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Due diverse “lezioni” su democrazia, mercato, capitale

Il deficit di democrazia fa più danni del debito

di Guido Rossi


ià il quarantacinquesimo sonetto del grande intellettuale del Quattrocento Giovanni Pico della Mirandola recitava al primo verso: «Misera Italia e tutta Europa intorno». Ed è ancora oggi profondamente vero.

I gravi problemi che ci tormentano dipendono infatti non solo dal futuro dell’euro, ma dall’incapacità dell’intera Europa di risolvere un problema che si rivela soprattutto politico. Due recenti fatti ne sono la spia: la sentenza del 7 settembre 2011 della Corte costituzionale tedesca e le dimissioni dalla Bce del consigliere tedesco Jürgen Stark.

L’Europa soffre oggi di un incredibile paradosso che minaccia gli assetti mondiali dell’economia e della politica. Se è pur vero che l’Unione Europea è stata un incredibile artefice di democratizzazione, a partire dagli anni 80 del secolo scorso con l’incorporazione di Portogallo, Spagna e Grecia e poi con quella dei dieci Paesi ex comunisti dell’Europa Centrale dell’Est, sembra oggi in preda a un grave deficit di democrazia. Tale deficit è stato ripetutamente sottolineato dalla sentenza della Corte costituzionale tedesca che, nonostante abbia deciso che il patto europeo di stabilità finanziaria e il meccanismo di prestazione delle garanzie per gli aiuti alla Grecia approvati dal Bundestag non sono anticostituzionali, ha concluso che i problemi della democrazia in Germania rimarranno sempre nelle mani del Bundestag eletto dai cittadini tedeschi poiché i vari trattati europei non possono contrastare le inalienabili competenze e sovranità dei Parlamenti degli Stati membri democraticamente eletti.

Questa sentenza si pone sulla scia di quella precedente dell’estate del 2009 la quale, nell’accertare la costituzionalità del Trattato di Lisbona, affermò il principio che la Repubblica Federale non può sottoporsi a incalcolabili automatismi di aiuti economici comunitari e che solo la Commissione di bilancio del Bundestag può autorizzare il Governo a fornire garanzie ad altri Stati dell’Unione.
La base giuridica delle sentenze della Corte è lo strutturale “deficit di democrazia” dell’Unione Europea, per mancanza di un “popolo uniforme europeo”, con la conseguenza che un’Unione di Stati approvati dai Trattati non fa venir meno la sovranità dello Stato tedesco.

Strano discorso, quello della Corte costituzionale, che pare affidarsi a una nozione di democrazia tribale, che ovviamente non riconoscerebbe un popolo uniforme, né agli Stati Uniti d’America, né all’India.
Ritengo che il millenario principio di unità delle culture e civiltà europee, pur nelle loro differenze, debba essere rispettato. Ma la verità è che la Corte, pur non addentrandosi in argomentazioni approfondite, sottolinea un’indiscutibile realtà, cioè il deficit democratico dell’Europa. Deficit democratico, anche perché l’organo di governo europeo, costituito dalla Commissione, è composto da membri nominati dai Governi degli Stati membri e non eletti dai cittadini europei.

Il ruolo della Commissione non è, peraltro, più quello iniziale ed è stato via via sfrondato a favore di una serie di altre istituzioni che con i loro interventi provocano all’interno del sistema europeo un ulteriore sconquasso dei meccanismi istituzionali.
Si è verificata, e soprattutto ora ha raggiunto limiti d’intolleranza, una tensione fra l’interesse generale dell’Unione come insieme e gli interessi particolari degli Stati membri. È pur vero che in tutti i sistemi federali questa tensione esiste, ma è normalizzata da una governance efficiente. La tragedia dell’Europa è che tale governance non esiste e che le istituzioni dell’Unione non godono di sufficiente autorevolezza, sicché il risultato è che le singole parti urlano, impongono e l’insieme tace e subisce.

Il deficit dei meccanismi istituzionali ha il suo punto massimo nello sconcertante ruolo che ha assunto la Bce, divenendo il vero strumento di politica economica non solo dell’Unione bensì anche dei singoli Stati, se è vero che nessuno si vergogna di dire che la manovra italiana è stata dettata da una lettera della stessa Bce. Si tratta tuttavia di una supplenza non legale, senza contare che l’intero degrado del meccanismo istituzionale dovrebbe vedere competente la Corte di giustizia europea.
Esiste poi sull’Europa un inquietante interrogativo: che cosa può emergere dalle attuali contraddizioni europeiste che tormentano la Germania, dettate da un forse innato, e a volte non immeritato, spirito di arrogante superiorità, o da problemi all’interno del sistema tedesco di non sicura soluzione?

Le dimissioni per contrasto in un organo collegiale di Stark sono un sintomo dell’insano rapporto tra la Germania e l’Europa. Negli organi collegiali chi dissente può votare contro, ma non certo deve dimettersi provocando danni economici notevoli alle comunità.
È allora vero che il problema più grave rimane quello politico, non solo italiano, ma anche europeo. La federazione dell’Europa abbisogna di un sussulto di rifondazione che, in mancanza dei vecchi leader che l’avevano voluta, sproni lo spirito degli europei alla ricerca di un demos unitario che cancelli il deficit democratico.

