi settori economici, dall’edilizia alla meccanica, cresciuti dopo l’accordo di partenariato Italia-Brasile sigliato a Washington due anni fa. Nel mese di aprile di quest’anno, per esempio, l’Ice (Istituto per il commercio estero) ha promosso la partecipazione di 17 importanti aziende italiane alla Latin America Aerospace and Defence di Rio de Janeiro. Telecomunicazioni, sistemi di difesa e armamenti rappresentano voci importanti dell’«amicizia» italo-brasiliana, sia nella voce interscambio che in quella investimenti. Dalle parti di Confindustria e di Torino, una crisi delle relazioni diplomatiche è vista come il fumo negli occhi.

da “il manifesto” del 10 giugno 2011

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