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Genova. Chi non è con noi, è contro di noi

La militarizzazione della vita politica e sociale, il varo di leggi dichiaratamente xenofobe e razziste, uniti a una repressione sempre più assidua e puntigliosa di ogni manifestazione non allineata alle retoriche della «democrazia liberale«1 fino ad un utilizzo sempre più irreggimentato dell’informazione sono lo scenario quotidiano nel quale il nostro paese è immerso. Esemplificativo al proposito il «Decreto sicurezza» approvato il 22 aprile 2009. Un pacchetto legislativo che, oltre agli ormai abituali e «normali» provvedimenti xenofobi e razzisti, legalizza la costituzione delle «Ronde dei cittadini». Una sorta di «milizia civile» riconosciuta dallo Stato per mettere ordine e disciplina all’interno di quell’arcipelago di «ronde spontanee», particolarmente diffuso nelle aree geografiche del Nord Italia ma che sta rapidamente facendo scuola anche in gran parte del territorio nazionale come i fatti di Rosarno hanno dimostrato. In questo modo, lo Stato, compie un ulteriore passaggio verso la mobilitazione, in chiave controrivoluzionaria, delle «masse”

In poche parole l’operazione, che sarebbe sciocco considerare puramente simbolica, mira a rafforzare sul piano politico e militare gli apparati della controrivoluzione contro la possibilità che, dentro la crisi, si manifestino momenti di lotta e insorgenza proletaria.

Un disegno tutt’altro che eccentrico ma che si sintonizza appieno nelle strategie di contro – guerriglia preventiva e controllo dei territori al quale, da tempo, il comando del capitale attraverso le sue strutture politiche e militari è impegnato3.

Osservata da questo punto di vista la proposta di legge presentata dalla Lega il 14 marzo 2011 e annunciata alla Camera il 4 aprile, non ha l’aspetto di una boutade in pieno stile «padano», né si presenta come il sogno delirante di pattuglie «anti-terroni» ideato dal partito sguaiato di Bossi bensì si mostra del tutto in linea con la tendenza alla guerra, sia interna che esterna, propria dell’attuale fase imperialista. La proposta leghista prevedeva ( essa è stata infatti, per il momento, ritirata in quanto – a detta dei suoi stessi promotori – ancora «precoce») l’istituzione di eserciti regionali sul modello della Guardia Nazionale statunitense: corpi di volontari, con la stessa divisa dell’esercito, dotati dell’armamento leggero dei Carabinieri, addestrati da Esercito e Carabinieri dai quali sarebbero cooptati i tenenti colonnelli da mettere a capo di ciascuno dei 20 eserciti regionali.

Nella relazione presentata insieme alla proposta di legge, si può leggere la seguente spiegazione: «Nella Repubblica manca uno strumento agile e flessibile che possa essere impiegato a richiesta degli esecutivi regionali per far fronte alle situazioni che esigono l’attivazione del sistema di Protezione Civile. L’importazione nel nostro ordinamento dell’Istituto della Guardia Nazionale permetterebbe di assicurare il soddisfacimento di queste esigenze liberando i reparti operativi delle Forze Armate da compiti di presidio del territorio dei quali sono talvolta impropriamente gravati e predisponendo uno strumento utilizzabile all’occorrenza quando il moltiplicarsi degli interventi all’estero riduca, ad esempio, le risorse organiche disponibili in patria».

Il compito di questo nuovo corpo, alle dipendenze sia del Capo di Stato Maggiore della Difesa, per quanto riguarda l’esecuzione di ordini deliberati dal Consiglio dei Ministri, sia dei tenenti colonnelli subordinati all’autorità dei governatori di regione per fronteggiare le emergenze locali, consisterebbe nel «presidio del territorio», ossia nella gestione dell’ordine pubblico in casi di emergenza, tra i quali vengono citati in maniera significativa gli attentati alle infrastrutture e ai siti produttivi. Esso costituirebbe, dunque, la controparte «interna» dell’Esercito e delle forze di polizia impegnate in operazioni «esterne». Una controparte formata, però, di volontari in servizio temporaneo (annuale secondo tale proposta di legge), così da garantire un continuo ricambio volto ad assicurare i legami con la popolazione: insomma una leva volontaria in chiave repressiva e controrivoluzionaria. Non è un caso d’altra parte, che tale proposta sia stata fatta quasi in contemporanea con l’inizio delle operazioni militari in Libia.

Palesemente, tutto ciò, non è il frutto di un insieme di contingenze più o meno casuali ma il risultato di una «strategia» che affonda le sue radici sin dentro gli anni ’90 del secolo scorso. La sua prima concreta manifestazione, almeno per quanto concerne i nostri mondi, può essere facilmente individuata negli eventi che hanno fatto da sfondo al G8 genovese.

Da lì, con ogni probabilità, è necessario prendere le mosse seguendo un percorso che, in apparenza, potrebbe apparire anomalo: partire dalle «giornate genovesi» per andare a cercare, andando a ritroso, i passaggi e le origini dell’attuale fase strategica del comando del capitale di cui la «gestione» del G8 genovese4 è stato un momento sicuramente importante ma non ne ha rappresentato la nascita. Riassumiamo brevemente quanto accaduto.

Genova, luglio 2001.

Le manifestazioni organizzate contro il vertice del comando capitalista internazionale vengono ferocemente annichilite e represse. Il 20 luglio mentre Carlo Giuliani cade sotto i colpi dei carabinieri, centinaia di manifestanti sono selvaggiamente picchiati, arrestati e, in non pochi casi, successivamente torturati. Il passaggio alla tortura va colto in tutto il suo essere politico senza confonderlo con altre forme di violenza, molto frequenti e abituali, alle quali le forze di polizia sono particolarmente avvezze.

Quando si parla di tortura, in poche parole, non bisogna pensare a quel passage à tabac che, da sempre, caratterizza il comportamento della polizia nei confronti degli indagati, soprattutto se questi appartengono al classico mondo della marginalità o della malavita. L’uso della tortura non è un semplice maltrattamento ma un sistema finalizzato a un modello di interrogatorio e/o di prigionia incentrato sul terrore fisico e psicologico il cui obiettivo è l’annichilimento dei soggetti presi in custodia. Un sistema che non solo non si improvvisa ma che per essere gestito al meglio ha bisogno della regia e della pianificazione di autentici specialisti intorno ai quali, come nel caso del G8 genovese, possono ruotare anche quote non indifferenti di «volontari».

Tutto ciò è possibile solo se il potere politico decide di passare questo genere di soglia. Rispetto a ciò, cadere dal pero come è accaduto alla stragrande maggioranza delle forze politiche che avevano dato vita alle giornate anti-G8 lascia a dir poco perplessi dimostrando ancora una volta come non avere a mente la linea di condotta complessiva del potere imperialista conduca sia ad abbagli clamorosi sia a stupori inaccettabili da parte di un personale politico che ha la pretesa di rivoluzionare il mondo5. In Italia, del resto, il salto alla tortura, benché circoscritto a un numero ristretto di avanguardie ha un precedente significativo. Il 17 dicembre 1981, in seguito al sequestro del generale USA James Lee Dozier6 si è assistito a un «salto investigativo» di non secondaria importanza: l’uso sistematico della tortura7. Il «salto alla tortura» è un salto interamente politico che testimonia come il «politico» abbia raggiunto il suo massimo grado di intensità; perciò non può essere considerato in alcun modo l’effetto di eccessi compiuti da apparati statuali finiti fuori controllo.

Ciò che a Genova si è repentinamente «scoperto» è l’importazione a livello di massa, dentro un territorio metropolitano del Primo mondo, di una condotta usuale in gran parte delle altre aree del pianeta8. Non è secondario ricordare che, a gestire le operazioni dove ha trovato la morte Carlo Giuliani, vi era un reparto delle Compagnie di Contenimento Intervento Risolutive dei Carabinieri sotto la guida del capitano Claudio Cappello il quale, al momento dei fatti, poteva vantare un curriculum internazionale di prim’ordine. Nel corso della «missione di pace» condotta dall’imperialismo nostrano in Somalia, questi, era responsabile della sicurezza del porto di Mogadiscio ed era rimasto implicato in episodi di tortura a danno dei nativi. Dopo i fatti di Genova, il medesimo è stato promosso Maggiore. Con questo grado è stato impiegato nella «missione di pace» in Iraq.

Questo è il nocciolo della questione. Al proposito l’antecedente del sequestro Dozier è quanto mai indicativo. Nel momento in cui a entrare in ballo sono stati, direttamente, gli interessi della Nato le «procedure investigative» si sono immediatamente allineate a un modello internazionale.

Ma riprendiamo tra le mani il filo del nostro discorso.

Il giorno dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, a Genova, lo scenario si fa, se possibile, ancora più inquietante. Il corteo internazionale, al quale partecipano tra le tre e le quattrocentomila persone, è scientemente aggredito senza neppure la necessità che si presenti un qualche pretesto. Con un attacco che, per i modi in cui è condotto, mostra di essere stato puntigliosamente preparato da tempo, i manifestanti sono caricati, inseguiti e dispersi. Nessuna via di fuga è lasciata loro aperta. La linea di condotta delle forze di polizia non lascia spazio ad ambiguità di sorta: non si tratta semplicemente di disperdere il corteo bensì annientarlo, terrorizzarne i partecipanti, umiliarli e annichilirne le volontà. Alle forze terrestri, che attaccano il corteo frontalmente e sulle ali, si aggiungono gli elicotteri che lo bombardano dall’alto, oltre a non esigue forze appostate sui terrazzi dei palazzi circostanti che iniziano a praticare contro i dimostranti un vero e proprio tiro al bersaglio utilizzando senza alcuna parsimonia i nuovi micidiali gas lacrimogeni.

