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La fine di un’era. I perché e la stampa borghese

Sul piano storico e politico, si sta chiudendo un’era. Quella segnata dal compromesso tra borghesia finanziaria e produttiva “normale” e settori oltre i limiti, sia legali che di coerenza con il mercato capitalistico. Le mafie ma non solo. La specificità italiana – che la rende molto più “levantina” che europea – è contraddistinta da una pluralità di figure sociali a metà strada. Intermediatori (immobiliari, ortofrutticoli, amministrativi, ecc), subappaltatori ben relazionati con “la politica” e le imprese delle “grandi opere”, fino alle strutture della malavita organizzata in holding multinazionali.

Quel compromesso viaggiava sulla disponibilità di un “grasso” reddituale che trasudava dalla spesa pubblica. Quelle figure garantivano clientelarmente la compravendita di un consenso sociale reale, fatto di scambio tra lavoro (o semplicemente reddito, sinecura) e pacchetti di voti. All’inizio della crisi il compromesso ha retto: si è cercato di far pagare i costi per intero ai ceti popolari. Lavoro dipendente, pensionati, diritto all’istruzione o alla salute, diritto a un contratto e a condizioni di lavoro negoziabili, sono finiti nel tritacarne tra grida di gioia confindustriali, tra ululati gaudenti dei commercianti (hanno meno “classe” dei padroni veri, ammettiamolo!), silenzioso assenso dei poteri oscuri.

Dopo quattro anni, però, la crisi non si risolve. I sacrifici umani richiesti al lavoro dipendente, ormai precarizzato integralmente (questo e non altro rappresenta l’art. 8 della manovra di settembre), sono immensi ma insufficienti per la dimensione delle voragini che si sono aperte.

Dunque, anche quel “grasso” prima elargito a piene mani va ridotto, ridimensionato. Possibilmente azzerato. Non è più utile alla “crescita”, anzi la zavorra. Non è più nemmeno tanto utile al consenso, perché anche nei clan clientelari la precarizzazione ha seminato scontenti, recriminazioni, timori.

Quel compromesso è saltato. Se c’è un’unica legge in città – quella della “lettera della Bce” – anche questa seconda “anomalia italiana” (oltre il ricordo di un movimento operaio e comunista capace di egemonia sociale) deve essere rimossa.

Berlusconi era il punto di sutura tra il mondo del capitalismo “presentabile” e “l’impresentabilità” di un affarismo maneggione che sottrae ricchezza invece di produrne. Berlusconi deve sparire, farsi da parte, meglio ancora se espatria.

Non è una liberazione. E’ un regolamento dei conti interno ai poteri. Trasuda fetore da qualsiasi parte lo si guardi. Ma bisogna guardarlo per evitare di scambiare il tramonto di un mondo ignobile per l’alba di uno migliore.

C’è da lottare, nei luoghi di lavoro, nelle piazze e nei territori, per creare il corpo sociale che possa realizzare quell’alba. Ci vuole tempo, tenacia e iniziativa. Il 15 ottobre è la prima tappa. Far cadere “in piazza” il caimano, invece che nella melina parlamentare, può dare un segno politico differente alla fase nuova che si va ad aprire. Niente è già scritto, tutto si decide nel conflitto reale.

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Detta la nostra, vediamo come affrontano “la lenta caduta” i giornali padronali.

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La galassia De Benedetti dà la linea al Pd. Tutto si riduce alle dimissioni di berlusconi. Per il governo successivo va bene quasi tutto, purché realizzi le “riforme” descritte nella “lettera della Bce”

