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Il grande inganno

Se un calciatore commette un fallo cattivo e plateale, l’arbitro lo spedisce immediatamente negli spogliatoi. Ci sarebbe bisogno di cartellini rossi anche nella partita che si sta disputando in questi giorni ed è entrata nella fase più aspra in un clima di crescente smarrimento generale. L’opinione pubblica sa che la situazione del mercato del lavoro è drammatica. Che la crisi colpisce soprattutto giovani, o ex giovani come gli ultratrentenni, disoccupati e privi di tutele non solo legali, ma anche sindacali. Per questo, l’opinione pubblica non può ritenere che il governo voglia smantellare un sistema perfetto: non può, perché il sistema funziona malissimo.

È a questo punto che inizia il grande inganno. Premesso che le cose così non vanno, l’opinione pubblica arriva con estrema facilità alla conclusione che l’assetto degli anni ’70 non regge. Che il mondo è cambiato e chi si batté allora per il cambiamento non può pensare di aver ottenuto per sempre l’effetto desiderato: «Un riformista non lotta per una riforma sola», si dice, «e nessun diritto è salvo per sempre». Il che significa che l’opinione pubblica stenta a capire quale sia la posta in gioco tra i contendenti. Ai suoi occhi, tutto si riduce alla contrapposizione tra padri e figli, vecchi e giovani, insider e outsider. È la contrapposizione più rituale, banalizzante e conformista che si possa immaginare. Una variante dell’eterna guerra tra poveri.
Perciò, appare necessario compiere un salto di qualità. Riscoprire ciò che si tende inavvertitamente a trascurare: e cioè che nel rapporto di lavoro sono coinvolti interessi extra-patrimoniali della persona, la lesione dei quali deteriora proprio lo status di cittadinanza esaltato dalle democrazie costituzionali contemporanee. Riprendersi l’orgoglio di appartenere a quell’angolo di mondo dove i legislatori, qualunque fosse la concezione del mondo (liberale, cattolica, socialista e, sì, anche fascista) cui di volta in volta aderivano, si sono sempre proposti di modificare la condizione dell’uomo che vende la sua forza lavoro; e ciò perché maturarono – più speditamente che altrove e con governi di differente colore – la consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto di natura privatistica. E riproporre con forza il monito pronunciato da uno statista francese contemporaneo con accenti all’altezza della tradizione oratoria del suo paese: «La justification de l’Europe c’est sa différence».
Come dire: il diritto del lavoro del ‘900, per bisognoso che sia di adattamenti, è un elemento costitutivo della civiltà che caratterizza il Vecchio Continente, sia pure limitatamente ai paesi dell’Europa centro-settentrionale e meridionale. L’uso della memoria storica da parte dei governanti dell’Europa d’oggi non sarà certamente condannabile se servirà per aiutarli a mantenersi all’altezza di un passato come questo. È perdendolo di vista che si cade nell’errore del neo-feudale «ciò che è accaduto prima di Cristo non mi interessa, perché io vivo nell’epoca del dopo-Cristo».
Con un atteggiamento mentale del genere, infatti, si arriva in un amen a giustificare anche la più devastante eccentricità, e cioè che per rimettere le cose a posto si debba guardare con fiducia una Repubblica «fondata sul lavoro» che cede alle c.d. parti sociali, ossia a soggetti privati, il compito di dettarne le regole in deroga alle sue leggi («il massimo del potere sindacale!», ha esclamato in preda ad un ilare delirio il segretario generale di una confederazione) e si debba esultare quando lo Stato autorizza che siano messi intralci alla libertà sindacale da lui stesso riconosciuta e solennemente proclamata. A questo proposito, si legga il comma 3 dell’art. 8 del decreto-legge del 12 agosto: «le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori».
Alcuni commentatori l’hanno interpretata come una disposizione pro-Fiat: «ad aziendam», è il maccheronico latinismo che hanno usato. Ma l’affermazione è pericolosamente riduttiva e, per taluni aspetti non secondari, sostanzialmente inesatta. È riduttiva perché la legificazione degli effetti degli accordi siglati l’anno scorso negli stabilimenti italiani della Fiat concerne anche la clausola in base alla quale «l’adesione di terze parti» in epoca successiva «è condizionata al consenso di tutte le parti firmatarie». «Ho l’impressione», ha dichiarato Gustavo Zagrebelsky, «che ci sia qualcosa che non quadra. (…) C’è la prefigurazione di un sistema privilegiato di rappresentanza, a favore di chi partecipa al patto fondativo del sistema». Tutto il resto non conta. Non conta nemmeno la costituzione della Repubblica.