I manifestanti che provano a trovare riparo sulle spiagge adiacenti scoprono repentinamente di non avere scampo. Il mare è presidiato. Sulle spiagge si catapultano, a tutta velocità, le forze delle polizie tenute in posizione di riserva a poca distanza dalla battigia. Sull’arenile la mattanza dei dimostranti ricorda sin troppo da vicino la caccia ai cuccioli di foca. Le forze di terra, mare e cielo convergono, attraverso una regia che non ha nulla di improvvisato, contro una popolazione pressoché inerme. L’attacco riporta alla mente il «fare eroico» della cavalleria nordamericana alle prese con gli accampamenti indifesi dei nativi mentre, la cattura e la deportazione dei prigionieri verso caserme e carceri, rimandano alle procedure adottate dalle SS nel corso dei rastrellamenti anti-ebraici. Il corteo che, tra l’altro, non ha alcuna veste «militante» si disperde per lo più in maniera scomposta9. Ma la fuga, ben presto, mostra di non essere una soluzione. Il ruolo delle forze dell’ordine non è tattico: sgomberare le strade dai manifestanti, bensì strategico: portare a termine una vera e propria «campagna di annientamento». La loro linea di condotta non lascia spazi a interpretazioni. Non il controllo delle strade ma il sangue dei manifestanti è l’obiettivo ricercato, attraverso una logica tipica del rastrellamento antipartigiano10, con determinazione ed efficienza. E di sangue ne scorrerà in abbondanza.

Avvisaglie non secondarie di ciò si erano avute in maniera inequivocabile nel corso della precedente giornata.

Da parte delle forze dell’ordine non vi era stata alcuna selettività nei confronti dei manifestanti. Nessuna distinzione tra «manifestanti combattenti» e «manifestanti inermi«11 tanto che, in non pochi casi, a subire le cariche più pesanti, i pestaggi maggiormente intensivi insieme a umiliazioni e vessazioni di ogni tipo, una volta fatti prigionieri, sono stati i gruppi apertamente pacifisti molti dei quali di formazione e ispirazione religiosa. Non si tratta del resto di un fatto nuovo. Basta pensare come, soprattutto nel Continente sudamericano, i movimenti religiosi ispirati dalla Teologia della liberazione siano stati fortemente repressi, incarcerati fino ad arrivare all’eliminazione fisica di numerosi loro appartenenti. Una sorte che è toccata anche a individui e realtà meno radicali della Teologia della liberazione ma, in ogni caso, fortemente critici verso la dominazione imperialista e fascista che ha a lungo caratterizzato, su mandato nordamericano, buona parte del Centro e del Sud America. Esemplificativo al proposito è stato l’assassinio del Cardinale Oscar Arnulfo Romero avvenuto in San Salvador il 24 marzo del 1980. Romero, agli occhi dell’imperialismo e delle gerarchie ecclesiastiche reazionarie e clerico fasciste che con questo si identificano, per le sue posizioni democratiche è ascritto di diritto al campo della nemicità, è hostis12 e come tale viene trattato13.

Un fatto per nulla secondario e archiviabile come semplice eccesso ma fortemente esplicativo di come, nell’attuale fase imperialista, non vi sia spazio per alcuna posizione critica ancorché moderata e pacifica. Le forze imperialiste, come inevitabilmente obbligano le logiche del «politico»14, si raggruppano portando alle estreme conseguenze la coppia dicotomica amico/nemico15 dichiarando senza troppi indugi: «Chi non è con noi, è contro di noi!». Ciò è tanto più vero e obiettivamente necessario nel momento in cui la crisi della fase imperialista si acutizza e la tendenza alla guerra16 si fa sempre più linea egemone e totalizzante. Ma non anticipiamo troppo e torniamo al nostro racconto.

I manifestanti sono inseguiti, picchiati, arrestati. Le ambulanze, attaccate a colpi di lacrimogeni, bloccate. I feriti sequestrati, fatti prigionieri, trasportati nelle caserme e in carcere, molti torturati. Neppure gli ospedali sono risparmiati. Le forze di polizia entrano nei nosocomi e trascinano via coloro che vi avevano trovato rifugio.

Una cappa di terrore, repentinamente, cala sull’intera città. La caccia al manifestante è aperta. Chiunque si trovi a incrociare il suo cammino con quello delle forze dell’ordine è massacrato e lasciato sanguinante sul terreno. In serata la ciliegina sulla torta: l’assalto alla scuola Diaz, dove alcuni «reduci» della giornata stavano ormai dormendo e la devastazione della scuola Pertini dove era allocato il centro comunicativo dei manifestanti. Due eventi che, per il modo in cui sono stati condotti, meritano di essere osservati con una qualche attenzione poiché, ancor più di quanto accaduto nel corso delle due giornate, mostrano la totale subordinazione del militare e/o del poliziesco al politico17.

Le operazioni, infatti, sono spiegabili solo in termini politici (la decisione politica di annichilire e terrorizzare ogni forma di critica al dominio della borghesia imperialista internazionale) poiché, sotto il profilo militare, l’operazione non aveva né senso, né motivazioni. Inoltre, alla brutalità delle aggressioni compiute a notte inoltrata e in un contesto ormai ampiamente pacificato ben difficilmente può essere accordata l’attenuante di aver agito nel «furore della battaglia» quando, l’eccesso, trova sempre il modo di essere in qualche modo giustificato. Le scuole Diaz e Pertini non rappresentavano un obiettivo militare di un qualche interesse ma, ed è questo il punto, erano due obiettivi civili facilmente inquadrabili e a portata di mano che ben si prestavano alla realizzazione del progetto politico messo in campo nel corso del G8: l’uso preventivo del terrorismo statuale nei confronti della popolazione18. Questi, molto sinteticamente, i fatti.

Da quelle giornate sono trascorsi dieci anni. Due lustri che hanno dimostrato come il G8 genovese non sia stato il tragico epilogo di un evento finito fuori controllo ma un passaggio, importante ma non unico, tutto interno alle forme di repressione e controllo dell’attuale fase imperialista che non pochi «atti» , come vedremo, avevano da tempo annunciato.

Dal punto di vista della teoria politica, pertanto, diventa centrale provare a capire di quale tendenza lo scenario che abbiamo descritto è testimone.

Un compito quanto mai urgente poiché, solo attraverso l’esatta lettura dell’attuale fase imperialista, è possibile affinare le armi della critica permettendo alla classe di organizzare, su scala internazionale, la resistenza contro l’attuale ciclo della controrivoluzione.

Sembra opportuno, pertanto, focalizzare lo sguardo intorno a quelli che, di questo passaggio, ne sono stati i punti di svolta.

Cominciamo pertanto con lo sgomberare il campo dal luogo comune che ha per lo più fatto da sfondo alle giornate del G8 genovese, da quella retorica, cioè, che ha teso ad archiviarle come un’anomalia tutta italiana imputabile alla prova di forza che il governo di centro destra appena insidiatosi avrebbe voluto dare19.

Una lettura che confina gli eventi delle giornate genovesi all’interno di una partita tutta italiana orchestrata da un governo che, senza pudori di sorta, considera l’epopea fascista forse criticabile ma non disprezzabile in toto20.

Una lettura localista e italianocentrica che, obiettivamente, lascia a dir poco perplessi imprigionando l’analisi all’interno di coordinate che nulla hanno a che vedere con lo scenario reale in cui i fatti si sono dati. Al contrario analizzando il contesto concreto degli eventi, ci si rende conto di come esso rimandi immediatamente alla dimensione internazionale della politica, dalla quale non è possibile e pensabile sottrarsi come se, in fondo, le relazioni tra gli Stati fossero ancora ascritte alla cornice che aveva preceduto lo scoppio del Primo conflitto mondiale.

Ma andiamo con ordine cominciando a mettere in evidenza i più banali dati di fatto.

Nel momento in cui il G8 apre i suoi lavori a Genova il governo di centro destra non ha neppure un mese di vita mentre la sua organizzazione è stata di totale appannaggio del precedente governo «progressista» che l’organizzazione del G8 ha voluto e preparato soprattutto tramite i quadri direttivi degli allora Democratici di Sinistra e di Massimo D’Alema che, di quel governo, ne era il Primo Ministro.

In questo senso il governo di centro – destra, e il suo premier in primis, nonostante l’attivismo che li caratterizza, e l’ansia che sicuramente avevano di mostrarsi agenti attivi e zelanti della controrivoluzione, non hanno potuto far altro che occuparsi delle fioriere mancanti, della copertura, attraverso «teloni d’epoca», dei palazzi poco presentabili e impedire, per mezzo di una direttiva emanata dallo stesso premier, che mutande, calzini e biancheria varia facessero da cornice alle passerelle dei potenti della terra.

In poche parole bisogna riconoscere che in questo frangente il governo di centro destra, pur prono al decisionismo politico, ha dovuto limitare l’ambito della decisione alla sfera estetica. Se nessun indumento intimo ha turbato gli sguardi di Bush, Putin e soci è interamente ascrivibile al piglio forte e deciso del nostro premier in carica ma tutto il resto non è stata farina del suo sacco.

L’intera macchina organizzativa era stata preparata e oliata dal governo di centro sinistra, in carica da cinque anni. Il neogoverno di centro destra l’ha semplicemente ereditata limitandosi a renderla operativa. Neppure uno sforzo di proporzioni titaniche avrebbe potuto, in poco più di venti giorni, allestire l’apparato messo in campo a Genova21.

