Menu

Il governo della Bce. La lettera del giorno dopo

Le ricette sono chiarissime, dettagliate per singole misure, come se i due fimatari – Jean Claude Trichet e Mario Draghi – non fossero sicuri di essere ben capiti. La reazione del governo in carica è nota: una manovra gigantesca, ma non  del tutto corrispondente ai “consigli” della Bce. Forse perché – oltre alle pensioni d’anzanità – nella richiesta di taglio della spesa pubblica avrebbero dovuto entrare pesantemente tutti i capitoli che afferiscono agli appalti. La rinuncia a operare a breve sul capitolo “costi della politica”, in realtà soprattutto su estensione e poteri delle amministrazioni locali (che solo qui da noi si declinano quasi eslusivamente in “clientele”, ne viene quasi di conseguenza.

Ma è come sempre apparentemente paradossale la reazione del mondo politico-parlamentare. La destra, che ha fatto la manovra “quasi” come richiesto, sbraita come se avesse difeso qui e soprattutto in futuro la “sovranità nazionale”. Il Pd, per bocca di Enrico Letta, assume quella lettera come “il programma politico” della prossima legislatura.

Dobbiamo prenderli sul serio entrambi. Letta getta via la maschera sulle “intenzioni” governative del Pd e annuncia il rovesciamento completo del “modello sociale” del dopoguerra, giù pesantissimamente compromesso dal duo Sacconi-Tremonti. La destra disegna l’ideologia con cui tenterà di sopravvivere allo tsunami della scomparsa di Berlusconi. Un dialettica infernale tra un governo “tecnocratico-commissariato” e un populismo eversivo “localista” (con la gioiosa convergenza di leghismi padani e mafiosi).

Le prime reazioni a questo quadro sono interessanti, ma anche deprimenti. Segnaliamo intanto quelle de “il manifesto” che dànno il senso – e prefigurano un discorso – di un’opposizione debole, tentata dal compromesso con l’ala  meno impresentabile della borghesia nostrana (il Pd lettian-tecnocratico) nella speranza di poterne (vendolianamente) limitare l’odio anti-lavoratori. Senza capire che non si tratta di una lotta “ideologica” che si possa perciò “graduare” conflittualmente: il “programma della lettera” va preso alla lettera. Lì, spazi di mediazione, non sono previsti. Punto e basta. Bsta leggere il pezzo di Enrico Marro, sul Corriere, per trovare l’elenco puntiglioso delle incoerenza del “centrosinistra” rispetto al programma durissimo e criminogeno della Bce.

La via di un’opposizione passa per la lotta contro quel programma e contro il “nazionalismo straccione”. Perché questa è una crisi di sistema, non una scossa di assestamento nell’evoluzione “positiva” del capitalismo. Non ci sono dunque “riformismi possibili”, ma solo esiti opposti di una crisi senza via d’uscita indolore.

*****

dal Corriere della sera

II caso Prodi: le indicazioni erano doverose

Il Pd prima tifoso ora imbarazzato

Enrico Marro

Forse Nichi Vendola avrà cambiato idea su Draghi, dopo aver letto, ieri sul Corriere, la lettera che la Banca centrale europea ha inviato il 5 agosto a Silvio Berlusconi, firmata dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e da quello entrante, Mario Draghi appunto. Solo qualche mese fa, in alcune interviste, il leader di Sel metteva in guardia il Pd dal «farsi sorpassare a sinistra da Ratzinger e da Draghi» sul tema del lavoro precario e si chiedeva: «Possibile che le cose più di sinistra in Italia le debba dire il Governatore della Banca d’Italia?».

Lo stesso Draghi che, insieme con Trichet, ha presentato al governo almeno quattro richieste indigeribili per Sel, ma anche per il Pd e per l’Idv: la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali», attraverso «privatizzazioni su larga scala»; la «revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento»; «più rigorosi criteri di idoneità per le pensioni d’anzianità»; e come se non bastasse, un intervento sul pubblico impiego, «se necessario, riducendo gli stipendi».

A dire il vero si tratta di quattro richieste molto complicate da accogliere anche per l’attuale maggioranza. Basti pensare al niet della Lega sulle pensioni d’anzianità oppure a cosa significherebbe un taglio delle retribuzioni degli statali in termini di rottura con la Cisl e la Uil: uno scenario non sostenibile per il Pdl. Ma il governo e la maggioranza almeno possono dire di avere preso, con le manovre di luglio e di agosto, provvedimenti che vanno nella direzione chiesta da Francoforte. Anche se poi devono affrontare le accuse di aver fatto commissariare l’Italia dalla Bce.

