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15 ottobre. Una rivolta mondiale

 

Indietro non si torna, non si può tornare. La direzione del Tempo e della Storia è soltanto in avanti.
Di questa consapevolezza è fatta la mobilitazione che è partita ora e non finirà dopodomani. Non si tratta di “fare una giornata di lotta”, ma di innescare un processo globale capace di cambiare segno alla “gestione della crisi” fatta finora. Ci vorrà tempo, pazienza e determinazione. Ma non ci sono scorciatoie (per quanto alcuni “pifferai” cerchino di disegnarne alcune). Questo mondo è arrivato al dunque. O riusciamo a fargli prendere una strada razionale, gestibile, compatibile con gli esseri umani e il pianeta, o sarà di nuovo la guerra di tutti contro tutti: tra continenti, nazioni, figure sociali sparse.

“Socialismo o barbarie”, si diceva qualche decennio fa. Se siamo ancora a questa alternativa, dopo un trentennio di liberismo trionfante, “pentitismo di sinistra”, crollo del “socialismo reale”, quasi azzeramento dei diritti e del peso politico del lavoro, ecc, ci deve essere una ragione forte, strutturale, immanente al meccanismo dell’accumulazione. E fa valere questa forza al di là delle chiacchiere ideologiche, dei “desideri” e persino degli interessi delle classi che fin qui hanno più guadagnato da modello di sviluppo esistente.

E’ la fine di un’era geologica, non una crisi passeggera. C’è sempre più gente che “avverte” la dimensione di quel che si è messo in moto. E anche nei media mainstream questa sensazione comincia a farsi strada…

 

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Robert Reich
La sinistra necessaria