Legare gli eventi del G8 genovese, ascrivendoli all’interno di una partita tutta italiana, impedisce di cogliere dove e come si colloca il «cuore del politico», rendendo oggettivamente impossibile alla classe di definire con chiarezza e lucidità il campo dell’amicizia e dell’inimicizia22, portando in questo modo acqua al fronte della controrivoluzione imperialista.

Una non secondaria esemplificazione di questa miopia è possibile coglierla osservando il modo in cui è stata letta la linea operativa delle forze di polizia. Nell’interpretare la linea di condotta delle forze dell’ordine, ossessionati ancora una volta dai retaggi della «storia nazionale», si è teso a individuare nei loro comportamenti una sorta di neofascismo di ritorno23, il prevalere di un «sentimento antidemocratico» fino ad arrivare a ventilare l’ipotesi di tendenze golpiste.

In tutto ciò vi è qualcosa di bizzarro e drammatico al contempo. Bizzarro perché tale interpretazione dimentica che quelle forze di polizia, nella loro organizzazione e nei loro comandi, sono state politicamente egemonizzate e organizzate dal governo di centro – sinistra24; drammatico perché, in questo modo, si perdono completamente di vista le reali poste in palio dell’era contemporanea che solo degli sciocchi possono continuare a pensare e interpretare avendo a mente i confini nazionali e la loro storia.

Lo stupore delle più svariate forze politiche intruppate nel cosiddetto Movimento no global di fronte ai fatti del G8 genovese, a ben vedere, mostra semplicemente la loro palese inadeguatezza analitica e la miseria teorica, ancor prima che politico-organizzativa, che le ha contraddistinte.

Molto realisticamente, queste forze, sono precipitate nel baratro, trascinandovi centinaia di migliaia di persone, non in seguito a errori organizzativi, ma per il puro e semplice motivo che non avevano capito in quale contesto si stavano muovendo, con quali realtà politiche e militari si stavano misurando, quali classi avevano di fronte e, soprattutto, dentro quale fase imperialista ci si trovava, e ci si trova, ad operare. A disarmare la mobilitazione, pertanto, ancor prima che le scelte operative adottate sul campo, come per esempio il dichiarare guerra al G8 pensando di risolvere il tutto con atti puramente simbolici e comunicativi25, è stato il maneggiare un armamentario teorico e politico ampiamente spuntato e incapace di cogliere il «cuore politico» della questione26.

Centrale, in tutto ciò, è stato osservare le dinamiche politiche, economiche e militari dichiarando estinta la categoria di imperialismo. Un passaggio in qualche modo obbligato in quanto esatto corollario di una precedente forzatura teorica che aveva portato a dichiarare estinta la legge marxiana del valore.27 Da ciò derivano una serie infinita di abbagli primo fra i quali l’impossibilità di leggere in maniera «concreta» l’agire delle classi e soprattutto delle sue frazioni egemoni e del suo personale politico. Questo è quanto nei paragrafi seguenti si proverà a tratteggiare.

Interno ed esterno

Per comprendere ciò che nelle giornate genovesi si è mostrato in tutta il suo realismo politico occorre fare qualche passo indietro osservando gli scenari, locali e internazionali, che hanno fatto da sfondo all’era post guerra fredda.

Ben presto è apparso chiaro che, con la «caduta del Muro», l’umanità non si era messa in marcia verso un radioso, pacifico e prosperoso futuro ma, al contrario, con la fine del Patto di Varsavia tramontava l’ultimo katechon in grado di fungere da elemento di stabilizzazione internazionale, consentendo così all’imperialismo di aprire una nuova fase offensiva ma non solo28.

La fine della guerra fredda e del patto politico-militare che si portava dietro ha emancipato tutta una serie di imperialismi a base regionale e/o continentale che la forza del Patto di Varsavia costringeva a sottostare al sempre più declinante e ingombrante imperialismo a dominanza statunitense29.

È in tale frangente che inizia a emergere sempre più prepotentemente un imperialismo europeo che, nella costruzione politica dell’Europa, inizia a porsi seriamente il problema di esistere anche come realtà politica e militare autonoma e non semplicemente come insieme di consorterie finanziarie e industriali. Le recenti battaglie per il varo della Costituzione europea ne hanno rappresentato, sotto il profilo giuridico-formale, il vero e proprio banco di prova politico. Di pari passo si è assistito alla messa a regime di un Esercito e di una Polizia europea.

Tutto ciò ha avuto ripercussioni non secondarie sulla struttura Nato la cui funzione, pur non venendo messa in discussione dagli europei, è continuamente soggetta a negoziazioni da parte delle forze imperialiste Continentali non più disposte a far coincidere la loro «politica estera» con quella degli Stati Uniti. Per rendersene conto, rimanendo nel panorama italiano, è sufficiente leggere con una qualche attenzione la rivista di geopolitica Limes la quale, a più riprese, ha evidenziato lo scarto ormai esistente tra interessi imperialistici statunitensi e quelli Continentali chiedendo, senza troppi rigiri di parole, una gestione per lo meno «bipolare» della struttura Nato.

La fine della Guerra fredda non ha solo scatenato l’imperialismo europeo ma nel frattempo, in maniera sempre più autorevole, sono emerse nuove potenze globali quali la Cina e l’India per nulla disposte a rivestire i panni di comparse sulla scena internazionale. Realtà che, oltre al peso economico, possono vantare una forza militare non irrilevante.

In poche parole, la partita tra i blocchi imperialisti, è appena cominciata ed è tutta da giocare anche perché, nonostante i sogni imperiali coltivati, la potenza nordamericana appare per lo meno in fase di ripiegamento30.

Dal 2001, quando il termine BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India, Cina, cioè i paesi le cui economie crescono ad una velocità tale da portarle a competere con quelle delle altre potenze imperialiste) fu coniato in una relazione della banca Goldman Sachs, il peso economico e politico dei paesi del BRIC è andato crescendo in maniera esponenziale tanto da preoccupare visibilmente le vecchie potenze. Lo spauracchio della «grande conquista» cinese è diventata una vulgata popolare assai diffusa in Europa e in particolare nel nostro paese, tanto -a rendere invisi tutti i cittadini dagli occhi a mandorla, considerati pericolosi imprenditori disonesti e senza scrupoli col progetto di invadere e comprarsi il «Vecchio mondo».

Vulgate e leggende popolari a parte, Il BRIC – o BRICS, con l’aggiunta del Sudafrica – è diventata una realtà politica a tutti gli effetti che può mettere all’attivo già tre riunioni ufficiali in cui sono stati stabiliti accordi economici di notevole importanza nonché formulate richieste di rilievo, tra cui la fine dell’egemonia monetaria del dollaro in direzione di un «nuovo ordine monetario» e l’acquisizione da parte dei paesi del BRICS di un maggior peso nelle diverse organizzazioni internazionali. Considerando l’importanza che le economie di questi paesi posseggono per la ripresa dell’economia mondiale è chiaro che non si tratta di richieste destinate a restare senza effetto. A tutti gli effetti, e con tutte le contraddizioni che questo comporta, il BRICS si sta avviando diventare un nuovo blocco nella scacchiera internazionale. Tutto ciò non lascia, evidentemente, indifferenti le altre potenze che si stanno muovendo di conseguenza, per cercare di evitare un netto capovolgimento dei rapporti di forza.

E’ evidente come l’equilibrio che la fine della Seconda guerra mondiale, pur nella sua precarietà, aveva messo a regime si sia dissolto lasciando libero sfogo a molteplici raggruppamenti imperialisti non più legati a un patto obbligato con il colosso economico e militare statunitense.

Il nostro Paese, in questo, non ha fatto mostra di alcuna timidezza anche perché poteva vantare, da tempo, una robusta presenza di consorterie imperialiste non del tutto prone all’imperialismo a dominanza statunitense e, in qualche caso, in aperta dissonanza31.

Una realtà in gran parte ignorata dagli analisti della sinistra italiana. Infatti, da parte delle organizzazioni della sinistra, sia parlamentare sia extraparlamentare, l’attenzione nei confronti dell’imperialismo nostrano e Continentale è stata poco osservata poiché, la tesi del sottosviluppo, sostenuta dal Pci, trovava ampi consensi anche in gran parte delle formazioni nate alla sua sinistra32.

Del resto la non secondaria autonomia in politica estera mostrata, fin dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, da alcune frazioni politiche italiane nei confronti delle logiche «imperiali» statunitensi, come l’intraprendenza sia nei confronti del mondo arabo33 sia verso l’URSS34, sembrano testimoniare come l’«atlantismo» corrispondesse, almeno per corpose frazioni finanziarie e industriali, più a un’esigenza tattica che a una scelta strategica.

Nella gestazione della messa in forma di un imperialismo Continentale, le frazioni della borghesia imperialista nostrana, hanno sempre giocato un ruolo, forse non di prima rilevanza, ma certamente non da semplici spettatori.

Soffermarsi su tale aspetto diventa centrale poiché, per avere una lettura oggettiva del presente, occorre tenere a mente l’intero ciclo storico nel quale siamo immessi. Non si tratta di fare bella mostra di sapere storico ed economico, ma di affrontare per intero la questione relativa alla gestazione della fase imperialista attuale anche all’interno del sistema politico ed economico italiano. Fare ciò consente di emancipare l’analisi dalle strettoie del particolarismo, della «specificità italiana», «dell’Italia come paese non normale«35 e le conseguenti tendenze che portano a leggere la politica, anche nell’era del capitalismo globale, dentro la cornice della «storia nazionale».

Infatti, questa prospettiva non rappresenta solo un limite analitico e scientifico, privo di ricadute sul piano della prassi ma, al contrario, muoversi all’interno di un simile orizzonte teorico comporta la messa a punto di strategie politiche – nella migliore delle ipotesi – velleitarie che, il più delle volte, tendono a incatenare gli interessi di classe del proletariato a vantaggio di quella tendenza della borghesia che, di volta in volta, viene identificata come «borghesia progressista».