Per il centrosinistra, invece, si apre un problema di coerenza: la Bce e Draghi vanno bene quando criticano il governo, salvo poi scoprire che lo criticano perché non fa le cose che soprattutto le opposizioni non vogliono. Il 24 giugno scorso la direzione del Pd, allora riunita, salutò con un lungo applauso la notizia della nomina di Draghi alla guida della Banca centrale (si insedierà il primo novembre): lo stesso Draghi che ieri il Pd ha chiesto sia convocato in audizione in Parlamento. E lo stesso che invece aveva riscosso il plauso di tutta l’opposizione il 31 maggio, quando, con le annuali «Considerazioni finali», aveva criticato le carenze dell’azione di governo, in particolare sulla crescita dell’economia.

Ieri Romano Prodi, ex presidente della commissione europea e per due volte presidente del Consiglio di governi di centrosinistra, ha detto che la lettera della Bce ha rappresentato «un ammonimento che era doveroso, dato lo stato di divisione del Paese e credo sia stato estremamente utile perché il governo i giorni dopo provasse ad apparire almeno meno diviso. Poi non lo è stato, ma insomma…». Prodi, quindi, si è limitato a sostenere l’utilità metodologica della missiva, nel senso di uno sprone all’esecutivo, senza però scendere nel merito delle richieste della Banca centrale.

Alla fine, di una cosa il centrosinistra può certamente rivendicare il merito: di aver chiesto dall’inizio che la lettera fosse resa nota. Ieri, grazie al Corriere, la missiva segreta è finalmente diventata pubblica. Ma il contenuto ha riservato amare sorprese all’opposizione. Eppure, solo qualche settimana fa Sandro Gozi, responsabile delle politiche europee del Pd, invitava il ministro dell’Economia Giulio Tremonti a dimettersi, perché da sua manovra non rispetta le indicazioni di giugno della Commissione, ribadite a Berlusconi con la lettera della Bce». E il leader della Cgil, Susanna Camusso, in un’intervista all’Unità per lanciare lo sciopero generale del 6 settembre, aveva perfino sfidato il ministro del Welfare. «Sul lavoro Sacconi dice che l’intervento lo ha chiesto la Bce», osservava Rinaldo Gianola. «Non è vero – replicava Camusso -. Sono pronta a leggere la lettera inviata dalla Bce al governo e a confrontare le richieste di Francoforte con la manovra». Parole imprudenti.

*****
Francesco Paternò
Centrosinistra Enrico Letta e l’ex premier plaudono ai contenuti della missiva per difendere Draghi FRANCOFORTE-ROMA Il partito d’opposizione e Prodi: ripartiamo da Draghi e Trichet
Il Pd: lettera d’amore Bce
Caro Partito democratico, ma è così che pensi di andare alle elezioni? Enrico Letta e Romano Prodi hanno risposto con una lettera d’amore alla lettera con cui il 5 agosto scorso, la Bce ha costretto il governo Berlusconi a riscrivere per l’ennesima volta la manovra. Eppure, la pubblicazione sul Corriere della Sera della missiva da Francoforte, firmata dal governatore Jean Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, rivela come alla Bce pensino di far sistemare i conti italiani anche entrando a gamba tesa sui contratti di lavoro e sulle norme che regolano assunzione e licenziamenti (vedi scheda qui sotto), meglio se di corsa con un decreto. Una opposizione decente vi avrebbe letto quantomeno uno sconfinamento di Draghi, ma è successo esattamente il contrario. Il Pd insieme a Romano Prodi ha fatto quadrato intorno alla Bce e dunque intorno a Draghi, in difficoltà dopo che il suo candidato alla direzione di Bankitalia Fabrizio Saccomanni è stato «azzoppato» dal no del ministro dell’economia Giulio Tremonti. La manina che ha passato la lettera al giornale, con certo non nobili intenzioni nei confronti di chi l’ha firmata, è assai sospetta.
Il più stupefacente è stato il vicepresidente del Pd. «I contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l’Italia dalla crisi – ha tirato dritto Letta – è siderale la distanza tra quelle analisi e ciò che il governo ha concretamente fatto, o meglio non fatto in queste settimane. Qualunque governo succederà al governo Berlusconi, si dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Davvero un bel viatico alla campagna elettorale, se mai si voterà prima del 2013. E per non essere frainteso nelle sue vere intenzioni, Letta in serata ha aggiunto una nota a margine, sposando il «manifesto delle della crescita» con cui la Confindustria di Emma Marcegaglia sta martellando il governo. «Il manifesto è una svolta importante per la situazione di stallo che sta vivendo il paese», dice Letta, pronto insieme al suo partito «a confrontarci e a fare lunga strada insieme agli estensori del manifesto per dare, ognuno nella sua responsabilità, un contributo all’uscita dell’Italia dalla crisi».
Da compagni di strada nuovi a quelli vecchi (non anagraficamente) come Romano Prodi. Per il quale la lettera è un «atto dovuto» e nulla più. «Quella lettera è tutto. È una lettera che mette le cose in chiaro ed è poi anche un atto dovuto, d’altronde al mondo ognuno fa il suo mestiere», dice l’ex premier, anche se non si capisce perché da Francoforte due governatori di banche centrali debbano sollecitare nuove regole sui licenziamenti saltando il parlamento, invece di occuparsi di politiche monetarie come da statuto.
A conferma che il Pd sia fuori di testa basterebbero le parole euforiche dei due ministri più zerbinianamente berlusconiani.
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, si è detto infatti «molto soddisfatto» della pubblicazione della lettera, perché dimostra che «avevo ragione, nella lettera c’è l’indicazione sull’art.18. Nel testo viene chiamato in inglese ‘dismissal’ ma a a casa mia, si chiama articolo 18». Già che c’è, Sacconi aggiunge del suo, sostenendo che «la richiesta della Bce, peraltro è coerente con quanto da noi fatto con l’art.8, sia a livello di contrattazione aziendale sia nel rendere più agevole l’uscita dal lavoro». «Se confrontiamo gli ultimi provvedimenti presi dal governo da maggio ad agosto, corrispondono al 95% delle indicazioni date dalla Bce», plaude il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, «noi abbiamo bloccato in maniera intelligente la contrattazione proprio per far convergere la dinamica retributiva rispetto al privato nell’arco di tre anni». Chissà se Letta li ha sentiti: nel dubbio, il capogruppo del Pd ha chiesto un’audizione di Draghi alla Camera sulla lettera. Repetita iuvant?