Riusciranno gli Occupanti di Wall Street a trasformarsi in un movimento che abbia sul Partito democratico lo stesso impatto che il Tea Party ha avuto sul Gop (Grand Old Party, cioè i repubblicani, ndt)? C’è da dubitarne.
I Tea Parties sono stati a doppio taglio per la dirigenza del Gop – fonte di nuova energia e nuovi militanti ma anche un handicap quanto a capacità di attrarre il voto degli indipendenti. E l’ostacolo diventerà sempre più chiaro quanto più sarà duro lo scontro tra i due maggiori candidati alle primarie repubblicane, Rick Perry e Mitt Romney.
Finora gli «Occupanti di Wall street» hanno aiutato i democratici. La loro rivendicazione primaria che i ricchi si addossino la loro parte di sacrifici sembra su misura per il nuovo disegno di legge dei democratici per una tassa del 5,6% sui milionari, come anche per la spinta del presidente Barack Obama a revocare il taglio delle tasse voluto da George Bush jr. per i redditi superiori ai 250.000 dollari e per limitare le deduzioni sui redditi alti.
E gli Occupanti offrono al presidente un potenziale argomento per la campagna: «Di questi tempi un sacco di gente che sta facendo le cose giuste non è ricompensata e invece è ricompensata un sacco di gente che fa le cose sbagliate» ha detto nella sua conferenza stampa la settimana scorsa, quando ha predetto che la frustrazione che anima gli Occupanti «si esprimerà politicamente nel 2012 e oltre, finché la gente non sentirà che stiamo tornando ad alcuni valori della vecchia America».
Ma se Occupare Wall street si struttura in qualcosa che somiglia a un vero movimento, allora il Partito democratico potrebbe trovare più difficoltà a digerirlo di quante ne abbia avute il Gop col Tea Party.
Dopo tutto, una bella fetta dei fondi elettorali di entrambi i partiti viene da Wall street e dalle sale dei consigli d’amministrazione. Wall street e l’America delle corporations dispongono di nugoli di pr (public-relations) e di eserciti di lobbisti per fare pressione, per non parlare delle inesauribili tasche dei fratelli Koch o di Dick Armey e dei SuperPac di Karl Rove. Anche se gli Occupanti possono accedere a un po’ di denaro sindacale, non c’è partita.
Ma la vera difficoltà giace ancora più a fondo. Un po’ di storia può aiutare.
Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusava le grandi concentrazioni industriali dell’epoca di soffocare l’economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare «una crociata contro i poteri che ci hanno governato… hanno limitato il nostro sviluppo… hanno determinato le nostre vite… ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento». La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che «una seconda lotta di liberazione».
Wilson fu all’altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare «pratiche e azioni scorrette nel commercio» e creò la prima tassa nazionale sui redditi.
Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un’alta aliquota di tassazione sui ricchi.
Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i «monarchici dell’economia» che avevano ridotto l’intera società al proprio servizio: «Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro … tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale». In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che «la sopravvivenza della democrazia». Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: «mai prima d’ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell’odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio».
Però già nel 1960 i democratici avevano lasciato perdere il populismo. Dalle loro campagne presidenziali erano scomparsi i racconti di avidi imprenditori e spregiudicati finanzieri. In parte perché l’economia era profondamente cambiata. La prosperità del dopoguerra aveva fatto crescere la middle class (che negli Usa comprende il proletariato, ndt) e aveva ridotto il divario tra ricchi e poveri. Dalla metà degli anni ’50 un terzo di tutti i dipendenti del settore privato erano sindacalizzati e gli operai avevano ottenuto aumenti generosi e nuovi benefits.
A quel punto il keynesismo era stato largamente accettato come antidoto alle crisi economiche, sostituendo la gestione della domanda aggregata all’antagonismo di classe. Persino Richard Nixon dichiarava «ora siamo tutti keynesiani». Chi aveva bisogno di populismo economico quando la politica fiscale e monetaria appianava i cicli economici e quando i dividendi della crescita erano distribuiti in modo così ampio?
Ma c’era un’altra ragione per il crescente disagio dei democratici rispetto al populismo. La guerra del Vietnam generava una nuova sinistra anti-establishment e anti-autoritaria che diffidava dello stato almeno tanto – se non di più – di quanto diffidasse di Wall street e della grande impresa. La vittoria elettorale di Richard Nixon nel 1968 fu accompagnata da una profonda frattura tra democratici liberal e New Left che continuò per decenni.