Su questo passaggio occorre aprire una corposa parentesi poiché si tratta di sciogliere un nodo e affrontare un malinteso dalle ricadute, per una strategia di classe, di vitale importanza. Da un punto di vista marxista non ha molto senso parlare di borghesia progressista o borghesia reazionaria. Nei suoi scritti storici, non diversamente da Engels, Marx analizza sempre la composizione di classe della società a partire dagli interessi «concreti» che, in un determinato svolto storico, si manifestano. Semmai, per Marx, la borghesia è progressista in quanto classe storica, in quanto classe che, a un determinato grado dello sviluppo storico, è in grado di rappresentare l’interesse universale. La borghesia, cioè, è stata oggettivamente progressista nei confronti della forma politica (oltre che del modo di produzione) preborghese.

Nell’era dell’imperialismo, la teoria marxista sviluppata da Lenin36, distingue, nei paesi imperialisti, i settori di borghesia diretta emanazione degli interessi finanziari e monopolistici dagli altri settori mentre, nei paesi sottoposti a dominazione coloniale, distingue tra borghesia e proprietari terrieri alleati alle potenze imperialiste e borghesia nazionale avversa sia a questi settori sia, ovviamente, all’imperialismo. In questo senso, nei paesi coloniali, si può parlare di borghesia progressista e non a caso, in tali circostanze, i marxisti e i leninisti hanno sempre applicato la tattica del Fronte unito per la liberazione nazionale, spingendo perché questa lotta portasse alla formazione di governi di «unità nazionale»; e «di classe» là dove il ruolo della classe operaia, del proletariato, dei contadini poveri e della piccola borghesia era predominante rispetto alle altre classi dell’alleanza37.

Questo scenario è del tutto inapplicabile nei paesi a dominanza imperialista. Va quindi spiegato come la leggenda della «borghesia progressista nei paesi imperialisti» abbia potuto avere tanta presa nei movimenti operai e proletari, tanto da poterne vedere gli effetti ancora oggi come le recenti partecipazioni ai governi di centro-sinistra hanno dimostrato. Una partecipazione che, oltre alla cosiddetta sinistra antagonista parlamentare, ha conosciuto entusiasmi variamente declinati anche da parte di non poche realtà extraparlamentari.

Lontana origine di questo passaggio è la svolta teorica, apparentemente repentina, dell’Internazionale comunista che, dalle tesi di «classe contro classe» del V Congresso (1924) passa alla tattica del Fronte popolare del VII (1935), dove viene ricercata l’alleanza sia con i partiti socialdemocratici, sia con quelle formazioni borghesi avverse al fascismo38.

Ma in quale contesto «concreto», questo è il punto, avviene il passaggio?

In Europa, nella prima metà degli anni Trenta, le ipotesi rivoluzionarie sono sconfitte e tramontate mentre, l’ombra della crisi del 1929, oltre a non essersi eclissata, è ogni giorno sempre più catastrofica. La tendenza alla guerra si fa sempre più reale e concreta39. La domanda che l’Internazionale comunista costantemente si pone non è se la guerra scoppierà, ma quando e in che direzione40. Non pochi indicatori, inoltre, fanno facilmente presagire che l’URSS sarà al centro della contesa e che, come aveva da tempo annunciato nella sua biografia Hitler, la Germania avrebbe cercato a est il suo «spazio vitale». Per di più, Hitler, non faceva mistero di considerare la distruzione del bolscevismo l’equivalente novecentesco delle crociate.

È in questo scenario, obiettivamente già bellico, che matura la tattica frontista. Quanto questa scelta sia stata dettata da una contingenza estrema è facilmente osservabile attraverso il successivo patto «Molotov-Ribbentrop» che, per quanto paradossale possa sembrare, è esattamente complementare alla tattica del Fronte popolare41.

Non diversamente da quanto aveva fatto Lenin, accettando di firmare una pace di Tilsit42 con l’imperialismo tedesco pur di guadagnare tempo, l’Internazionale Comunista scende a patti con l’imperialismo nazista per difendere ciò che, al momento, per il proletariato internazionale è oggettivamente il bene più prezioso: la salvaguardia dell’URSS e il potere sovietico. Con la sola eccezione di Churchill43 che, con non poca lucidità, aveva individuato la Gran Bretagna come obiettivo oggettivamente strategico per l”imperialismo tedesco, le borghesie imperialiste britanniche e francesi ignoravano sostanzialmente la minaccia e vedevano nella Germania nazista un valido alleato in funzione antioperaia e antibolscevica, confidando che le mire naziste si concentrassero unicamente ad est. In questo modo, auspicando un conflitto armato tra Germania e URSS, gli altri imperialismi continentali ne avrebbero, in un futuro neppure distante, colti per intero i frutti. Una guerra sanguinosa e particolarmente distruttiva tra i due paesi avrebbe creato scenari postbellici particolarmente appetibili alle potenze imperialiste rimaste in disparte o entrate nel conflitto quando i contendenti si fossero ormai dissanguati e, fatto per nulla trascurabile, una guerra rovinosa per l’URSS avrebbe offerto su un vassoio d’argento l’opportunità di liquidare definitivamente lo spettro bolscevico. Questa la realtà politica «concreta» in cui prendono le mosse sia il Fronte popolare sia il patto con il nazionalsocialismo tedesco.

Il cuore strategico dell’intera operazione è la salvaguardia del potere sovietico, il resto è tattica persino disperata dentro uno scenario che non faceva coltivare troppe illusioni44. L’attacco nazista all’URSS rimette in piedi, su basi statuali, la tattica del Fronte popolare attraverso la coalizione antinazifascista ma questa tattica, come i fatti storici hanno abbondantemente mostrato, si esaurisce nei mesi successivi alla vittoria sul nazifascismo, quando l’alleanza con le forze borghesi antinazifasciste mostra di essere né più e né meno di un’alleanza militare, cui entrambi gli schieramenti non potevano sottrarsi, pena la non improbabile sottomissione al dominio nazifascista. Molto di più non c’è45.

L’aver eternizzato la tattica frontista è solo il frutto maturo del passaggio verso posizioni sempre più affini alla socialdemocrazia e all’abiura del leninismo. Dall’obiettiva necessità storica del frontismo, nel nostro Paese, è sorta una leggenda che ha conosciuto fasti insperati. All’origine vi è l’idea, fortemente coltivata a sinistra grazie soprattutto alle teste d’uovo del Pci, dell’Italia come paese sottosviluppato, alle prese con un capitalismo straccione e una classe politica dirigente diretta emanazione dell’imperialismo statunitense. Una condizione, in sostanza, non troppo distante da una colonia.

Si tratta di posizioni maturate nel Pci nel secondo dopoguerra delle quali, in precedenza, non si era avuto sentore. È in tale frangente che, repentinamente, viene modificata l’analisi sul significato storico del fascismo. Non più espressione della borghesia imperialista, secondo le categorie marxiste, ma, ricorrendo a piene mani all’armamentario del liberalismo, dominio delle forze oscurantiste, illiberali e reazionarie (non in senso politico ma storico). Il fascismo quindi come movimento che riporta al passato, dentro una forma politica dal sapore e dai connotati semifeudali. Se il ventennio è stato questo, allora l’Italia è un paese addirittura preborghese e vittima della politica imperialista maggiormente dominante. Eppure, non molti anni prima, Togliatti, sul fascismo, scriveva cose assai diverse.

Riportarne qualche passaggio pare pertanto utile:

«Al IV congresso, per esempio, Clara Zetkin fece un discorso sul fascismo il quale fu quasi tutto dedicato a rilevare il carattere piccolo-borghese del fascismo. Bordiga invece insistette sul non vedere alcuna differenza tra la democrazia borghese e la dittatura fascista, facendole apparire quasi come la stessa cosa, dicendo che vi era, fra queste due forme di governo borghese, una specie di rotazione, di avvicendamento. In questi discorsi manca lo sforzo di unire, per collegare, due elementi: la dittatura della borghesia e il movimento delle masse piccolo-borghesi. Dal punto di vista teorico, comprendere bene il legame tra questi due elementi è ciò che è difficile. Eppure bisogna comprenderlo, questo legame. Se ci si ferma al primo elemento non si vede, si perde di vista, la grande linea dello sviluppo storico del fascismo e il suo contenuto di classe. Se ci si ferma al secondo elemento, si perdono di vista le prospettive. Questo errore è quello che è stato commesso dalla socialdemocrazia la quale, fino a poco tempo fa, negava tutto ciò che noi dicevamo sul fascismo e lo considerava come un ritorno a delle forme medioevali, come una degenerazione della società borghese. (…) Perché il fascismo, perché la dittatura aperta della borghesia si instaura oggi, proprio in questo periodo? La risposta voi la dovete trovare in Lenin stesso; dovete cercarla nei suoi lavori sull’imperialismo. Non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce l’imperialismo. Voi conoscete le caratteristiche economiche dell’imperialismo. Conoscete la definizione che ne dà Lenin. L’imperialismo è caratterizzato da: 1) la concentrazione della produzione e del capitale, la formazione dei monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base del capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria; 3) grande importanza acquistata dall’esportazione di capitali; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti e, ultimo, la ripartizione della terra tra le grandi potenze capitalistiche, che può considerarsi come finita. Queste le caratteristiche dell’imperialismo. Sulla loro base, vi è una tendenza ad una trasformazione reazionaria di tutti gli istituti politici della borghesia. Anche questo voi trovate in Lenin.«46.