*****

Galapagos
Chi è il postino della Bce?
È Tremonti l’ indiziato numero uno per la lettera passata al «Corriere della Sera». Ma circolano altri nomi
«La lettera nascosta» è un bellissimo giallo di Edgar Allan Poe: narra della ricerca ossessiva di una lettera che – alla fine – si scopre era semplicemente appoggiata sopra una scrivania. Anche la lettera inviata dalla Bce al governo italiano è un piccolo giallo, non per i contenuti che più o meno indirettamente erano stati resi noti dai primi giorni di agosto, ma su chi l’ha passata al Corriere della Sera. Chi è stato il postino?
Rivelare i dettali della lettera assomiglia molto a una resa dei conti all’interno del governo. O meglio: a una resa dei conti tra Tremonti e Berlusconi. In altre parole: il postino sarebbe stato Tremonti. Perché? Il ministro del tesoro da settimane è sotto tiro (perfino degli amici della Lega) per la politica economica che ha imposto. Con la pubblicazione della lettera, si rende evidente che aveva ragione lui. Certo, prima di ricevere la missiva Tremonti di casini ne ha fatti molti: quando ha sostenuto che l’Italia stava meglio di altri paesi; quando ha affermato – dopo la manovra di giugno – che la Bce non ci chiedeva ulteriori sacrifici e in particolare di anticipare il pareggio di bilancio al 2013, anziché al 2014. Una cosa che invece è stata del tutto assente nell’azione del governo sono le «misure significative per accrescere il potenziale di crescita», come scrivono Trichet e Draghi al governo italiano. Un punto sul quale Tremonti è colpevole, e non da oggi, che apre gli spazi per qualche altro postino. Ma chi?
Un paio di mesi fa Mario Draghi fece un intervento sostenendo la necessità di varare misure per accelerare la crescita. E prima ancora aveva sostenuto che andava ridotta la precarietà del lavoro per ridare fiato ai consumi. Tutte cose che il governo non ha fatto. Però appare difficile credere che sia stato Draghi a passare il documento al Corriere della sera. Anche perché per il prossimo presidente della Banca centrale europea sarebbe un pessimo inizio del suo mandato e sarebbe soggetto a ricatti.
Potrebbe essere stato allora Trichet, intervistato un paio di giorni fa dal quotidiano milanese? Trichet, oltretutto è ormai fuori gioco, ma anche lui è un banchiere centrale che, difficilmente, fa certe cose. Cioè entrare nel dibattito politico e di politica economica che dilania l’Italia. Certo, in passato ci sono stati esempi di banchieri che parlavano: il caso più clamoroso era quello di Guido Carli, che affidava a Eugenio Scalfari le sue riflesioni poi firmate con le pseudonimo di Bancor.
Un altro nome che circola di possibile postino è quello di Giorgio Napolitano, che in questi due mesi è stato indicato come stampella del governo Berlusconi, di fatto commissariato dal presidente, da Draghi e dalla Bce. Un personaggio dello staff di Napolitano però avverte: il presidente non fa queste cose. Vero, ma il presidente è circondato da un mondo variegato con rapporti molto stretti con il centro-sinistra. Non a caso, proprio del centro sinistra (da Letta in giù, fino a Prodi) sono arrivati gli apprezzamenti più forti alla lettera della Bce. Una lettera, come è scritto anche nel nostro editoriale, che trasuda neo-leberismo da tutte le parti. Una lettera che potrebbe, se sposata, spostare l’asse delle alleanze politiche del centro sinistra. In altre parole: potrebbe far fuori l’alleanza con il Sel (e anche Bersani) a favore di un asse molto più moderato con l’Udc di Casini.
In questa ottica, col senno del poi, è estremamente illuminante la dichiarazione di D’Alema di alcuni giorni fa. Ovvero l’invito a superare in Italia e in Europa la fase socialdemocratica. La lettera della Bce contiene tuto, meno che una visione socialdemocratica. Insomma, anche a «sinistra» (virgolette d’obbligo) c’è chi era interessato alla pubblicazione della lettera per far passare l’idea di una diversa società costretti dale richieste della Bce,
