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L’inquinamento delle falde del diritto

L’inquinamento delle falde del diritto

Adesso che il decreto della manovra è convertito in legge posso dirlo: ciò che mi colpiva di più era non tanto l’enormità della nefandezza commessa con l’ormai famigerato art. 8 – Sacconi è quello che è e lo sapevo – quanto piuttosto il clima creato da concomitanti convergenze di comportamento che ne ha accompagnato e alla fine favorito l’iter approvativo.
La grande stampa e la Tv, hanno impiegato un bel po’ di tempo ad informare l’opinione pubblica sulla svolta deliberata dal governo e sulle sue innumerevoli implicazioni. Come se quello minacciato fosse un aspetto marginale della vita di relazione in un paese democratico. Si trattava invece del lavoro dipendente, che resta quello dominante anche nell’era post-industriale; dei principi-base attinenti al suo trattamento economico-normativo; del ruolo della sua rappresentanza sindacale.
Esponenti di rilievo dell’opposizione politica e dello stesso mondo sindacale, si sono affrettati a definire “irresponsabile” o “demenziale” lo sciopero generale proclamato dalla Cgil – «se non ora, quando?», ha giustamente replicato Susanna Camusso. Mi ha impressionato, insomma, la scorrevolezza del percorso compiuto dal dispositivo di conio sacconiano della manovra: è approdato in Parlamento con minore affanno rispetto agli altri dispositivi, alcuni dei quali si sono addirittura persi per strada.
Vero è che l’emergenza sollecitava violentemente la responsabilità anche dei migliori del paese i quali, pur essendo consapevoli di trovarsi di fronte ad una pazzia, si sono sentiti obbligati a comportarsi come in presenza di una cataclisma naturale. Che si può soltanto subire. Tuttavia, la trasversalità del paralizzante clima di fatalismo ha dato la misura della profondità raggiunta dall’inquinamento dalle falde sotterranee del diritto del lavoro. O meglio: fa capire che, a furia di considerare bene economico tutto ciò che è fonte di arricchimento e di enfatizzare il primato del contratto collettivo rispetto alla legge, non solo questi governanti condividono l’idea che il lavoro rientra nella sfera degli interessi privati e nella disponibilità delle rappresentanze dei portatori dei medesimi. E’ questa la grande condivisione che finisce per rendere accettabile l’idea che la dimensione mercatistica esige rinunce totali o parziali – in cambio del lavoro che altrimenti non si trova – ai diritti nel frattempo acquisiti.
Dopo la conversione in legge del decreto d’agosto, ad ogni modo, è doveroso interrogarsi sugli scenari che si aprono.
Un logorroico commentatore ha osservato che, poiché il dispositivo sacconiano ha le caratteristiche di una bomba a orologeria piazzata nel sottoscala dell’edificio novecentesco denominato diritto del lavoro, nel breve termine non succederà nulla. E’ falso: nell’immediato, diminuirà l’interesse ad attivare le procedure di rinnovo dei contratti nazionali in scadenza. In effetti, a che serve un’auto-regolazione sociale sulla quale pende la spada di Damocle della derogabilità in peius? Qualunque sia la risposta, è indubbio che non ci si può consolare pensando che, se il raggio d’azione del potere contrattuale derogatorio è esteso, non meno vasto è il cono di luce che la costituzione proietta sulla normativa lavoristica. CONTINUA | PAGINA 15
Pertanto, non c’è soltanto la spada di Damocle della derogabilità in peius tanto della contrattazione collettiva nazionale già negoziata o da negoziare quanto dell’intera legislazione. C’è anche la spada di Damocle dell’invalidazione giudiziaria delle deroghe negoziate in azienda. Anche per questo, è presumibile, la corsa alla deroga peggiorativa non sarà sfrenata.
Nondimeno, il valore dello sbrego è incalcolabile e non è solamente simbolico. Così, tra gli effetti pressoché automatici dell’innovazione legislativa, il più consistente e diffuso consiste nel segnare l’inizio di una lotta per l’egemonia culturale che farà da levatrice di un diritto del lavoro il cui futuro è già cominciato – sia pure nella maniera più irrituale che si potesse immaginare.
Come documenta l’esperienza, non c’è legge capace di resistere alla pretesa di spartirne la paternità avanzata dal ceto professionale degli operatori che per mestiere la sottopone ad un’attività interpretativa ricca di creatività per contraddistinguere la quale si usa, un po’ per brevità e un po’ per alzarne il profilo, l’espressione “cultura giuridica”. Anche e soprattutto in questo caso, non sarà ininfluente la confusa coralità del dibattito che si svilupperà in molti ambienti: da quello giudiziario (dal livello più basso su su fino alla Corte costituzionale) a quello propriamente sindacale, da quello abitato dal ceto professionale dei consulenti del lavoro a quello accademico, con le sue centinaia di docenti di diritto del lavoro che in gran numero esercitano attività forense. Anzi, l’essenza della decisione politica d’agosto non si coglie nelle parole di cui si compone, per quanto esplicite esse siano. La sua essenza sta nella reazione complessiva che sarà dato registrare oltre la dizione letterale approvata dal Parlamento. Alla fine, un messaggio passerà. Quale?
Può darsi che, a giudizio di una discreta quantità di parlanti, il diritto del lavoro inteso come corpus normativo dotato di una propria organicità, basato su principi universalmente vincolanti e blindato dall’autorità dello Stato sia un optional di cui si può fare a meno. Però, non sembra questa la corrente di pensiero destinata a prevalere. Una selvaggia frammentazione normativa è dannosa per tutti. Neanche i più forti desiderano vivere nella giungla – senza dire, poi, che l’aumentato rischio di rarefazione delle cattedre per insegnare “il diritto del lavoro che non c’è” farà il resto, irrobustendo l’istinto di sopravvivenza della porzione della popolazione universitaria più vitalmente interessata. Insomma, si cercherà un nuovo ordine; ed è soltanto ovvio che esso non potrà arrivare dalla richiesta pura e semplice di abrogare la mostruosità giuridica – atto, comunque, dovuto per un’infinità di ottime ragioni.
E’ quindi prevedibile che l’attenzione si polarizzerà sulle proposte ricostruttive che circolano da tempo, sia pure con modesto successo. Il loro difetto maggiore risiede, a mio avviso, nella loro spensieratezza costituzionale. Infatti, se la situazione delle carceri (come ha affermato di recente il Presidente della repubblica) è da mettere in cima alla lista delle più clamorose inattuazioni costituzionali, al secondo posto – per estensione e rilevanza – si colloca la realtà sindacale italiana. E’ da qui che bisogna ripartire.
L’art. 39 cost. prefigura l’assetto dei rapporti tra Stato e sindacati in un regime democratico – il che non era mai successo nella storia dell’Italia unita – e privilegia il contratto collettivo (nazionale: dominante all’epoca della Costituente) nel sistema delle fonti di produzione delle regole applicabili al rapporto di lavoro dipendente. Infatti, gli attribuisce un’efficacia para-legislativa (erga omnes, si suol dire), sia pure in presenza dei presupposti che la legge di attuazione avrebbe dovuto stabilire in conformità all’enunciato costituzionale, secondo il quale la “registrazione” dei sindacati (cioè, il loro riconoscimento giuridico da parte dello Stato) li avrebbe messi nella condizione di concorrere alla formazione di organismi di rappresentanza unitaria «in proporzione dei loro iscritti». Perciò, è evidente che i padri costituenti aderivano alla tesi della bipolarità del sindacato, che fa di lui un soggetto di diritto privato munito del potere di rappresentanza negoziale degli iscritti e, al tempo stesso, l’incaricato di una funzione di pubblica utilità. Valutando tale componente genetica più una risorsa che un’anomalia, ne ricavavano il logico corollario che i prodotti dell’autonomia collettiva appartengono ad una dimensione normativa in bilico tra privato-contrattuale e pubblico-statuale.
Per sessant’anni, invece, si son fatte anche carte false per ostracizzare quella significativa acquisizione di politica del diritto. E ciò perché pareva estratta dalle macerie dell’ordinamento corporativo del ventennio precedente. Solamente in seguito si è cominciato a percepire che la durezza della punizione subita a causa della centralità che le aveva assegnato il corporativismo dell’epoca fascista. In effetti, la de-costituzionalizzazione del diritto sindacale e del lavoro è andata oltre il segno, facendo perdere di vista inter alia che, secondo i padri costituenti, la contrattazione collettiva è il vettore dell’istanza egualitaria che percorre il mondo del lavoro dalle origini. Un’istanza che essi volevano fosse soddisfatta da un duplice ordine di garanzie. Sul piano giuridico-formale, lo Stato garantisce con le sue leggi l’inderogabilità e la generalizzazione dei trattamenti minimi stabiliti o legislativamente o per contratto nazionale; mentre, sul piano sostanziale, la garanzia dell’adeguatezza dei medesimi ai parametri dell’eguaglianza dignitosa, testualmente desumibili da più luoghi del documento costituzionale, risiede prioritariamente nell’ampiezza del consenso sindacale e, sia pure in via mediata e presuntiva, dei più diretti interessati.
Se, a causa dell’inattuazione dell’art. 39, l’insieme di tali garanzie non ha finora trovato riscontro nell’ordinamento se non in misura largamente incompleta e approssimativa, adesso il principio dell’eguaglianza costituzionalmente possibile viene derubato anche della garanzia dell’inderogabilità dei minimi di trattamento predeterminati dalla legge.
Per questo, è motivo di seria preoccupazione che la ratifica dell’intesa interconfederale del 28 giugno non sia stata preceduta da un’esplicita dichiarazione congiunta delle parti firmatarie di questo tenore: l’art. 8 va cancellato. Come dire che resta incerto se si sta andando verso la revisione dell’opzione degli anni ’50 che de-costituzionalizzò lo sviluppo del diritto sindacale e del lavoro – come per certi versi è dato desumere dall’intesa del 28 giugno – o, all’opposto, verso la sua radicalizzazione.

da “il manifesto” del 25 settembre 2011

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