Solo nel dopoguerra, quando la svolta socialdemocratica nel Pci si fa sempre più consistente, la tesi sul fascismo come «reazione feudale» è rimessa in gioco47.

Da qui la totale assenza di attenzione sullo sviluppo di gruppi e frazioni imperialiste nostrane. All’interno di questo quadro analitico, il Pci, perseguiva una politica interclassista (la «democrazia progressiva«) come se, nel nostro Paese, la rivoluzione borghese non fosse stata ancora compiuta o, più precisamente, non portata completamente a termine. Un’analisi, nella migliore delle ipotesi, bizzarra e dadaista, come quanto accaduto immediatamente dopo l’89 è lì a dimostrare.

Infatti, tra le conseguenze immediate e di maggior peso della fine del «blocco sovietico» c’è stata , anche in Italia, la corsa da parte dei più svariati gruppi finanziari e industriali all’occupazione dei territori «liberati», dove finanza e industria trovavano terreni particolarmente fertili e appetibili per la speculazione, l’accaparramento di risorse produttive strategiche e la messa al lavoro di intere popolazioni a costi estremamente «competitivi». Inizia esattamente in questo momento un processo di neocolonizzazione finanziaria e industriale non distante, con tutte le tare del caso, dall’epoca d’oro dell’imperialismo classico. Vaste aree geografiche tornano disponibili per ogni tipo di avventura.

La «colonizzazione» dell’area balcanica48 si scatena. Inizia a delinearsi uno scenario che scompagina per intero la cornice politica determinatasi nell’ultima parte del secolo breve con ricadute che, per usare un termine particolarmente caro alla pubblicistica contemporanea, possono essere definite globali. Guardando all’Europa, infatti, il post «89» ha conseguenze non meno importanti per le classi sociali subalterne locali. È in questo preciso momento che la linea di confine tra Primo mondo e resto del globo comincia a farsi sempre più sottile.

Il capitalismo globale ha posto in discussione, nel giro di un nulla, tutti i diritti politici e sociali che il proletariato europeo era in grado di esercitare. Una tendenza che ha iniziato a manifestarsi all’indomani del crollo del «Muro di Berlino». Da quel momento ha iniziato a farsi strada l’idea che, nel mondo, nessuno aveva diritto a un «piatto di pasta» se non era stato in grado di meritarselo e/o conquistarselo.

Inizia esattamente in questo momento la messa in discussione prima e in mora poi del modello politico, economico e sociale ampiamente noto come Welfare State di cui, il «capitalismo renano» ne è stato forse la più «felice» esemplificazione.

Un aspetto intorno al quale occorre soffermarsi almeno un poco.

Nella messa a regime del Welfare State – modello che, ed è il caso di ricordarlo con forza, ha funzionato solo all’interno di una determinata area geopolitica, l’Europa occidentale – un ruolo non secondario è stato giocato dalla cornice bellica, almeno in potenza, venutasi a costituire negli anni immediatamente successivi alla fine del II° conflitto mondiale. Le politiche del Welfare hanno avuto come sostanziale obiettivo quello di pacificare, attraverso l’innalzamento dei consumi delle classi sociali subalterne, i territori dei paesi Nato europei e della Germania Ovest in particolare. Questa, in virtù della sua postazione geografica, si è posta fin da subito come l’area geopolitica e militare che, nel sempre possibile conflitto con l’est, poteva vantare un ruolo strategico.

Nell’89 tutto ciò viene meno. Gli scenari politici che si vengono a delineare scompaginano radicalmente l’intero sistema che aveva politicamente organizzato il mondo dopo il 1945, portandosi dietro tutta una serie di conseguenze tra cui – aspetto solitamente poco notato – la crisi di un modello militare. Un aspetto che va osservato con particolare attenzione, invece, poiché mostra quanto la forma guerra sia una delle cornici essenziali della politica, da cui è impensabile prescindere. Ricostruire i passaggi principali di questa crisi appare pertanto utile.

Quando il «Muro di Berlino» cade, non tutti ne gioiscono. Tra questi una parte consistente delle forze armate di terra statunitensi. In particolare, per gli uomini della XII Divisione corazzata di stanza nella RFT e tutto il relativo supporto tecnico-logistico, la caduta del Muro non poteva che assumere un significato: essere messi alla porta. All’improvviso lo scenario politico e militare cambiava assetto e l’intero apparato bellico predisposto fin dall’immediato dopoguerra diventava inutile e obsoleto. Il perché è abbastanza evidente. Durante gli anni della «Guerra fredda», nonostante le minacce nucleari, la partita bellica tra est e ovest si era giocata soprattutto intorno alla potenza e al volume di fuoco delle rispettive forze corazzate49. Lo scenario predisposto dagli strateghi americani e dai loro alleati della Nato prevedeva, in caso di conflitto, una straordinaria «battaglia di materiali» proprio sulle linee di confine della Germania Ovest.

Per questo, gli americani e la Nato, avevano dedicato non poche energie e risorse alla messa a punto di una «macchina bellica» dalla straordinaria potenza che, nei carri, aveva la sua punta di diamante. Nel 1989, la XII schierava contro le forze del «Patto di Varsavia» gli Abrams m1a1, un’incredibile macchina bellica da settanta tonnellate praticamente invulnerabile e in grado di polverizzare ad un chilometro e mezzo di distanza qualunque avversario. Alle sue esigenze si erano dovute piegare le vie di comunicazione e per questo, intere file di genieri, avevano lavorato incessantemente al fine di rendere agibili e praticabili le vie d’accesso verso l’ipotetico fronte. All’improvviso, quando il «Patto di Varsavia» dichiarò bancarotta, la più temibile forza corazzata del mondo divenne superflua. Gli Abrams, infatti, per le loro caratteristiche si mostrano inutilizzabili in altri scenari bellici (anche nelle condizioni più favorevoli avrebbero richiesto un tempo di adattamento, per il logistico e le infrastrutture, tale da sconsigliarne l’utilizzo. Tutto ciò, in apparenza, potrebbe sembrare solo un piccolo inconveniente tipico dell’arte della guerra ma, se osservato con occhi diversi, racconta qualcosa di sostanziale sulle vicende che hanno accompagnato fin dalla nascita, oltre alla RFT, le vicende del modello politico ed economico europeo del Secondo dopoguerra noto come Welfare State.

La caduta del «Muro», insieme allo scenario bellico, fa cortocircuitare l’intero sistema sociale europeo, il che mostra quanto la «forma guerra» pesi nel definire gli scenari che, abitualmente, sono ricondotti nell’alveo «impolitico» della vita quotidiana. Il mutamento della «cornice strategica», per decine di milioni di operai e proletari, ha comportato la fine del «piatto di pastasciutta» garantito. Quindi, ed è questo che ci preme evidenziare con forza, non è pensabile «pensare la politica» ignorando la «forma guerra» che questa incarna. In altre parole rimane pur sempre vero che: «Noi possiamo anche ignorare la guerra, ma la guerra non ignora, e non ignorerà, noi».

Rapidamente il quadro d’insieme delle nostre società è mutato, tanto che, pur con tutte le tare del caso, per quote non irrilevanti di «proletariato indigeno» le condizioni di vita hanno cominciato ad essere riavvicinate a quelle della massa di forza lavoro, fortemente pauperizzata, che pochi anni addietro aveva iniziato a bussare alle porte dell’Occidente in cerca di una qualunque fonte di sostentamento. La ricaduta immediata del capitalismo globale è stata la rottura di ogni linea rigida e spaziale di confine e pertanto, nel mondo contemporaneo, Primo e Terzo Mondo vivono fianco al fianco all’interno del medesimo spazio geopolitico e geoeconomico, dando vita a una «costituzione materiale» fondata su un duplice registro.

Primo e Terzo Mondo non si sono eclissati, così come non hanno dato vita a una sorta di modello socio-economico in cui le diseguaglianze venivano progressivamente superate, semmai il contrario. Ridotto all’osso, per esemplificare la posizione che gli individui occupano nello scenario sociale contemporaneo, è possibile immaginarli all’interno di due rette, una che si muove in orizzontale e l’altra che corre in verticale. Sull’asse orizzontale sono allocate quelle quote di popolazione il cui presente e futuro oscillano tra lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo o le continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali. Passaggi determinati da semplici contingenze sia «strutturali» (maggiore o minore richiesta di lavori di basso profilo), sia «individuali» (opportunità offerte occasionalmente da uno dei tanti segmenti delle economie informali). Costoro, nella migliore delle ipotesi, possono aspirare a una «dignitosa» esistenza al servizio di un qualche padrone privato o pubblico, singolo o collettivo e, se saranno servi mesti e fedeli, con ogni probabilità non andranno incontro a troppe disavventure ma, come nella Londra vittoriana, potranno sempre contare sulla benevolenza del padrone che non gli rifiuterà i suoi abiti smessi, ma ancora in buono stato.

Diverse le vite e le opportunità per coloro le cui esistenze sono inseribili sull’asse che corre in verticale. Complesso non omogeneo, dove le posizioni di rendita, di prestigio e potere sono oggetto di una stratificazione sociale ossessiva e la lotta per l’affermazione individuale feroce, priva di scrupoli e incessante ma, è questo il nocciolo della questione, con qualcosa che le assimila e le rende affini: le opportunità a portata di mano sono, se non infinite, numerose e pur sempre all’interno di uno «stile di vita» sociale inclusivo e «rispettabile».