Il dovere di dimettersi

di MASSIMO GIANNINI

LE ANIME candide, fuori dal Palazzo, potranno anche prendere per buona l’ultima menzogna spacciata a microfoni unificati da Berlusconi e Bossi. “È un problema tecnico risolvibile”, hanno detto i due fantasmatici rais dell’ormai ex maggioranza forzaleghista. Ma la sorprendente sconfitta numerica subita alla Camera sull’assestamento al bilancio è una sconfitta politica devastante, e forse definitiva, per quel che rimane del centrodestra.
Intanto, non è affatto detto che sia risolvibile dal punto di vista tecnico. Un governo che va avanti come se nulla fosse, dopo aver incassato il no del Parlamnto non su una legge qualsiasi, ma su un atto normativo di rilevanza costituzionale come il rendiconto di finanza pubblica, non si era mai visto. Ci sono solo un paio di precedenti, nella storia repubblicana, il più simile dei quali risale al governo Goria del 1988, che non a caso cadde subito dopo esser finito più volte in minoranza nel voto sulla Legge Finanziaria.
Ma è evidente a tutti, al di là della valenza tecnica e formale del caso, che quella che si è prodotta nell’assemblea di Montecitorio è una rottura politica e sostanziale. Probabilmente irreparabile, a dispetto della penose e consolatorie assicurazioni fornite dal Cavaliere e dal Senatur. C’è un momento, anche nell’anomalia assoluta del berlusconismo, nel quale le leggi della politica ritrovano una coerenza irriducibile. Nel quale le tensioni e i conflitti precipitano e convergono, tutti insieme, verso una conclusione inevitabile.

Questo è quel momento.
Si percepiva da mesi, ormai, il drammatico divorzio umano (prima ancora che politico) tra il presidente del Consiglio e il suo ministro del Tesoro, trasfigurato nell’odioso Ghino di Tacco di una coalizione affamata dai tagli lineari e assetata di denaro pubblico da spendere. Si vedeva da settimane, ormai, il lento ma inequivoco sfilacciamento di un Pdl ridotto a un ectoplasma, sotto la guida incerta e inconsistente di un Alfano che nasce come segretario del capo e non certo del partito, e che non può e non sa fronteggiare le correnti, coordinare le fazioni, dominare i cacicchi.
Si temeva da giorni, ormai, il fatidico “incidente di percorso”, in Parlamento e fuori, che faceva tremare il “cerchio magico” del premier, disperato e assediato nel suo bunker. Palazzo Grazioli come il Palazzo d’Inverno. Alla Camera, a far mancare i voti che servivano, tra gli altri sono stati proprio Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Claudio Scajola.
Tutto questo non può essere solo un caso. Non può essere un caso, se il vecchio Senatur ritarda l’ingresso in aula, confuso per la lesa maestà padana e stordito dall’inedita e inaudita vandea leghista che lo vede per la prima volta contestato dalla sua base. Non può essere un caso, se il superministro dell’Economia diserta un appuntamento in cui si discute e si vota un provvedimento-chiave di cui lui stesso è titolare. E non può essere un caso, se l’ex ministro dello Sviluppo si eclissa poche ore dopo un “pranzo tra amici”, come lui stesso ha definito quello che ha da poco consumato insieme al Cavaliere. Forse non c’è complotto. Non ancora, almeno.
Ma nel disastrato esercito berlusconiano risuona forte e chiaro il “rompete le righe”. Quello che succede è la dimostrazione pratica di ciò che era evidente già da più di un anno: un governo non sta in piedi, con la sola forza inerziale dell’aritmetica. Se non c’è la spinta della politica, con la quale far muovere la “macchina”, un governo prima o poi cade. E questa spinta, ammesso che ci sia mai stata, manca palesemente. Almeno dal 14 dicembre 2010.
Si può senz’altro dire che Gianfranco Fini ha sbagliato i suoi calcoli. Che allora la spallata futurista non è riuscita. Che il Cavaliere ha resistito e oggi il presidente della Camera esprime un potenziale elettorale modesto, intorno al 3-4%. È tutto vero. Ma è altrettanto vero che da quel giorno, dalla scissione degli ex di An dal Pdl, la maggioranza è “clinicamente” morta.
Da allora nulla è stato più prodotto, nella residua ridotta verde-azzurra di B&B, Berlusconi & Bossi. Non una riforma strutturale, non una legge qualificante. La stessa maxi-manovra estiva nasce dalla “gestione commissariale” del Colle e di Via Nazionale (cioè dalle pressioni di Napolitano e Draghi) e non certo dall’azione materiale di Arcore o di Via XX Settembre.
Si è ironizzato a lungo, sulle “self-fulfilling prophecies” di quelli che annunciano da mesi e mesi la caduta imminente del re nudo, e sulle speculari doti di resistenza del medesimo. Ma alla fine, anche nel Paese di Berluscolandia, la realtà si impone sulla propaganda.
La realtà, oggi, dice che il presidente del Consiglio deve recarsi al Quirinale, e rassegnare le sue dimissioni: sarebbe impensabile derubricare quello che è accaduto come un banale inciampo procedurale, mentre è un vulnus politico di gravità eccezionale. La realtà, oggi, dice che non sono ammissibili trucchi da illusionista o bizantinismi da leguleio, tipo Consiglio dei ministri che riapprova l’aggiornamento al bilancio pubblico e lo fa rivotare dal Senato: sarebbe uno strappo inaccettabile alle regole e uno schiaffo intollerabile al Parlamento.
La realtà, oggi, dice che il presidente della Repubblica, se com’è giusto non interverrà proditoriamente per interrompere questa nefasta avventura di governo, com’è altrettanto giusto non interverrà artificiosamente per prolungarla. Berlusconi e Bossi, dopo quello che è accaduto, non esistono più. Sono “anime morte”, come quelle di Gogol.