Ma è il primo postino – Tremonti – a restare il maggiore indiziato. Anche perché, nel frattempo si è aperto – anzi, riaperto – un nuovo fronte: quello del prossimo governatrore della Banca d’Italia come successore di Mario Draghi. Fino a pochi giorni fa – tutta la stampa italiana ne era certa – il nome sicuro era quello di Saccomanni, attuale direttore generale della banca centrale. Una successione logica, naturale. Sembrava, invece, sconfitto il candidato di Tremonti: Vittorio Grilli, direttore generale del tesoro del 2005. Ma ora i giochi sembrano riaperti: l’uomo di Tremonti sembra tornato in corsa e con lui anche Bini Smaghi che dovrà lasciare l’incarico alla Bce. A indicare il successore di Draghi è Berlusconi. E il cavaliere sembrava aver scelto Saccomanni, anche contro Tremonti. Ma la lettera della Bce spariglia le carte rafforzando Tremonti e il vincente potrebbe essere proprio il suo uomo che, oltretutto, è abituato a nominare le persone più gradite al ministro dell’economia.

*****

Ugo Mattei
L’ARTICOLO
I buoni motivi per evitare il saccheggio
 
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l’università, un teatro pubblico o cerca di “vendersi” il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un’altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazione\liberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un’attività d’impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un’autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall’autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell’espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell’autorità pubblica (Stato) attraverso l’indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell’espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un’opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da “padroni” dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza. Purtroppo l’assuefazione alla logica del potere della maggioranza tipica della modernità ci ha fatto perdere consapevlezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività) per poterlo ben servire, ma deve esserne amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà fiduciaria) e certo non proprietario libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. Infatti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esistono più, né sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che si dovesse render conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo. Ecco che la questione dei beni comuni non può che avere valenza costituzionale (o costituente) proprio perché è nelle costituzioni che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica.
All’attuale condizione di inconsapevolezza politica diffusa e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (la rivoluzione reaganiana è stata possibile e poi diffusa in tutto il mondo esattamente accettando la logica del maggiordomo dissipatore e del popolo sovrano inconsapevole espropriato) è urgente opporre l’elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio e\o patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale). Ciò è tanto più urgente nella misura in cui il maggiordomo è oggi vittima del vizio capitale del gioco ed è conseguentemente piombato nelle mani degli usurai che paiono assai più forti di lui e che ne controllano ogni comportamento. Nella stragrande maggioranza delle realtà statuali (e l’Italia dal ’92 fa tutt’altro che eccezione) infatti il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa al di fuori da ogni controllo i beni comuni utilizzando come spiegazione naturale (e dunque politicamente in gran parte accettata) la necessità autoriproducentesi di ripagare i suoi debiti di gioco. Questa logica perversa che naturalizza uno stato di cose che è tuttavia frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità, deve essere smascherata perché i popoli sovrani possano riprendere controllo (ancorché forse tardivo) dei mezzi che consentono loro di vivere un’esistenza libera e dignitosa. Bisogna fra capire a Tremonti e Berlusconi, ma anche a quanti nella cosiddetta opposizione condividono questo realismo politico fatto di false necessità, che il popolo italiano non vuole vendersi il patrimonio per ripagare i debiti di gioco di una classe dirigente incapace e disonesta. Ci abbiamo provato con il referendum ma il maggiordomo vizioso, sorretto da un dispositivo ideologico incostituzionale sostenuto al più alto livello, non pare sentire ragioni. Non ci resta che insistere in tutti i modi possibili. Il 15 ottobre ci darà un’altra preziosa occasione di far sentire chiara e forte la voce del popolo saccheggiato: bisogna invertire la rotta.