Due modelli sociali che fotografano esattamente il modo in cui, il capitalismo globale, ha ulteriormente enfatizzato, in un territorio fattosi unico, le differenze di classe dando vita a due mondi a tal punto distanti e incommensurabili che, per molti versi, le metropoli globali più che a scenari iper o post moderni sembrano rimandare al remake, ben riuscito, dei «mondi coloniali». Tutto ciò, in fondo, non deve stupire perché, nella guerra tra le classi, non esistono condizioni date una volta per sempre. La lotta mortale permanente tra lavoro salariato e capitale, e gli equilibri che in questa si stabiliscono, sono sempre il frutto di un rapporto di forza politico, mai il risultato di un presunto processo di civilizzazione. Non bisogna mai dimenticare che, non diversamente dal colonialismo, il capitalismo cede solo con il coltello puntato alla gola50 e a «civilizzarlo» è solo il quantum di forza che il proletariato, in quanto classe politica, è in grado di contrapporgli. La caduta del Muro ha comportato quindi un mutamento di scenario dove, pur in un contesto modificato, sembrano delinearsi nuovamente in maniera netta le tre contraddizioni fondamentali dell’era imperialista51.

1 Tra i compiti che il testo si propone, non a caso, c’è quello di rimettere al centro dell’attenzione la questione dell’imperialismo e della guerra. Qui si può anticipare che ascrivere al campo della «democrazia liberale» il mondo occidentale contemporaneo come fosse un dato oggettivo è non solo stupefacente, ma estremamente indicativo di quanto l’imperialismo sia riuscito a egemonizzare l’ordine discorsivo della teoria politica. In realtà, e la cosa dovrebbe essere ampiamente nota, le «democrazie liberali» sono morte nel momento in cui la scena politica internazionale ha iniziato a essere dominata dalle frazioni monopolistiche e finanziarie della borghesia (V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Opere, Vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966), che hanno scardinato la cornice dello Stato-Nazione in cui le società liberali erano prosperate, cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996. L’epopea liberale è stata soppiantata dall’epoca imperialista, il cui punto di svolta si è consumato nella Prima guerra mondiale spesso all’«insaputa» stessa degli attori che di quegli eventi sono stati protagonisti. Si veda a proposito la ricostruzione fattane da M. Gilbert in Id. La grande storia della Prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 2009. Gilbert, pur non essendo uno storico di scuola marxista, attraverso una rigorosa descrizione dei fatti, evidenzia come il nuovo involucro politico della borghesia, la fase imperialista, si affermi indipendentemente dalla volontà e dalla coscienza di re, principi e governanti mentre ad avere sovente un quadro più esatto e chiaro di ciò che sta avanzando sono i rappresentati del capitale finanziario e dei monopoli. Una dimostrazione di come, fin dalla prima metà del Novecento, il «cuore e il cervello politico» della borghesia imperialista vada ricercato all’interno di organismi sovranazionali e non nell’angusto e ristretto spazio degli Stati-Nazione. All’interno di questi, semmai, esercitano un ruolo decisivo quei gruppi e consorterie che, in virtù delle loro posizioni di forza, sono in grado di utilizzare le strutture dello Stato-Nazione per i propri interessi. È in quel frangente, tra l’altro, che l’intero ordinamento interstatuale che aveva caratterizzato l’Europa dalla pace di Westfalia in poi cade letteralmente a pezzi, decretando la fine di un intero ciclo storico della forma Stato. Per una ricostruzione convincente di questo passaggio si veda anche C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.

2 Cfr. G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1975

3 Una buona e ben documentata esposizione di queste tendenze è reperibile in AA. VV. A chi sente il ticchettio. Materiali dal Convegno antimilitarista di Trento – 2 maggio 2009, Edizioni Rompere le righe, Atene 2009.

4 Per una ricostruzione degli eventi genovesi si possono vedere: AA. VV., Guerra civile globale. Tornando a Genova da New York, Odradek, Roma 2001; G. Chiesa, G8/Genova, Einaudi, Torino 2001; Guadagnucci, L., Noi della Diaz, Terre di Mezzo, Milano 2002; C. Marradi, E. Ratto, Da Seattle a Genova, Fratelli Frilli Editore, Genova 2001. Per alcune linee interpretative degli eventi del G8 genovese dentro lo scenario politico complessivo si vedano: A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003; S., Mezzadra, F., Raimondi, Oltre Genova, oltre New York. Tesi sul Movimento Globale, Derive Approdi, Roma 2001

5 In questo senso si riafferma in tutta la sua sensatezza lo «stile di lavoro» che Lenin scolpisce sin dal Che fare? e che trova la sua sintesi più significativa nell’arcinota ma poco frequentata asserzione: «Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica», V. I. Lenin, Che fare?, pag. 340 in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958. Non capire, o non curarsi di farlo, in quale contesto le forze politiche si trovano a operare significa − come Genova ha puntualmente confermato − portare i movimenti di massa al massacro e non essere neppure in grado, una volta che la reazione si è scatenata, di organizzarne la ritirata in buon ordine. La responsabilità elle organizzazioni raccolte dentro il Genova Social Forum, sotto tale profilo, è enorme, per non dire criminale. Il «G8 genovese» non è stato un movimento «totalmente spontaneo» dove, l’improvviso ma non organizzato ardore delle masse ha sbattuto la testa contro l’organizzazione politico-militare dell’imperialismo bensì un «evento» costruito, guidato e diretto da forze politiche organizzate. Su di loro, per intero, non può che cadere la responsabilità politica, oggettiva e soggettiva, della piega che gli avvenimenti hanno preso.

6 Per una documentazione esauriente di questo avvenimento si vedano Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente, Comunicati 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6, pagg. 474 – 501, in AA. VV. Progetto memoria. Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

7 Al proposito si veda AA. VV., Progetto memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, Roma 1998.

8 Un’affermazione al limite del banale, lo ammettiamo; basti pensare a quanto accaduto in Algeria nel corso della guerra condotta dalla Francia contro il FLN. Al proposito si vedano, tra i tanti: P., Vidal-Naquet, L’Affaire Audin (1957-1958), Les Edition de minuit, Paris 1989; B., Stora, La gangrène et l’oublie. La mèmoire de la guerre d’Algèrie, La Decouverte/Poche, Paris 1998; P., Aussaresses, La battaglia di Algeri dei servizi speciali francesi. 1955-1957, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2007.

9 Le organizzazioni interne al Genova Social Forum, confidando sulla dimensione «simbolica» del conflitto, non si sono minimamente curate di organizzare un apparato in grado di far fronte al precipitare degli eventi. Decisamente esplicativa è la «linea di condotta» delle «Tute bianche» le quali, a fronte di una totale inadeguatezza al livello di scontro in atto, in un primo momento hanno cercato di ricondurlo dentro un ambito puramente comunicativo e, in secondo momento, di fronte al palese svanire di una pia illusione, sono andate all’attacco in maniera suicida. Non è sorprendente: è tipico delle forze «socialdemocratiche» oscillare tra l’opportunismo e l’attendismo in un primo momento per diventare, un attimo dopo, completamente avventuristi.

10 Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.

11 Alcune note sulle diverse anime presenti in piazza nelle giornate del G8 genovese è possibile trovarle in E. Quadrelli, Il nodo di Gordio. Per una lettura politica della «questione stadi», in AA. VV., Stadio Italia, La Casa Usher, Firenze 2010.

12 C., Schmitt, Il concetto di «politico», in Id., Le categorie del «politico», Il Mulino, Bologna 1972.

13 In Italia il Diario di Romero è stato tradotto e pubblicato dalle edizioni la Meridiana nel 1991 in collaborazione con Pax Christi Italia. Anche gli aderenti a Pax Christi erano tra i manifestanti anti-G8 presenti a Genova e sono stati pesantemente perseguiti e sanzionati dalle forze dell’ordine.

14 C., Schmitt, Il concetto di «politico», in Id., cit.

15 C., Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Id. cit.

16 Sul rapporto indissolubile tra imperialismo e guerra rimane pur sempre attuale quanto al proposito argomentato da Lenin nei suoi scritti compresi nel periodo 1914/1916 in Id., Opere, Vol. 20 – 21- 22, Editori Riuniti, Roma 1966 e Id., Opere, Vol. 23, Editori Riuniti, Roma 1965. A puro titolo d’esempio se ne può riportare un sintetico ma significativo passaggio: «La guerra attuale è stata generata dall’imperialismo. Il capitalismo ha raggiunto la sua fase suprema. Le forze produttive della società e l’entità del capitale hanno superato gli stretti limiti dei singoli Stati nazionali. Da qui deriva la tendenza delle grandi potenze ad asservire nazioni straniere, a conquistare colonie, come fonti di materie prime e sbocchi per l’esportazione del capitale. Tutto il mondo si fonde in un unico organismo economico, tutto il mondo è diviso fra un pugno di grandi potenze», I. V. Lenin, Progetto di risoluzione della sinistra di Zimmerwald, pag. 316, in Id., Opere, Volume 21, cit.

17 In questo senso sembra essere poco fondata l’ipotesi che nell’era contemporanea si sia creata una sostanziale «autonomia del militare» dall’imperio della decisione politica. Per una discussione su questi temi si veda Conflitti Globali, n. 1, «La guerra dei mondi», ShaKe Edizioni, Milano.

18 Un fenomeno, anche questo, ben poco di occasionale e contingente ma frutto di una strategia che, come vedremo in un capitolo successivo, attraverso l’uso del terrorismo umanitario, (cfr., D. Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009), informa per intero l’attuale fase imperialista.

