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Una piazza per Carlo Giuliani, ragazzo

Il luogo del delitto, dieci anni dopo, è una piazza molto più piccola di quella che s’immagina guardando le foto. Invaso di ragazzi di molte età, impenitenti anche a costo di passare per ripetitivi. Ci sono luoghi del delitto che diventano addirittura punti di interesse turistico. Piazza Alimonda no, anche se qualche tentazione si nota. Semmai un posto dove riconnettere movimento passato e vagiti di quello futuro, rivolte in corso e altre nell’incubatrice.

L’appuntamento clou della giornata è ovviamente qui, nel giorno del decimo anniversario della morte di Carlo Giuliani. Una folla composta soprattutto di amici, sindacalisti, personaggi noti del movimento, non una folla oceanica. Ma è solo adesso che sembra arrivare a conclusione un tormentone che si è trascinato negli anni. A ogni anniversario amici e compagni cercavano di collocare un cippo commemorativo, grosso modo corrispondente alla modifica della targa della piazza («Carlo Giuliani, ragazzo. 20 luglio 2001», scritto con il pennarello blu). Ogni volta dal comune di Genova arrivata un cortese «niet» giustificato con la consuetudine di dedicare vie soltanto a personaggi deceduti da almeno 10 anni.
Ieri, infine, anche grazie ai «carrarini» che hanno messo a disposizione la loro competenza nel marmo, un cippo con quella scritta è stato messo nell’aiuola al centro della piazza. Stavolta, però, anche con l’intervento degli operai del Comune, che hanno installato la base su cui montarlo. Insomma, stavolta dovrebbe essere definitivo. Il primo fiore vi è stato deposto per mano della madre di Renato Biagetti, ucciso a 26 anni a Focene, sul litorale romano, da assassini rimasti sconosciuti; probabilmente fascisti, secondo le testimonianze di altri due ragazzi che erano con lui, rimasti feriti. È stata un’iniziativa delle «Reti invisibili», associazione dei familiari di ragazzi uccisi negli scontri di piazza, oppure per mano della polizia, senza che i colpevoli siano mai stati identificati.
In vista del corteo di sabato, intanto, si moltiplicano le iniziative di «pacificazione». Lo ha detto anche il prefetto, anche se sul capoluogo genovese è stata fatta calare una quantità di truppe decisamente eccessiva: il Viminale avrebbe disposto l’invio di circa 120 unità al giorno da oggi fino al 23 luglio; quel giorno in città arriveranno comunque altre 400 unità tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Non proprio un segnale di «distensione».
La sindaco di Genova, Marta Vincenzi, ha conferito la cittadinanza onoraria a Mark Covell, giornalista inglese picchiato dalle forze dell’ordine che intervennero alla scuola Diaz fino ad essere mandato in coma. All’invito della Vincenzi di tornare spesso a Genova Covell ha risposto positivamente, proponendo a sua volta un incontro in Comune con le vittime del G8 di Genova 2001. Al termine di questa cerimonia, Armando Cestaro – l’uomo che era all’ingresso della Diaz al momento dell’irruzione della polizia e che subì la frattura di un braccio e di una gamba, ha dato sfogo alla sua indignazione gridando «dieci anni sono occorsi per cambiare un po’ d’aria in questo paese». Ottimista, comunque.
La giornata è poi proseguita in piazza e in altre decine di iniziative. Per don Luigi Ciotti, intervenuto in piazza Alimonda, stato e istituzioni «devono fare la loro parte fino in fondo. Esclusione, povertà, disagio sono sotto gli occhi di tutti e sono aumentati. Come ieri, le parole di quel G8 fatte di tante promesse che non sono state realizzate».
Ma l’uomo più rispettato della piazza è stato ancora una volta don Andrea Gallo, storico fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. «Ci vuole una rivoluzione culturale, una svolta epocale». Naturalmente tramite «la scelta della non violenza, però attiva». «Questa è la nostra forza, la sinergia tra i movimenti. Questo è un cammino di liberazione e la bussola per i cristiani è il Vangelo e per tutti la Costituzione repubblicana». Chissà perché, quando è lui a pronunciare frasi spesso logorate dall’uso e dall’ipocrisia, suonano sincere…
Naturalmente protagonisti assoluti dell’affetto di tutti sono stati i genitori di Carlo. Per Giuliano, padrone del palco, la sinistra «deve uscire dal letargo» e «raccogliere le istanze dei giovani». Più riservata Heidi, che ha dovuto comunque stringere migliaia di mani e ricevere migliaia di baci.