Ed ecco Ronald Reagan, il grande affabulatore, che saltò nella breccia populista. Se non fu Reagan a inventare il populismo di destra in America, per lo meno gli dette la sua voce più stentorea. «Lo stato non è la soluzione, è il problema» intonava come un ritornello. Secondo Reagan, erano i faccendieri di Washington e gli arroganti burocrati a soffocare l’economia e a impastoiare la realizzazione individuale.
Il partito democratico non ha mai riassunto le sue posizioni populiste. Certo, nel 1992 Bill Clinton vinse la presidenza promettendo di «battersi per la trascurata middle class» contro le forze dell’«avidità», ma Clinton ereditava da Reagan e George Bush senior un deficit di bilancio così colossale che non poté mettere in campo granché per la sua battaglia. Dopo aver perso la sua lotta per la riforma sanitaria, Clinton stesso annunciò che l’era del big government (il grande stato) era finita e lo dimostrò annientando il welfare state.
Non sono stati i democratici a scatenare una guerra di classe che fu invece il risultato distintivo del populismo repubblicano di estrema destra. Tutti ricordano la pubblicità repubblicana nella presidenziale del 2004 che descriveva i democratici come «tassatori, scialacquatori di fondi pubblici, bevitori di cappuccino italiano, mangiatori di sushi, guidatori di Volvo, lettori del New York Times, trafitti di piercing, amanti di Hollywood».
I repubblicani attaccarono più volte John Kerry come un «liberal del Massachusetts» membro del «set del Chardonnay e del Brie». George W. Bush sfotté Kerry perché trovava ogni giorno una «nuova nuance» sulla guerra in Iraq, con l’accento su nuance per sottolineare l’elitismo culturale francese di Kerry. «In Texas noi non nuance» diceva per raccogliere risate e applausi. Il leader repubblicano Tom DeLay apriva i suoi discorsi elettorali dicendo «Buongiorno, o, come direbbe Kerry, Bonjour».
Il Tea Party è saltato su questo tema classista. Alla Conferenza della Conservative Political Action del 2010, il governatore del Minnesota Tom Pawlenty attaccò «le élites» che credono che i Tea Partiers siano rozzi solo perché «non hanno frequentato le scuole dell’Ivy League e non si ostentano in ricevimenti a base di Chablis e di Brie a San Francisco». Dopo che suo figlio Rand Paul è stato eletto al senato per il Kentucky, il maggio scorso Ron Paul ha spiegato che gli elettori vogliono «liberarsi della gente di potere che guida lo show, la gente che pensa di essere al di sopra di tutti».
Il che ci porta al presente. Barack Obama è molte cose, ma è lontano dal populismo di estrema sinistra più di ogni presidente democratico della storia moderna. È vero: una volta ebbe la temerarietà di rimproverare «i gattoni» di Wall street, ma quella frase fu un’eccezione – che poi gli ha causato problemi senza fine con Wall street.
Al contrario, Obama è stato straordinariamente sollecito verso Wall street e la grande impresa, nominando Timothy Geithner segretario del Tesoro e ambasciatore di fatto di Wall street alla Casa bianca; facendo sì che fosse confermato Bem Bernanke, scelto presidente della Federal Reserve da Bush, e scegliendo il presidente della General Electrics Jeffrey Immelt per guidare il suo Consiglio del lavoro.
La dice ancora più lunga la non volontà del presidente Obama di mettere condizioni al salvataggio di Wall street – non chiedendo per esempio che le banche rinegoziassero i mutui dei proprietari di case in difficoltà o accettassero il ripristino del Glass-Steagall Act (del 1933 che separava nettamente tra banche di deposito e banche d’investimento), come condizioni per ricevere centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti – cosa che ha contribuito alla nuova ondata populista.
Il salvataggio di Wall street ha alimentato il Tea Party e di certo alimenta alcune delle attuali accuse da parte di Occupy Wall street.
Ciò non vuol dire che gli Occupanti non potranno avere un impatto sui democratici. Niente di buono succede a Washington – indipendentemente da quanto buoni siano il nostro presidente o i nostri deputati – finché la gente giusta non si aggrega fuori Washington per farlo succedere. La pressione da sinistra è di un’importanza decisiva.
Ma è assai improbabile che il moderno Partito democratico abbracci il populismo di sinistra nel modo in cui il Gop ha abbracciato – o meglio, è stato costretto ad abbracciare – il populismo di destra. Basta seguire il denaro, e ricordare la storia.
* Economista, Robert Reich è stato ministro del lavoro durante la prima presidenza Clinton. Ora è professore a Berkeley (California). Quest’articolo è ripreso dal sito www.alternet.org.