19 Il Governo Berlusconi si è insediato l’11 giugno 2001.

20 Chi, con maggiore intelligenza politica, ha risolto la questione dell’eredità fascista dei governi di centro destra è stato l’attuale Presidente della Camera Gianfranco Fini. Si deve a lui, infatti, la tesi dell’afascismo come possibile e realistica via d’uscita dagli ingombri del passato. Il suo «realismo politico» è degno di nota poiché, archiviando in maniera in fondo indolore l’epopea della guerra civile, consente di emancipare, anche sotto il profilo formale, il dibattito politico attuale dagli angusti spazi della «storia nazionale» e portare a compimento alcuni atti politicamente non irrilevanti come la «riforma» della Costituzione. Attraverso l’afascismo si mette in mora, insieme al fascismo anche la Resistenza; la cui ombra, come elemento costitutivo e costituente, si è fortemente proiettata sulla Costituzione. Palesemente, oggi, tra costituzione formale e costituzione materiale si è aperto un divario che necessita di essere colmato e, non a caso, tutte le forze politiche parlamentari ne sono cointeressate. L’afascismo può dunque consentire il delinearsi di una maggioranza ampia, se non addirittura unanime, nell’adeguare all’attuale fase imperialista anche la cornice giuridico-formale e, in questo caso – sì – liquidare in maniera pressoché definitiva l’anomalia italiana, di cui l’attuale Costituzione è pur sempre figlia. Nella carta costituzionale, gli echi della guerra civile e della sua forma operaia e partigiana mantengono aperta la questione del potere politico e della natura di classe dello Stato italiano; è facile constatarlo ricordando l’Art. 1 («L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro») che, in realtà, è il frutto di una mediazione tra le forze politiche espressione della lotta armata operaia e partigiana con i settori di borghesia sganciatisi dal nazifascismo. Nella sua prima stesura, infatti, l’Art. 1 recitava: L’Italia è una Repubblica fondata sui lavoratori. Un richiamo al modello sovietico alquanto esplicito. Quella mediazione non era frutto di una contingenza, ma l’esatta fotografia del panorama politico italiano all’indomani del 25 aprile. In qualche modo la Costituzione registrava l’esistenza, se non di un vero e proprio «dualismo di potere» organizzato, di una frattura ben lungi dall’essere ricomposta nella società italiana che, per molti versi, sintetizzava al meglio il pieno dispiegamento della guerra civile internazionale tenuta a battesimo dal post-’45. La mediazione sul primo articolo della Costituzione indica una posizione di sostanziale pareggio tra le forze in campo. La questione della forma politica, non risolta nel corso del tempo «regolamentare» della guerra civile, posticipava il risultato ai tempi supplementari, i cui esisti disastrosi per il proletariato sono sotto agli occhi di tutti. È al termine di questo processo – dove un ruolo centrale è diventato l’allineamento di tutte le forze politiche dentro la struttura Nato – che l’anomalia anche costituzionale italiana può e «deve» essere rimossa.

21 Sembra il caso, inoltre, di ricordare che il banco di prova del luglio genovese si era avuto il 17 marzo 2001 a Napoli, sotto la regia del governo D’Alema e del Ministro dell’Interno «democratico e progressista» Enzo Bianco. Sugli episodi ampiamente premonitori di Napoli si veda, Rete No Global, Zona Rossa. Le «quattro giornate di Napoli» contro il Global Forum, Derive Approdi, 2001.

22C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit.

23 Cfr. M. Zinola, a cura di, Ripensare la polizia, Fratelli Frilli Editore, Genova 2002. Ciò che «banalmente» si dimentica è che le forze di polizia, oggi non diversamente che dal passato, sono il braccio armato del comitato d’affari della borghesia. Pertanto, sarebbe importante studiare le trasformazioni che la forma Stato ha consumato nella fase imperialista attuale, invece di andare alla ricerca di «ipotesi di complotto» orchestrate dalle forze di polizia contro l’«ordine democratico». Lo stesso grado di copertura istituzionale offerto ai settori cosiddetti «deviati», anche dopo l’ingresso di ex dirigenti comunisti al Viminale, Palazzo Chigi o al Quirinale, dovrebbe essere sufficiente a spazzar via questa vulgata. Eppure questa cornice continua a essere predominante tra gli analisti politici e sociali dediti allo studio delle polizie.

24 Per capire quanto fantasiose risultino le ipotesi su un presunto complotto delle forze dell’ordine ai danni della «democrazia» è sufficiente ricordare che Giovanni De Gennaro era stato nominato Capo della Polizia il 26 maggio 2000 dal Consiglio dei Ministri del Governo D’Alema, in quanto affine agli allora Democratici di Sinistra; mentre, come vedremo nel capitolo seguente, i Carabinieri devono proprio a quel governo il conseguimento di un’autonomia mai raggiunta sotto il partito-regime democristiano.

25 Poco prima che il G8 prendesse il via autorevoli esponenti delle «Tute bianche» rilasciarono in conferenza stampa dichiarazioni a dir poco sorprendenti poiché, con fare saccente, dichiaravano aperte le ostilità, usando a cuor leggero la parola guerra nei confronti dei «potenti della terra». Al proposito si veda, A. Broschi, Guerra alla guerra, in «il manifesto», 27 maggio 2001. In realtà costoro, in quel frangente, si mostrarono del tutto prigionieri delle inconsistenze teoriche e analitiche proprie, per lo più, del postoperaismo. La riduzione del «politico» a mero esercizio simbolico e comunicativo li ha portati a un abbaglio a dir poco clamoroso: hanno dato per scontato che le loro categorie (con non poca arroganza culturale) fossero anche le categorie del mondo, forze «imperiali» comprese. La guerra cui facevano riferimento si delineava, nella migliore delle ipotesi, come un conflitto semiotico; al quale, però, il potere imperialista ha risposto con il più classico ferro e fuoco. Di colpo hanno dovuto scoprire quanto il «politico» sia ancora legato al modo di Tucidide; cfr., Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 1996.

26 Per una discussione su questo passaggio cfr. E. Quadrelli, Autonomia operaia. Scienza della politica e arte della guerra dal ’68 ai movimenti globali, Nda Press, Rimini 2008.

27 In maniera molto sintetica, ma non per questo meno chiara, la summa della teoria politica che ha fatto da sfondo alla gestione maggioritaria delle giornate anti-G8 genovesi è ben colta da F. Gallerano, La battaglia di Genova, pagg. 51-55, in AA. VV., Guerra civile globale, cit.

28 Negli anni Novanta del secolo scorso si è assistito al fiorire di un dibattito quanto mai intenso sugli scenari che la caduta del Muro e l’avvento del capitalismo globale avrebbero comportato per i destini del mondo. Il testo curato da S. Mezzadra e A. Petrillo, I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, Manifesto libri, Roma 2000, proprio perché si colloca all’apice di tale dibattito, rappresenta un’ottima testimonianza dell’humus teorico sorto intorno alla fine del secolo breve. Molte delle cose contenute nel testo, insieme alla ricchissima bibliografia che l’accompagna, oggi appaiono decisamente datate ma, proprio in virtù di ciò, sono quanto mai utili per rendicontare le molteplici incognite del post-Guerra fredda.

29 Sul «declino» degli Stati Uniti come potenza egemone mondiale si veda, B. Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti, ShaKe Edizioni, Milano 1998.

30 Di notevole interesse, con particolare riferimento al ruolo della potenza statunitense nel corso del XX secolo e la crisi in cui è incorsa nell’era attuale, si presenta il gigantesco lavoro di G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996.

31 Sotto questo aspetto la politica estera dell’attuale governo italiano, spesso con il premier attivo in prima persona, è assai esemplificativa. Silvio Berlusconi, nonostante i richiami di facciata alla fedeltà all’«amico americano» – più scontati nel caso di George Bush, meno dovuti nei confronti del democratico Obama – ha mostrato di coltivare interessi in almeno altre due direzioni: gli accordi preferenziali con la Libia e il rapporto di elezione con Gheddafi erano tesi a scavalcare le mire francesi, coltivate attraverso il progetto dell’Upm (Unione dei paesi del Mediterraneo), cui invece il precedente governo di centro sinistra si era ubbidientemente allineato. In secondo luogo, i rapporti coltivati con la Russia di Putin avevano come obiettivo l’apertura di un canale di approvvigionamento energetico verso est, nonché la possibilità di una politica espansiva e imperialista nei paesi dell’est, emancipata però dai limiti imposti dalla UE, grazie all’appoggio del potente alleato russo. Di fronte ad un blocco imperialista europeo sempre più gerarchicamente organizzato, con Francia e Germania a fare da padrone, le mosse di Silvio Berlusconi apparivano tese a un velleitario riequilibrio dei rapporti di forza e all’apertura di sbocchi alternativi per l’Italia. Una politica, quindi, per nulla scontata e grossolana, anche se minata in radice dalla «crisi libica». La guerra, infatti, ha bruscamente imposto di «calare» le carte in tavola e il governo italiano è stato preso in contropiede, non essendo ancora in grado di «aprire» nulla. Il duro confronto tra Francia e Italia sulla questione dei profughi provenienti dal Nord Africa rientra chiaramente in questo scenario e non è altro che un modo per sancire i rapporti di forza all’interno del blocco europeo.

32 Sono state soprattutto le formazioni legate, direttamente e no, alla «Sinistra comunista» a sviluppare un’analisi anche sull’imperialismo nostrano e Continentale. Molti materiali interessanti si possono trovare nelle annate di «Battaglia comunista», «Lotta comunista», «Programma comunista» e «Rivoluzione comunista». Su un altro versante, e con uno spirito analitico innovativo non secondario, è stato il filone operaista a discostarsi radicalmente dalla vulgata propagandata dal Pci. Riviste come «Quaderni piacentini», «Quaderni rossi» e «Classe operaia» hanno dato alla luce contributi teorici di notevole fattura tutti incentrati sul capitalismo avanzato del nostro Paese. Sempre all’interno del panorama operaista occorre ricordare i numerosi volumi della collana «Materiali marxisti» editi da Feltrinelli dove, il carattere imperialista multinazionale del capitalismo locale, veniva analizzato in quanto «catena», non separabile dell’intero ciclo di accumulazione internazionale. Infine, ma non per ultime, vanno ricordate le Brigate rosse che, attraverso la concettualizzazione di Stato imperialista delle multinazionali, cercavano di cogliere nel panorama italiano le tendenze e i gruppi di borghesia imperialista proiettate direttamente sullo scenario internazionale.