 da “il manifesto” del 21 luglio 2011

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Tommaso De Berlanga
 

 «Il G8 di Genova? Sembra Tunisi Ma da noi la violenza è quotidiana»
Una blogger da Gaza: non pensavamo di vedere scene del genere in Italia

GENOVA

Sarà un caso, ma i «mediterranei» che hanno attraversato la mostra fotografica sugli eventi del 2001 si sono sentiti immediatamente a casa. Quei gruppi di giovani che corrono tra il fumo dei lacrimogeni e della polvere, a torso nudo o in canottiera, quel gesto di lanciare un sasso davanti ai fucili spianati, questi scudi e quegli elmetti da robocop, il sole e il sangue sull’asfalto; quella è la loro quotidianeità.
Majd Abusalama, giovane e altissima blogger palestinese di Gaza, ha visto «tante foto chi mi hanno colpita nel profondo; non riuscivo a credere che anche in Italia accadono cose del genere». E soprattutto «Carlo è come tanti ragazzi palestinesi che così spesso vengono uccisi dall’esercito israeliano». Ma le immagini rimandano anche a una condizione. «Anche a Gaza per noi è difficile ottenere qualcosa in risposta ai nostri bisogni; quando ci opponiamo in modo pacifico, portando bandiere palestinesi e bianche, i soldati israeliani non raccolgono il messaggio e sparano». Una costrizione che introverte spesso anche le tensioni: «Manifestando contro l’occupazione abbiamo fatto una piccola rivoluzione superando la divisione tra Hamas e Fatah; ma c’è stato qualche caso in cui è stata la polizia di Hamas a intervenire, eppure noi chedevamo solo unità».
Impossibile non cogliere le analogie. Walid Kaabi, delegato sindacale in una fabbrica metalmeccanica in Tunisia, sente «la stessa atmosfera di Tunisi, quando partecipiamo alle tante assemblee contro il governo, sotto il ministero dell’interno». Qui a Genova però vede almeno una differenza: «Oggi non ci sono aggressioni da parte della polizia, da noi quasi sempre». Ma anche se c’è distanza di tempo e spazio, «Carlo lo vedo come un militante della rivoluzione tunisina». La narrazione della repressione di un movimento di massa sembra sempre uguale. Eppure, parlando con questi e altri ragazzi ora in piazza Alimonda, si vede meglio la novità rivelatasi dieci anni fa. Guardi il muraglione della ferrovia su via Tolemaide, a 50 metri. Rivedi quella fiumana che scendeva ancora pacifica lungo la strada e che viene attaccata da tutti i lati da polizia, carabinieri, finanza. Come fa un esercito d’occupazione o di una dittatura polverosa che non vuole andarsene.
Lì, dieci anni fa, come pochi mesi prima a Napoli (una sorta di «prova tecnica», condotta quando però a Palazzo Chigi c’era ancora il centrosinistra), per la prima volta un corteo veniva caricato senza lasciare la consueta «via di fuga». Che è una regola di mantenimento dell’ordine pubblico, non un «regalo» ai manifestanti. Si dà loro la possibilità di fuggire per «decongestionare» la presenza in piazza, «scremare» la parte più convinta da quella che si spaventa prima, riprendere il controllo del terreno. La politica più antica del mondo. Se invece si «chiude la tonnara» – come avvenne a via Tolemaide – è inevitabile che la semplice compressione dei corpi generi una reazione, magari a metà strada tra il panico, la rabbia e la disperazione. Sembra di vederlo quel blocco di manifestanti riuscire a sfondare i cordoni di polizia in direzione di questa piccola e tranquilla piazza. Il resto lo si è visto fin troppe volte nelle immagini.
Questi «mediterranei» riconoscono anche questa modalità repressiva, la provano sulla propria pelle tutti i giorni. Dittatura e occupanti guardano alla protesta come il venire allo scoperto di un nemico mortale, non di un malessere sociale; una presenza «aliena», non un sussulto del proprio stesso popolo. Il messaggio che l’attacco in stile militare al corteo vuole in questo caso lanciare non è «state a casa» oppure «smettete di opporvi», ma «voi non dovete esistere». Che anche un paese democratico abbia ceduto (e, dalle promozioni concesse ai comandanti di piazza, non se n’è pentito) a questa prassi dovrebbe preoccupare tutti. O no?
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Alessandra Fava
INTERVISTA Aitor Balbas, basco, vittima del blitz alla scuola e di Bolzaneto. Ha denunciato tutto
«Eccoci, gli stranieri della Diaz»
«Oggi ci sono le condizioni per un nuovo movimento di protesta globale. I paesi arabi hanno ereditato le nostre battaglie di allora»