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Daniele Salvini – NEW YORK
Occupy Wall Street
A Liberty Park funziona così
Occupy Wall StreetI media siamo noi. Con internet e video, un esempio di citizen journalism Come cresce e si organizza il movimento. Tutto è iniziato dall’appello della rivista «Adbusters». Poi la protesta davanti alla Borsa di New York, la repressione della polizia, l’occupazione del parco Le assemblee sono orizzontali, autonome e senza leader, basate sul consenso

All’origine di tutto la proposta della rivista canadese Adbusters che auspicava la nascita di una protesta popolare che si opponesse allo status quo: le lobby economiche che dettano legge alla politica. Da qui è germogliato e sta crescendo Occupy Wall Street, il movimento che dal 17 settembre ha pacificamente occupato la borsa di New York e che unisce nell’azione le diverse voci dissidenti senza avere un leader ma solo portavoce.
Hanno raccolto l’eredità di Woody Guthrie, dei Wobblies, i sindacalisti anarchici d’inizio secolo scorso, del movimento non violento di Martin Luther King e di quello chic di Harvey Milk a San Francisco. Accampati nel Financial District, a due passi dallo stock exchange, leggono la Repubblica di Platone e Capitalismo e schizofrenia di Deleuze e Guattari, durante il giorno cantano e ballano.
Il mezzo e il messaggio
Usano i nuovi strumenti per comunicare e organizzarsi – Livestream, Facebook, Youtube – ma il social network preferito è Twitter, dove sia Naomi Klein che Michael Moore stanno facendo da cassa di risonanza. L’hashtag di partenza era #takewallstreet che si è poi trasformato in #occupywallstreet. E via via che la protesta si espande – in questo momento sono 72 le città negli Stati uniti interessate – compaiono i nuovi hashtag: occupywashington, occupychicago, fino all’hashtag collettivo #occupytogether. Esiste anche un Tweet che si riferisce delle condizioni climatiche a New York per informare gli occupanti delle previsioni del tempo.
Gli indignati anti Wall street danno molta importanza alla confezione del messaggio, la comunicazione è assai curata: esiste una infoline dedicata ai rapporti con la stampa, la qualità video delle riprese è spesso a livello professionale, i montaggi sono realizzati nella piazza. Una telecamera collegata a un computer portatile lancia in rete un segnale video in diretta, livestream.com/globalrevolution, che permette a chi è lontano di essere aggiornato in tempo reale sugli avvenimenti. Siamo davanti a un esperimento riuscito di citizen journalism. «Abbiamo 40mila persone collegate che seguono la diretta video e 5000 followers in tweeter – dice Brad dal media center montato al centro della piazza alberata e all’occorrenza protetto dalla pioggia con ombrelli – A quanto pare noi stiamo raccontando gli eventi meglio dei mainstream media».
Alcune regole
Il movimento si è dato poche ma fondamentali norme. I manifestanti non nascondono mai il volto alle telecamere, dichiarando che il loro obiettivo è fare arrivare il messaggio. Quando qualcuno viene arrestato grida forte il proprio nome mentre viene portato via in modo che il gruppo di supporto legale possa occuparsi del suo rilascio. Altra regola importante: le assemblee sono orizzontali, autonome e senza leader, basate sul metodo del consenso. Come per il funzionamento decentralizzato di Internet: consenso generico e codice funzionante, con un occhio alle modalità delle proteste che avvengono nel resto del mondo. Ogni giorno prima dell’assemblea generale vengono spiegati i gesti da utilizzare per comunicare: mani alzate che si muovono per esprimere consenso, braccia alzate incrociate per esprimere disaccordo. Sono i segnali che chiudono, accettando o rifiutandolo, ogni intervento. Una decisione viene presa solo quando c’è il consenso unanime.
Le loro richieste
Gli occupanti di Liberty plaza, così hanno ribattezzato il loro presidio, sono contro la corruzione che Wall Street rappresenta. Vogliono che la speculazione torni a essere un crimine, che le ricchezze del pianeta siano distribuite in maniera equa, non accettano il mondo imposto dalle banche, dai politici e dalla polizia. Chiedono una democrazia con tolleranza zero nei confronti della corruzione.
«Hanno preso le nostre case attraverso un processo di preclusione illegale, hanno perpetuato la disuguaglianza e la discriminazione sul posto di lavoro, hanno avvelenato la catena alimentare per negligenza, hanno venduto la nostra privacy come una merce», sono le parole contenute nella dichiarazione di occupazione della città di New York redatta dal movimento. Ma di fronte alla domanda «quali le vostre richieste specifiche?» la risposta è sembrata inizialmente vaga, tanto che Susan Sarandon ha ritenuto opportuno scendere in piazza per incitarli ad avere un messaggio chiaro e un piano fattibile. Non ci saranno richieste specifiche finché il movimento stesso non crescerà politicamente, hanno poi spiegato, la loro istanza è nella dimostrazione stessa e nel processo di democrazia diretta che avviene nella piazza.
Presidio a Zuccotti Park
I media sono in difficoltà cercando un nome per definirli, dall’Europa viene spontaneo chiamarli indignados, ma sarebbe più corretto definire il movimento «Global Revolution» o il «99 percento di noi». Sono gli attivisti di MoveOn, Adbuster, USDayofRage e Anonymous a cui si aggiungono i sindacati, i cittadini che hanno perso il lavoro, i militari di ritorno dalla guerra, gli studenti. Possono contare sul sostegno di star della musica, del cinema e della filosofia: dal rapper Kanye West, all’indie Jeff Magnum, leader dei Neutral Milk Hotel, da Susan Sarandon e fino al filosofo slavo Slavoj Zizek che in piazza pochi giorni fa ha regalato una sua lezione di democrazia.
Hanno scelto Zuccotti Park, all’angolo tra Broadway e Liberty Street, nelle immediate vicinanze della Borsa, per radunarsi. Il parco è privato e la polizia non avendone piena giurisdizione, in assenza di una richiesta del proprietario, non ha ritenuto di sgomberarli, limitandosi a togliere la corrente elettrica, spegnere i lampioni e rendere inutilizzabili le prese di corrente disponibili al pubblico di cui il piccolo parco è pieno. Il problema della mancanza di corrente è stato risolto con i generatori, il parco è ora una Taz e vede una presenza in crescita di un migliaio di persone che cucinano e si spartiscono i compiti, tra cui parlare con la stampa e rispondere alla domande dei passanti. C’è anche una libreria, la People’s Library, con testi di storia, letteratura e politica. Ci si divide in gruppi di lavoro per discutere: per parlare di arte e cultura si incontrano a mezzogiorno, il gruppo di lavoro per le relazioni col pubblico e con la stampa è alle 3 di pomeriggio, il gruppo di supporto medico alle 5. La colazione è alle 7.30 del mattino, la riunione degli occupanti alle 10, la cena alle 6 di sera, l’assemblea generale alle sette.
La protesta sta per entrare nella quarta settimana consecutiva e i dimostranti, che tengono il presidio giorno e notte, si preparano ai primi freddi. Sul sito nycga.net, dove si trovano gli aggiornamenti sull’assemblea generale, vengono elencate le richieste per le donazioni. La polizia non permette le tende, la cosa di cui c’è più bisogno sono sacchi a pelo da montagna.