33 Sono stati soprattutto statisti del calibro di Giulio Andreotti prima e Bettino Craxi poi a incarnare al meglio questa tendenza. Cfr. E. Di Nolfo Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Roma-Bari 2000. Di non secondario interesse sono le tesi correlate da Giulio Andreotti. Si vedano in particolare: L., Gampoli, La politica estera italiana nel Mediterraneo negli anni Ottanta; P. Gaspardis, Lo status dell’OLP nella diplomazia italiana; G. F., Virduci, La politica estera dei governi Craxi, le tesi sono consultabili e scaricabili sul sito www.tesionline.com.

34 Il 4 maggio 1966 Vittorio Valletta per la Fiat e Alexei Kossighin in qualità di Ministro degli Esteri dell’URSS stipulano l’accordo per la costruzione di Togliattigrad, dove la Fiat impiantò i suoi stabilimenti. La prima auto a uscire da questi fu la 124.

35 Quella di far diventare l’Italia un paese «normale» sembra essere l’obiettivo maggiormente perseguito da Massimo D’Alema; rimane da capire, però, che cosa mai abbia l’Italia di «anormale» visto che, ad esempio il FMI, ai cui dettami Massimo D’Alema è particolarmente prono, ha recentemente elogiato il governo italiano per il modo in cui ha affrontato la crisi. Si veda, tra i molti, l’articolo redazionale de Il Giornale, «L’FMI promuove l’Italia: Giusta risposta alla crisi».

36 V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Id., Opere, Vol. 22, cit.

37 Uno scenario strategico che l’attuale fase imperialista ha reso sempre più problematico e di difficile attuazione poiché, in tendenza, l’esistenza di borghesie nazionali autonome e in conflitto con i settori dominanti della borghesia imperialista sembra sempre più problematica. Esemplificativa al proposito è la trasformazione subita dall’organizzazione palestinese Fatah. Da organizzazione democratico-borghese si è trasformata in agente dell’imperialismo a dominanza statunitense e israeliano, ritagliando per se stessa il ruolo di appaltatrice delle risorse palestinesi, soprattutto umane. In sostanza, tramite il lavoro diplomatico di Abu Mazen, la borghesia palestinese mira a ricoprire il ruolo di gestore (una sorta di caporalato legalizzato) della forza lavoro palestinese. In tale ottica, i territori palestinesi, diventerebbero né più e né meno che il retroterra metropolitano di Israele ai quali, in maniera beffarda, verrebbe concessa la più completa autonomia amministrativa ovvero la più completa libertà di gestire l’oggettiva miseria cui sono deputati. Un progetto che esemplifica al meglio quel far vivere e lasciar morire di foucaultiana memoria che oggi è riscontrabile in una qualunque metropoli imperialista.

38 Cfr., AA. VV., Storia dell’Internazionale comunista, Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS, Edizioni «Progress», Mosca 1974

39 Si vedano al proposito i testi e i documenti dell’Internazionale Comunista presenti in A. Agosti, La terza Internazionale. Storia documentaria, Vol. 3, Tomo 1, Editori Riuniti, Roma 1979.

40 Al proposito si veda il bel lavoro di R. Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, Milano 1998.

41 In entrambi i casi si tratta di guadagnare tempo avendo sempre a mente che il confronto con l’imperialismo sarà oggettivamente inevitabile. Si vedano al proposito i testi e i documenti dell’Internazionale Comunista presenti in A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Vol. 3, Tomo 2, cit.

42 Cfr., V. I. Lenin, Il compito principale dei nostri giorni, in Id., Opere, Vol 27, Editori Riuniti, Roma 1967. Lenin definisce l’armistizio di Brest-Litovsk, firmato tra la Russia sovietica e gli Imperi Centrali il 2 dicembre 1917, una pace di Tilsit. Il riferimento è al trattato di pace, particolarmente umiliante per la Prussia, siglato il 9 luglio 1807 tra un Napoleone vittorioso e un Federico Guglielmo III reduce da pesanti sconfitte militari. Eppure, proprio da quel poco che la Prussia riuscì a conservare grazie a quel trattato particolarmente penalizzante, fu possibile la riscossa del popolo tedesco.

43 Cfr., M. Gilbert, Churchill, Mondadori, Milano 1994.

44 L’intervento pressoché diretto del nazifascismo in Spagna nel corso della guerra civile, a fronte della sostanziale indifferenza delle potenze «democratiche», ne rappresenta la migliore esemplificazione. Cfr., H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino 1963.

45 Ciò era chiaro per entrambi i contraenti del patto come dimostra il celebre discorso tenuto il 4 marzo 1946 da Churchill a Fulton, dove pronunciò la famosa locuzione: «una cortina di ferro è calata sull’Europa orientale» e, in seguito a ciò, espose l’esigenza della costituzione di un blocco non solo politico ed economico, ma anche militare, tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Una non secondaria anticipazione di ciò che, di lì a poco, si sarebbe concretizzato attraverso l’organismo militare Nato. Su tale passaggio si veda, M. Gilbert, Churchill, pagg. 400-420, cit.

46 P. Togliatti, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, Einaudi, Torino 2010.

47 Si tratta di una svolta che ha ben poco di momentaneo – lontana dalla pura contingenza orientata da un inconcludente tatticismo estremo – ma segna la piena trasmigrazione nel campo avverso. La «linea di condotta» adottata dalla dirigenza del Pci negli anni successivi non lasciano molti dubbi al riguardo. Va evidenziato come, indipendentemente dai tributi formali che continuano a essere rilasciati al materialismo storico e dialettico (sotto tale aspetto è indubbio il merito che il PCI ha avuto nel fornire a intere generazioni di militanti gli strumenti teorici propri del marxismo e del leninismo), il marxismo diventi un puro esercizio accademico e intellettuale. Non l’arma della critica, ma un gioco salottiero. Per il PCI, il marxismo diventa una questione culturale, più utile agli orizzonti di maestri e professori che «guida per l’azione» per «rivoluzionari di professione». Un esempio di come si smarrisca completamente la necessità per il partito del proletariato di saper leggere e anticipare, sia sul piano della teoria che della prassi, i movimenti storici e oggettivi della borghesia e del capitale. Paradigmatico, al proposito, è il comportamento politico del PCI nei confronti della figura dell’operaio-massa e del ciclo di accumulazione incentrato sul modello fordista. Non va dimenticato che l’erompere delle lotte dell’operaio-massa furono tacciate dal PCI di «teppismo» o fascismo, così come fece quando, negli anni Settanta, sull’onda delle lotte operaie dell’Autunno caldo, l’ipotesi della rivoluzione operaia acquistò nel nostro paese una dimensione quanto mai «concreta»; il PCI si ritrovò in prima fila, e con piglio forse ancora più determinato dei partiti classici della borghesia, sul fronte della controrivoluzione. Per una discussione su questi temi, cfr. E. Quadrelli, Autonomia operaia. Scienza della politica e arte della guerra dal ’68 ai movimenti globali, cit. Non si può infine dimenticare che gli attuali dirigenti del Partito Democratico si sono formati per intero dentro il PCI.

48 Al proposito si veda D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente, Ombre Corte, Verona 2004; Limes, Il triangolo dei Balcani, Gruppo editoriale l’Espresso n. 3, 1998. Cfr., anche E. Quadrelli, Evasioni e rivolte. Migranti, CPT, Resistenze, Agenzia X, Milano 2007.

49 Una non piccola esemplificazione di quanto la forma guerra sia continuamente compresa, e in maniera attiva, dentro la dimensione della politica. Ho provato a discutere questo aspetto in E. Quadrelli, Lenin. Politica, guerra e pensiero strategico. Un’antologia, La casa Usher, Firenze 2011.

50 Cfr., F. Fanon, F., I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962.

51 Sotto questa luce, le tre contraddizioni fondamentali dell’era imperialista descritte da Stalin – «La prima contraddizione è la contraddizione tra il lavoro e il capitale. L’imperialismo è l’onnipotenza nei paesi industriali, dei trust e dei sindacati monopolisti, delle banche e dell’oligarchia finanziaria. (…) La seconda contraddizione è la contraddizione fra i diversi gruppi finanziari e le diverse potenze imperialiste nella loro lotta per le fonti di materie prime e per i territori altrui, l’imperialismo è esportazione di capitale verso le fonti di materie prime, lotta accanita per il possesso esclusivo di queste fonti, lotta per una nuova spartizione del mondo già diviso, lotta che viene condotta con particolare asprezza, dai gruppi finanziari nuovi e dalle potenze in cerca di un «posto al sole», contro i vecchi gruppi e le potenze che non vogliono a nessun costo abbandonare il bottino. (…) La terza contraddizione è la contraddizione tra un pugno di nazioni «civili» dominanti e centinaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli coloniali e dipendenti del mondo. L’imperialismo è lo sfruttamento più spudorato, l’oppressione più inumana di centinaia di abitanti degli immensi paesi coloniali e dipendenti». G. Stalin, Dei principi del leninismo, pagg. 11-12, in Id. Questioni del Leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948 – vanno, pur tarate alla luce dei tempi, riposte al centro dell’analisi e del dibattito teorico-politico contemporaneo.

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