Ma l’affermazione corrente è anche inesatta perché, essendo lo scopo prioritario del governo quello di legalizzare una assai nota e traumatizzante situazione aziendale, la correttezza (non solo linguistica) impone di qualificare la disposizione «contra Fiom»; oppure, se proprio si vuole parlarne come di una norma a favore della Fiat, bisognerebbe per chiarezza aggiungere che l’impresa era, per l’occasione, eccezionalmente sovra-rappresentata e, ciononostante, è rimasta insoddisfatta. Infatti, può darsi che la sanatoria legale di quanto è successo in Fiat finisca per influenzare a suo vantaggio gli esiti di un nutrito contenzioso giudiziario tuttora in corso; al tempo stesso però essa non equivale alla polizza assicurativa contro il rischio di scioperi spontanei che la Fiat cercava. E ciò perché, malgrado la presenza nei suddetti accordi aziendali di una clausola di tregua sindacale, quest’ultima – come è stato chiarito dall’intesa del 28 giugno – non ha alcun effetto per i singoli lavoratori.
A parte ciò, comunque, è uno scandaloso paradosso che lo Stato italiano si decida ad attribuire efficacia ultra partes ad atti dell’autonomia collettiva privato-contrattuale sotto la spinta a liberalizzare gli sviluppi della contrattazione aziendale con la licenza di peggiorare il trattamento fissato dalla legislazione e a fortiori quello stabilito al livello negoziale superiore. Si dirà che anche l’intesa del 28 giugno si propone di estendere ultra partes l’efficacia della contrattazione aziendale – come se fosse un dettaglio che quella nazionale ne è sprovvista a causa dell’inattuazione dell’art. 39 cost., il quale assegna al Parlamento il compito di allestire il meccanismo previsto affinché i contratti collettivi possano produrre un’efficacia para-legislativa. Ma l’argomento prova soltanto il grado di profondità cui è giunta l’interiorizzazione, da parte degli attori collettivi, del privilegio di far da sé in un contesto che esalta l’autonomia del loro bricolage domestico a tal segno da ritenere di poterla esercitare non solo al di fuori, ma anche al di sopra delle leggi dello Stato. Sotto questo profilo, quindi, l’intesa del 28 giugno non è che l’ultima manifestazione di una concezione proprietaria della rappresentanza e della contrattazione collettiva che è difficile stabilire se sia proterva o ingenua. Di sicuro, risale all’epoca pre-costituzionale. Secondo i padri costituenti, infatti, la contrattazione collettiva era il vettore dell’istanza egualitaria che percorre da sempre il mondo del lavoro. Un’istanza che essi volevano venisse soddisfatta con un duplice ordine di garanzie. Sul piano giuridico-formale, lo Stato garantiva con le sue leggi l’inderogabilità e l’universalità dei trattamenti minimi negoziati a livello nazionale – il solo operante all’epoca della Costituente – mentre, sul piano sostanziale, la garanzia della loro adeguatezza ai parametri dell’eguaglianza dignitosa ricavabili dal documento costituzionale doveva risiedere nell’ampiezza del consenso sindacale e, sia pure in via mediata e presuntiva, dei più diretti interessati. Non a caso, una compatta giurisprudenza non ha mai smesso, nell’arco di mezzo secolo e passa, di accostare il contratto collettivo del dopo-costituzione – ossia, la principale e più attiva fonte di produzione normativa in materia di lavoro – ad un grande serbatoio idrico sprovvisto dell’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e di trasportare l’elettricità in tutte le abitazioni, anche le più periferiche. E nei sindacati firmatari di contratti orfani dell’erga omnes ha sempre visto – non tanto dei rappresentanti degli iscritti, bensì – degli incaricati di un servizio di pubblica utilità che non erano messi nella condizione di erogarlo come si dovrebbe. Per questo, i giudici cui si rivolgevano i senza-tessera sindacale per reclamare giustizia decidevano di applicare anche a loro il contratto nazionale, derogando deliberatamente al principio-base del diritto comune in ragione del quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti. Essi sapevano perfettamente che un contratto nazionale con una sfera di efficacia circoscritta ad un terzo o poco più degli interessati è in sofferenza come un animale azzoppato. Per lo stesso motivo, i sindacati del dopo-costituzione evitavano come una sciagura la contrattazione separata che avrebbe tolto anche quel po’ di certezza giuridica e di tutele che, senza il sostegno legale costituzionalmente previsto, l’auto-regolazione sociale poteva e può dare. Infatti, come non si stanca di ripetere Gian Primo Cella, «l’unità d’azione è stata una vera e propria alternativa funzionale alla mancata applicazione del 4° comma dell’art. 39». Malgrado limiti e costi. Costi sopportati anzitutto dalla stragrande maggioranza dei comuni mortali che prestano lavoro per, e sotto la direzione di, qualcuno.
Ecco allora, descritto in breve, il retro-terra del singolare contenuto del decreto del 12 agosto. Rammentarlo si deve: serve per sbugiardare le leggende metropolitane messe in circolazione.

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