da “il manifesto” del 13 ottobre 2011
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da La Stampa

Napoli: “Noi, studenti per forza o per passione sappiamo che non lavoreremo mai”

ANTONIO SALVATI

NAPOLI
Un piatto di spaghetti col pomodoro non si nega a nessuno. Neanche all’ambulante senegalese che timidamente si avvicina al banchetto allestito davanti alla sede napoletana della Banca d’Italia.

I «Draghi ribelli» napoletani si concedono una pausa dopo aver marciato, cantato e occupato (pacificamente) la vicina sede della Banca nazionale del lavoro. Il menù è vario: oltre agli spaghetti col pomodoro, va forte l’abbinata mortadella e pane casereccio, e non è da sottovalutare il buon vino rosso distribuito con occhio attento da una delle mamme di Chiaiano, il gruppo che ha contestato, e continua a farlo, l’utilizzo in tempo di emergenza rifiuti della discarica sorta al centro della città.

Diego ha trent’anni e studia filosofia alla Federico II. «Lo faccio per passione, tanto so che non lavorerò con la mia laurea – spiega – ma non è accettabile vivere in un Paese che ti considera un parassita se scegli di studiare». Racconta che d’estate si arrangia vendendo libri su una bancarella ad Ischia e che per pagare gli studi si barcamena nell’universo dei lavori a nero. «Sentimenti? Siamo passati da arrabbiati ad incazzati e poi ad indignati. Ormai abbiamo attraversato tutte le fasi. Le mie emozioni? No, quelle me le hanno tolte», conclude. In attesa del comizio pomeridiano in piazza Dante, qualcuno improvvisa una partita a pallone. Emiliano ha in mano mezzo bicchiere di vino. Dimostra dieci anni in meno dei quaranta che dichiara con una punta di malinconia. «Sono un operatore sociale», si presenta, poi aggiunge: «Precario naturalmente». È tornato a vivere in provincia di Caserta da dove era partito per stabilirsi a Napoli e lavorare al progetto Sprar, una rete di enti locali in grado di fornire assistenza integrata agli immigrati che chiedono asilo politico. Doveva essere un lavoro sicuro, visto che l’85% dei fondi venivano stanziati dal ministero dell’Interno. «Eppure ho dovuto rinunciare quando le mensilità arretrate sono arrivate a quota 32». Oltre quarantamila euro da incassare che in seguito ad un accordo sancito davanti ad un giudice del lavoro diventano 18 mila. «Alla fine ne ho ricevuti solo cinquemila», precisa. «Essere precario è una condizione esistenziale difficile, rinunciare al mio lavoro è stato un prezzo troppo caro da pagare».

Leandro guarda l’ora su un vecchio cellulare. «Fra poco devo andare a lavorare», dice alla fidanzata che è con lui a manifestare. Lo aspetta un ragazzo per una lezione privata. Il suo obiettivo è uno degli assegni di dottorato che la Federico II metterà in palio a breve. Laureato col massimo dei voti in Storia contemporanea, a 27 anni Leandro ha illustrato le sue ricerche sociali alle università di Pisa e di Roma. «Ma pagano, giustamente, solo le spese di viaggio. Il mio sogno? È studiare per tre anni a mille euro al mese. La crisi? Non è trasversale ma tocca sempre le stesse tasche». Quelle di chi ha allestito il banchetto ad esempio. Un cartello sulla tovaglia è un monito per chi fa capolino dalle finestre della Banca d’Italia: «Non contate su di noi, questi erano gli ultimi soldi rimasti».

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