GENOVA
A piazza Alimonda arrivano anche gli stranieri. Sono i ragazzi della Diaz, quelli accusati di resistenza. Sono i ragazzi di Bolzaneto, torturati in un paese che credevano democratico. Tra di loro ci sono gli spagnoli di Saragozza, tra cui Aitor Balbas. 40 anni, laureato in geologia, oggi lavora in una ditta indipendente di produzione e distribuzione di documentari sociali. «Facciamo anche noi molte interviste», dice ridendo.
Come arrivò a Genova?
Sono venuto a Genova da Saragozza con un furgone, insieme ad altre 15 persone. Eravamo del Mrg, il movimento di resistenza globale che si era esteso man mano in varie città della penisola iberica. Facevo parte di un movimento sociale legato soprattutto alle realtà associative e prima di Genova andammo a Praga nel 2000. Io poi venivo dall’antimilitarismo, ho combattuto contro il servizio militare obbligatorio dal ’93 al ’96, fummo in 15 mila a disertare la leva e io mi feci anche un anno di carcere. Eravamo un grande movimento pacifista, chiedevamo la sostituzione del militare col servizio civile e con noi c’erano i sindacati, alcuni partiti. Finalmente il servizio fu abolito nel 2001. Il movimento antiglobalizzazione ha preso le pratiche, gli spunti e le idee del movimento antimilitarista, di quello femminista anti-patriarcale e di quello ecologista. E poi allora c’era un collegamento con movimenti dei paesi in via di sviluppo, come Via campesina.
Che speranze avevate venendo a Genova. Che cosa vi aspettavate?
Un ciclo politico si era aperto. Secondo me ereditava le pratiche del movimento zapatista che fu l’inizio di un certo uso dell’informazione, di un discorso che prestava alla sinistra una semantica rigenerata e sapeva proporre un’idea di esercito in maniera quasi sovversiva. Credo che per noi spagnoli in qualche modo chiudesse il ciclo aperto dalla morte di Franco nel ’75. Per noi Genova era l’opportunità di una dimensione globale. Qui c’erano gli attori di tutta la protesta e sapevano superare i limiti dei partiti.
Lei dove è stato?
Ero alla Diaz, poi a Bolzaneto, poi nel carcere di Alessandria. In qualche modo per noi che stiamo nei paesi baschi (io sono di Pamplona anche se studiavo a Saragozza), non è eccezionale che uno stato occidentale sospenda i diritti democratici. Però vedere un atteggiamento simile a Genova mentre tutti gli obiettivi del mondo erano puntati fu un vero shock. Per me il potere non fu in grado di reagire al fatto che 300 mila persone protestassero in una città occidentale. Per loro fu una crisi. E lo stato italiano invece di affrontarla e garantire i diritti della gente, ci vietò con l’esercito di entrare nella zona rossa e ci attaccò. Poi penso che lo scopo di tutto fosse di rompere il movimento, facendo esplodere le contraddizioni rispetto alla reazione da tenere davanti alla violenza.
Quante volte è tornato a Genova?
Sono venuto sette volte per deporre ai processi e inizialmente per difendermi dalle accuse di resistenza, reato attribuito a tutti gli arrestati della Diaz.
Lei fu uno dei primi di Saragozza ad essere contattato dall’avvocato genovese Emanuele Tambuscio. Quelle denunce furono portate in Procura e così iniziarono le inchieste…
Appena tornati in Spagna andammo a denunciare tutto alla procura di Saragozza. Poi una volta qui a Genova facemmo una denuncia ancor più dettagliata. Ad esempio io raccontai che la cosa che mi impressionò maggiormente fu che, arrivato a Bolzaneto, vidi un ragazzo ammanettato a una sedia con in testa un cappuccio nero. È la stessa immagine che vidi anni dopo ad Abu Ghraib! E poi nel carcere di Alessandria, appena arrivato un compagno, Loren, si trovò davanti a un medico che gli fece alzare le braccia e gli tirò un pugno rompendogli una costola. Un medico! Rimasi veramente scioccato da quella scena. Lo shock peggiore dopo la morte di Giuliani.
Dieci anni dopo è di nuovo a piazza Alimonda. Che sensazioni ha?
Una sensazione di allegria. Ho incontrato tanti amici. Ho ritrovato italiani eccezionali e Genova m’incanta. E poi dieci anni dopo sono contento di vedere che qualcuno, oggi nei paesi arabi, ha ereditato le nostre proteste di allora. Stanno maturando nuovamente le condizioni per la creazione di un movimento di protesta globale, e questo mi rende felice.
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PSICOSI BLACK BLOC
Tornano a Genova, tedesche fermate

 

Due tedesche sono state arrestate ieri e tenute in questura due ore per accertamenti. Una delle due era già stata fermata pochi giorni dopo il G8 nell’entroterra di Genova con l’accusa di essere una black bloc. Scontò allora sei settimane in carcere, fu poi scarcerata dal tribunale del riesame e non ci fu mai un processo. D’altra parte in quelle giornate ci fu una caccia all’uomo. Alla fine risultò essere uno dei Cobas e spiegò che con il blocco nero non aveva molto a che fare. Le due tedesche ieri dopo due ore passate alla questura sono riuscite a chiamare uno degli avvocati genovesi che allora faceva parte del Genoa legal forum e poi ha difeso i manifestanti al processo per devastazione e saccheggio e alcune parti civili della Diaz, Emanuele Tambuscio. «Appena passato il casello autostradale ci hanno fermate, fatte scendere, ci hanno fatto tirare fuori tutti i bagagli e hanno filmato e perquisito ogni borsa», racconta una delle due, «quindi ci hanno portato in questura dove ci hanno preso le impronte digitali e fatto altre verifiche. Sinceramente non mi aspettavo di essere nuovamente arrestata dieci anni dopo e per di più a Genova. Per di più hanno fermato anche la mia amica, solo perché era con me». «Ufficialmente sono state fermate per identificazione – spiega l’avvocato Emanuele Tambuscio – eppure entrambe erano dotate di documenti comunitari. Sono state fermate, mi è stato spiegato, perchè risultano dei precedenti di polizia del 2001. Il mio commento è: non sono certo le uniche con dei precedenti penali per fatti legati al G8!». Un chiaro riferimento a chi è stato promosso ai vertici della polizia italiano nonostante le condanne in appello.
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