*****

da Milano Finanza

 

Non c’è scelta, il piano Draghi-Trichet va attuato

Angelo De Mattia

Molte sono le considerazioni che si potrebbero svolgere sulla lettera che la Bce ha inviato al governo italiano il 5 agosto, che è poi la base della terza manovra correttiva promossa dell’esecutivo.

Intanto va osservato che, dopo tante richieste al governo di rendere pubblica la nota e dopo il diniego opposto, motivato con il carattere confidenziale della stessa, ecco che la lettera improvvisamente viene pubblicata dal Corriere della Sera. Altri si occuperanno di raccontare come il documento sia giunto al quotidiano milanese; qui ci limiteremo a rilevare l’efficacia dello scoop.

Diciamo subito che molti dei contenuti della missiva erano noti, ma non alcuni punti fondamentali: innanzitutto l’attacco. Correttamente la lettera informa che il Consiglio direttivo ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani; da ciò discendono i contenuti successivi. Ecco dunque il primum movens, che concerne la stretta competenza della Banca centrale, la quale si affianca all’altra funzione, quella di alta consulenza e di collaborazione, nel rispetto delle reciproche autonomie, ai governi dei Paesi membri dell’eurosistema. Di qui il tono forte – tra la moral suasion e le vibrate sollecitazioni – delle indicazioni; nonché l’urgenza, sottolineata, del compito che l’Italia ha di rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e di realizzare le riforme strutturali.

Segue una analitica indicazione delle misure per aumentare il potenziale di crescita – giustamente riportate per prime – che vanno dalle liberalizzazioni alla riforma del sistema di contrattazione collettiva, dalla normativa dei licenziamenti alla riforma del mercato del lavoro. Quindi viene espressa la necessità di ulteriori misure di correzione del bilancio.

L’esposizione è analitica e puntuale: si va dall’anticipo del calendario di attuazione delle misure del pacchetto del luglio scorso agli interventi in materia pensionistica e del pubblico impiego, dallo stretto controllo dell’indebitamento pubblico, al centro e nelle istituzioni territoriali, alla riforma costituzionale del bilancio, dall’efficienza amministrativa alle economie di scala nei servizi pubblici. E si collega alla premessa la conclusione, rimarcata, dell’urgenza di tutti i provvedimenti indicati, della necessità che essi siano adottati con decreto legge seguito da ratifica parlamentare il cui procedimento va concluso entro settembre, vista la gravità della situazione dei mercati.

A ben vedere, pur pienamente nei limiti delle attribuzioni della Bce e del sistema europeo di banche centrali, il documento si configura come un vero, organico piane di azione governativa. Un serio, efficace programma di governo che ci viene chiesto perché finora si è gravemente temporeggiato nel percorrere la strada a suo tempo indicata, ineludibile, data la richiamata situazione del mercato dei titoli pubblici. In sostanza, saremmo liberi di aderire o no alle dure sollecitazioni, ma se non Io facciamo è certo che si aggraverà la situazione e, allora, nessuno potrà più sostenerci: questo è il senso dell’intervento, queste sono le condizioni quando si è parte di un’area di integrazione economica e monetaria, questo è l’effetto del corretto assolvimento del mandato dell’istituto di Francoforte.

Altro che inalberarsi per la presunta ingerenza di quest’ultimo; altro che prendersela con le tecnocrazie europee. Ci sarebbe da dire a chi nel governo professa queste idee: agite diversamente allora, se ne siete capaci, e assumetevi la responsabilità dei danni che ne potranno derivare. Molte delle indicazioni della Bce non sono state ancora realizzate; diverse di queste sono in itinere. Ma il punto fondamentale è che queste misure vanno promosse contemporaneamente, pur con i tempi che esse possono richiedere per la loro. completa attuazione. La contestualità è cruciale per la loro efficacia e per la loro equità. Si recepisca finalmente la lezione fino in fondo.


*****


- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *