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L’inevitabile impoverimento

L’Italia si situa ormai in una dimensione che va oltre la crisi in corso. Solo un utopistico boom europeo, da anni Sessanta per intenderci, può arrestare l’immiserimento in corso.
Infatti la deindicizzazione totale e parziale delle pensioni non verrà certamente abolita, anche in caso di ripresa; così come non saranno annullati i ticket, né gli slittamenti salariali. Né verrà sospesa la moltiplicazione dei tagli a livello regionale e comunale, aggravati dal famigerato federalismo fiscale. L’ipotesi più concreta è che, come in Grecia, i tagli contribuiranno a perpetrare l’indebitamento rendendolo ancor più pesante.

A partire dalla manovra di Giuliano Amato nel 1992, la politica economica dei vari governi in carica si è caratterizzata per l’austerità di bilancio. Stando ai dati armonizzati prodotti dall’Ocse, dal 1993 al 2007 il deficit pubblico italiano proveniva interamente dal pagamento degli interessi sul debito. Il bilancio primario, cioè senza il computo degli interessi, è stato sempre attivo. Ciò ha comportato, fino al 2007, una marcata riduzione del deficit in rapporto al prodotto interno lordo. Il processo fu facilitato dal calo del tasso di interesse e dalla notevole performance dell’export italiano, grazie alla fase della lira debole, al boom consumistico delle tecnologicie negli Usa, in Brasile o nell’Argentina.
Dopo il 2000 – e col crollo delle dotcom statunitensi, di Brasile, Argentina e Russia – il deficit pubblico riprese a salire, rimanendo però sui livelli fissati dai criteri di Maastricht. Tra il 2001 ed il 2008 la media annua italiana è stata del 3,1%, contro il 2,2% dell’eurozona. Si noti però che, nel 1993, il deficit di bilancio italiano oltrepassava il 10% del Pil ed era quasi il doppio della media dei paesi che oggi fanno parte dell’unione monetaria. Tra i paesi dell’eurozona, l’Italia ha quindi subito la maggiore riduzione del deficit pubblico senza ottenere alcun beneficio. Le politiche di distruzione del bilancio hanno quindi contribuito alle disfunzioni infrastrutturali del paese, al crollo del meridione, all’arroccamento sulle rendite finanziarie e all’incapacità di affrontare la rivalutazione del tasso di cambio (connessa all’adozione dell’euro), se non attraverso la deflazione salariale.

Ma la moneta unica ha condotto tutti i paesi membri ad usare la deflazione salariale come criterio di competitività capitalistica. L’euro ha cementato l’unità del capitale nei confronti del lavoro e dei pensionati, permettendogli di dividersi su altre questioni, secondarie però ai rapporti di classe. L’impatto sulla domanda (deflazione salariale e gara europea sui tagli di bilancio) ha comportato, dal 2001 in poi, una forte riduzione nel tasso di crescita dell’eurozona. Il calo italiano è stato però ben maggiore, acuendo il divario con la media della zona. La stagnazione europea e la connessa crisi italiana hanno fatto risalire il deficit pubblico, anche perché le esportazioni non hanno contribuito a rilanciare l’economia. In passato, le esportazioni avevano sempre aiutato a «riacciuffare» la dinamica capitalistica per via della persistente aporia tra sviluppo interno e domanda estera. Dall’entrata in vigore dell’euro, però, la domanda reale interna è stata ulteriormente compressa dal surplus primario di bilancio e dalla deflazione salariale, mentre i conti esteri sono diventati ancora più negativi.

Malgrado la loro dinamica, le esportazioni italiane sono state neutralizzate da almeno tre fattori: deflazione salariale (soprattutto in Germania, che ha compresso la domanda interna con l’obiettivo programmato di massimizzare l’export), l’aumento dei prezzi energetici dal 2004, lo spostamento di una fetta notevole della domanda europea verso beni di consumo made in China. Il tutto coronato dalla scomparsa di settori avanzati, come impeccabilmente documentato da Luciano Gallino.
L’Italia era quindi un vaso di coccio pieno di crepe, non di ghiaccio come la torrida Grecia, già prima della crisi del 2008. È in quest’ottica che bisogna capire perché l’obiettivo di pareggiare il bilancio per il 2014 – anticipando la stessa Germania che entrerà in anoressia solo nel 2016 – significa l’impoverimento assoluto del popolo senza la possibilità di uscire dalla crisi.

 

da “il manifesto” del 20 luglio 2011

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