 

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Il Corriere della Sera, il cui cda è da sempre una camera di compensazione tra varie aree di potere (qualcuno che li conosce da vicino dice che “sembrano l’anonima sequestri”), si colloca sulla stessa linea. Con un po’ più di aplomb e meno animo da ultrà (in fondo hanno sostenuto Berluska fino all’altroieri!).

 

L’implosione

Il tonfo è stato imprevisto. Ma i contraccolpi a catena confermano che la situazione della maggioranza è compromessa da tempo. Le trincee scavate negli ultimi giorni da Silvio Berlusconi per resistere si sono polverizzate al primo colpo venuto, si badi bene, dall’interno del centrodestra e non dai suoi avversari. Adesso, niente intercettazioni e niente condono, annuncia la Lega: i due ganci ai quali il presidente del Consiglio si aggrappava per blindarsi e rilanciare sono dunque caduti. Non è detto che si vada alla crisi, nonostante la richiesta legittima delle opposizioni. Ma esiste il rischio concreto di una paralisi istituzionale.

Non sarà facile rimediare alla bocciatura in Parlamento della legge sul Rendiconto generale dello Stato. Il tentativo di riformularla e approvarla quanto prima dopo che ieri è stata respinta per un voto e per le assenze di ministri e parlamentari di Pdl e Carroccio, è disperato; e la tesi dell’incidente e non del complotto suona verosimile. Ma per paradosso questa è un’aggravante, non un’attenuante: significa che una crisi può «accadere» in ogni momento, e portare perfino al voto anticipato. Né Berlusconi, né Umberto Bossi hanno capito la posta in gioco; e comunque, non sono stati in grado di controllare le proprie truppe parlamentari. Non bastasse, un intoppo del genere non ha precedenti.

Si annuncia così un groviglio giuridico che risucchierà il centrodestra in un labirinto di norme, in apparenza senza uscita. Come minimo, il governo dovrà verificare se gode ancora della fiducia del Parlamento. Ed è stato sconfitto proprio nel momento in cui Berlusconi tenta di accreditare un Esecutivo solido, capace di arrivare al 2013: una coalizione senza alternative, continua a ripetere e a far dire agli alleati. Ma riletta sullo sfondo di quanto è successo, questa verità minaccia di essere un ulteriore handicap per un’Italia sorvegliata speciale dell’Europa e dei mercati finanziari. Il segnale trasmesso ieri è di precarietà e incertezza: l’habitat naturale degli attacchi speculativi, e un contributo a corrodere la credibilità residua della maggioranza.

È questo contesto sfilacciato a conferire all’incidente dimensioni destabilizzanti. La Lega che annuncia il «no» alla legge sulle intercettazioni e boccia il condono, smonta l’ottimismo d’ufficio del premier. Se anche si riuscirà a venire a capo del pasticcio creatosi col capitombolo parlamentare di ieri, cosa tutt’altro che sicura, rimane intatta la questione politica: una maggioranza inutilmente straripante di numeri. Il suo guaio continua ad essere quello di credere ad una realtà virtuale scissa dal logoramento, quasi dalla macerazione che la coalizione berlusconiana sta soffrendo. Ormai è evidente che la sua implosione è più rapida e devastante di qualunque complotto. Eppure, il premier si ostina pericolosamente a ignorarla.