 

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Il muro di Berlino si è spostato a Francoforte

di Luigi Zingales

 

Il 9 di settembre 2011 rischia di essere ricordato come la data di inizio della fine dell’euro, almeno dell’euro a 17 Paesi. Le dimissioni di Jürgen Stark, che seguono di sette mesi le dimissioni del governatore della Bundsbank Axel Weber, non sono solo un segnale dei dissensi interni alla Banca Centrale Europea (Bce), sono una presa di distanza della Germania da un’istituzione in cui non si riconosce più.

Anche il mercato l’ha capito, facendo scendere fortemente l’euro rispetto alle altre valute.
I tedeschi avevano accettato di privarsi dell’amato Deutsche Mark in cambio di garanzie solide su come la politica monetaria sarebbe stata condotta. Queste garanzie sono state violate. Sia Axel Weber che Jürgen Stark si sono dimessi perchè non vogliono avere nulla a che fare con decisioni ai limiti della legalità, che violano lo spirito se non la lettera degli accordi europei. Alcuni sostengono che Jürgen Stark voglia entrare in politica. Non so se sia vero, ma l’esistenza di questo rumor dimostra il seguito popolare che la sua posizione ha in Germania.

Il motivo del contendere è l’acquisto da parte della Bce dei titoli di stato dei Paesi a rischio. Il primo errore fu fatto nel Maggio 2010 quando, nelle more della politica, la Bce intervenne, comprando titoli greci ed accettandoli come collaterale nelle operazioni di prestito. La funzione di una banca centrale è quella di fornire liquidità al sistema, non di assumersi alcun rischio di credito nè tantomeno di salvare stati dall’orlo del fallimento.
Questo è il compito delle autorità fiscali, che, in democrazia, devono avere il consenso del parlamento (un principio riaffermato giovedì dalla decisione della Corte Suprema tedesca). Anticipando i rischi che questo passo comportava Axel Weber si era opposto. Trichet, preoccupato dalla lentezza della politica, decise di andare avanti lo stesso. A causa di questa decisione a fine 2010 la Bce ha dovuto fare accantonamenti per le perdite subite negli acquisti dei titoli greci.

Nonostante i costi, ai primi di agosto Trichet ha ripetuto l’operazione coi titoli italiani e spagnoli. Si era reso conto che la situazione italiana aveva raggiunto il punto del non ritorno. Preoccupato dalla lentezza della politica (sia italiana che europea) Trichet ha deciso nuovamente di andare avanti, probabilmente contro il parere di Stark. Il comportamento del governo italiano non ha certo giovato a rendere popolare in Germania questa decisione.
Come ricordavo domenica scorsa, la Bce ora è in trappola. Se si tira indietro, l’Italia fallisce. Se non si tira indietro, l’euro si spacca. Le dimissioni di Stark suggeriscono che si sta andando nella seconda direzione. La Germania non accetta la monetizzazione del debito. Teme una frattura dell’Europa, ma teme ancora di più l’inflazione.

Cosa farà? L’ipotesi più probabile è la formazione di una unione monetaria alternativa, in cui la Germania abbia di fatto potere di veto. La Germania, con i Paesi del Nord Europa e la Francia, rappresentano un’area economicamente omogena per una moneta comune. Per minimizzare il costo politico di “distruggere l’Europa”, la Germania può presentare questa manovra come un passo in avanti, invece che un passo indietro. Con questi Paesi, la Germania entrerebbe in un’unione non solo monetaria ma anche fiscale. Sarebbe disposta a farlo non solo perchè questi Paesi sono più omogenei e meglio governanti, ma anche perchè creando una nuova unione sarebbe in grado di ridefinirne la governance. Il principio di uno-stato un-voto e quello di unanimità per tutte le decisioni sarebbe rimpiazzato da voto pesato per popolazione o Pil e decisioni a maggioranza. In entrambi i casi, i tedeschi controllerebbero di fatto l’unione.

L’attuale euro rimarrebbe la moneta del Sud Europa. D’altra parte il governatore della Bce sarà un italiano, il vicegovernatore portoghese, e, con Stark dimissionario e Trichet a fine mandato, l’executive board, è composto solo di rappresentanti del Sud Europa, con l’eccezione del belga Peter Praet. Questi Paesi rimarrebbero in un’Europa di serie B. Solo dopo aver dato prova di essersi riformati, migliorando la competitività e il bilancio pubblico, potranno essere ammessi all’Europa di serie A. È quello che sarebbe dovuto succedere con Maastrich, se non fosse stato per le pressioni politiche, soprattutto dell’Italia.

Anche oggi l’unica reticenza dei tedeschi nel fare questo passo sarebbe quella di abbandonare l’Italia, un partner commerciale importante e uno dei Paesi fondatori dell’Europa. Ma, come mi ha confessato un amico tedesco, Berlusconi li sta aiutando enormemente a superare questa reticenza.

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