Massimo Franco

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Il Sole 24 Ore è l’organo ufficiale di Confindustria. Oltre all’aplomb, ci deve obbligatoriamente mettere quel senso di urgenza che trapela sia dalle dichiarazioni della Marcegagli che dalle dichiarazioni di Jean-Claude Trichet.

Un cerotto adesso non basta

di Stefano Folli

Non era mai accaduto, a memoria, che il Rendiconto generale dello Stato, ossia il bilancio consuntivo, fosse bocciato dal Parlamento. Ieri l’articolo 1 è caduto per un voto, in un contesto clamoroso e carico di simbologie: il premier che ha appena votato, evento raro per lui; il ministro dell’Economia che invece resta fuori dell’aula; Umberto Bossi, stampella ufficiale dell’esecutivo, che non fa in tempo ad arrivare; altri assenti che invece sono da annoverare fra i nemici di Tremonti e della Lega.

Da tempo ci si chiedeva quando e come sarebbe risuonato il colpo di pistola di Sarajevo; ossia quando si sarebbe verificato l’episodio in grado di far saltare i consunti equilibri della legislatura. Ora la domanda è: il voto mancato di ieri sera è la pistola di Sarajevo per il governo Berlusconi? Forse non lo è, se dallo smacco ci si aspetta che derivino le dimissioni automatiche e immediate di Berlusconi, come ovviamente reclama l’opposizione e come sostengono alcuni costituzionalisti (e così senza dubbio sarebbe avvenuto ai tempi della Prima Repubblica). Ma quel segnale può essere qualcosa di altrettanto grave: la prova dirompente e definitiva che la maggioranza è a pezzi, priva di nerbo e incapace di tenere la rotta.

In altre parole, si è aperta una seria e profonda questione politica nella coalizione Pdl-Lega. E si è aperta su un tema di straordinaria delicatezza istituzionale, perché il Rendiconto regge l’impianto della stabilità economica. Il fatto che Tremonti e Bossi – ma anche Scajola – fossero nei paraggi dell’emiciclo ma non abbiano votato, sia pure per distrazione, sfortuna o altre ragioni, ha un significato. Il fatto che l’incidente arrivi dopo le furiose polemiche sul condono fiscale e sulle risorse che non si trovano da dedicare allo sviluppo, ha pure un significato. La frattura è evidente.

Ha molto a che vedere con la leadership sempre più debole e confusa di Berlusconi, con il crescente malessere della coalizione, con la paura di una prossima disfatta elettorale. Ma c’entrano soprattutto i nodi irrisolti: dalla Banca d’Italia alla politica economica, sullo sfondo dell’ossessione giudiziaria che assorbe più che mai le residue energie del presidente del Consiglio.

Ci sono tutte, ma proprio tutte le premesse per una crisi di governo e per un successivo processo di chiarimento. A costo di passare per un altro esecutivo di fine legislatura ovvero per lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni come succede in tutte le democrazie. In questo senso, è vero: il voto di Montecitorio può essere paragonato al colpo di Sarajevo. E in ogni caso nessuno può sottovalutarne la drammaticità e le conseguenze politiche a breve termine.

Dire che si tratta solo di «un problema di numeri», come sostengono alcuni esponenti del centrodestra, vuol dire non voler comprendere la portata politica dell’episodio e chiudere gli occhi davanti alla realtà avversa. Naturalmente Berlusconi e i suoi tenteranno di restaurare l’ingessatura della maggioranza: magari con un maxi-emendamento volto a recuperare l’articolo 1 e sul quale porre la questione di fiducia. Può darsi che abbiano sulla carta i voti per farlo, come è accaduto in passato. Ma non sarebbe una dimostrazione di vigore ritrovato: sarebbe, appunto, un’ingessatura.

La verità è che la maggioranza non ha più una spina dorsale politica. Pensare di risolvere la contraddizione con un «cerotto» fatto di numeri assemblati alla meno peggio, vuol dire aggirare per l’ennesima volta la sostanza dei problemi. Il che equivale a ritrovarsi nel pantano dopo pochi giorni, esposti a nuovi incidenti e a nuovi colpi di mano. A questo punto il buon senso vorrebbe che fosse il presidente del Consiglio in prima persona a proporre al capo dello Stato il chiarimento politico. Senza escludere l’apertura formale della crisi che permetterebbe di affrontare le questioni irrisolte: quelle politiche e quelle di merito. Viceversa, gli espedienti parlamentari possono aiutare a incollare i cocci della maggioranza. Ma difficilmente sarebbero in grado di curarne i malanni di fondo.

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La Stampa – nonostante l’uscita del suo editore da Confindustria – non si colloca affatto su un altro fronte. Ma con molta cautela…

Non è stato soltanto un infortunio

Marcello Sorgi

Malgrado i ripetuti tentativi di Berlusconi e del Pdl di minimizzare la bocciatura ricevuta ieri dalla Camera, la gravità di quanto è accaduto è evidente. Per il governo, l’approvazione ogni anno del rendiconto e del bilancio dello Stato non è una facoltà: è un obbligo preciso, stabilito dall’articolo 81 della Costituzione.

Non a caso nei due precedenti riaffiorati dalle memorie parlamentari, i presidenti del Consiglio che incorsero in simili incidenti – Andreotti e Goria – si dimisero senza indugi.

Berlusconi invece, pur visibilmente contrariato dall’accaduto (lo si è visto in tv lasciare l’aula di Montecitorio guardando gelido Tremonti e brandendo i fogli dei tabulati delle assenze), ha subito fatto sapere che intende ripresentarsi e chiedere la fiducia. Per dimostrare, come ha fatto altre volte, che solo di un infortunio s’è trattato, e non di un segnale politico dal profondo della pancia del centrodestra.

La giornata politica, in effetti, sembrava indirizzata in tutt’altra direzione. Un pranzo pacificatore a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e l’ex ministro Scajola sembrava aver sancito la tregua tra il premier e il capo della più temuta pattuglia di dissidenti del Pdl. La Camera e il Transatlantico erano affollati; ai banchi del governo, come nelle occasioni importanti, sedevano il presidente del Consiglio e i ministri, i cui voti sono indispensabili, data l’esiguità della maggioranza. La quale maggioranza, a dispetto delle previsioni, s’è liquefatta con ben 25 voti mancanti, 17 del Pdl tra cui quelli del ministro dell’Economia, pur presente, e del reduce dalla colazione pacificatrice Scajola; di 7 dei Responsabili tra cui l’uomo-simbolo Scilipoti e l’aspirante ministro Pionati; più Bossi che non è arrivato in tempo a inserire la scheda nella postazione per la votazione elettronica.

Questo approssimativo elenco dei colpevoli basta già ad escludere una congiura, non foss’altro perché i congiurati solitamente agiscono nell’ombra, e, dato che il governo è andato sotto soltanto per un voto, sarebbe bastato che uno solo di quelli che erano lì per lavorare, e hanno preferito fare altro, si fosse ricordato di fare il proprio dovere.

Ma il fatto che non si sia trattato di un agguato, di una manovra, di un qualsiasi, anche irrazionale, disegno politico, com’erano appunto quelli dei franchi tiratori democristiani che riuscivano a far dimettere capi di governo del calibro di Andreotti, non è affatto una consolazione. O almeno non dovrebbe esserlo, né diventarlo.

In questo senso, davvero non si capisce come possa Berlusconi ridimensionare l’accaduto e annunciare «d’intesa con il Capo dello Stato», prima ancora di andare al Quirinale per consultarlo, che ripresenterà il testo bocciato e lo farà approvare con la fiducia. Magari ci riuscirà pure, sempre che Napolitano non consigli un chiarimento parlamentare più approfondito. Ma un governo che non riesce ad andare avanti nel normale iter dei lavori parlamentari, e deve continuamente ricorrere al voto palese per convincere i parlamentari a rigare diritto, non va molto lontano.

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