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La piazza che non ti aspetti. I media ciechi o quasi

 

E’ chiarissimo che gli scontri sono stati innescati da “una minoranza” assoluta dei partecipanti; ma è chiaro anche che – con tutte le polemiche, anche molto aspre tra le parti organizzate del corteo e questa minoranza – i giovani  più “incazzados” non sono mai stati “fuori” o alieni venuti da Marte.

Questa è la prima differenza che avrebbe dovuto impedire a tutti di parlare di black blok. Ma il demone dell’omologazione si nasconde sempre nel linguaggio. Nello schieramento politico mediatico, immediatamente, si è materializzata la contrapposizione tra una destra che aveva necessità di identificare la totalità del corteo come “violento” e una sinistra (non più il Pd, quasi totalmente allineato su una linea di destra aperta) che al contrario si “sentiva” costretta a una presa di distanza tanto netta quanto forzata. Usando però categorie tutte difensive, che non lasciano presagire molto di buono per il futuro.

Si va insomma dal “proto-terroristi a Roma” a “un’aggressione al corteo”. La realtà, in questa contrapposizione retorica, scompare. Anzi, ci si impedisce di vederla.

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Andiamo perciò con ordine. “Il manifesto”, insieme a Liberazione, è stato il giornale che più aveva promosso questa manifestazione, nonostante alcune scivolate “poliziottesche” che evidenziavano una divisione politica interna alla redazione molto radicale.

Anche sul giornale di oggi questa divisione esce fuori, ovviamente mediata tra commento, racconto, analisi dei diversi giornalisti.

Apriamo dunque con Valentino Parlato cheprova a ragionare freddamente sull’accaduto e la soggettività sociale che rivela.

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Valentino Parlato
UNA NUOVA EPOCA

Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d’epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale – più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 – non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all’inizio di una nuova epoca.

Redazione. Il finale un po’ speranzoso e ottimistico non cancella affatto lo scatto di intelligenza, dio “fiuto” politico, di un anziano ma vivace giornalista fuori dal coro. Coglie il legame tra crisi, politiche praticate, dinamiche sociali (intuite, anche se ancora non indagate), forme dell’opposizione politica e fine della politica così come si continua ad atteggiare oggi.

Ancora megio va con l’articolo successivo, chiaramente firmato con uno psedonimo, che approfondisce l’analisi guardando dietro il gesto per cogliere le dinamiche.

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Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI
Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza

Hammett
Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un’estensione del 14 dicembre dell’anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c’è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» – riducendo drasticamente la spesa pubblica – stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca – giustamente – di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c’è un grande futuro. O forse non c’è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se – come potere – dico che ‘a causa della crisi’ non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che ‘la mediazione’ non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l’Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual’è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse…
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un’ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l’abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

Redazione. Qui “il problema” interno al blocco sociale antagonista viene tematizzato. Con un’avvertenza che vale per chiunque faccia politica o sindacato: non si può agire politicamente o socialmente sperando che “gli altri” non esistano. La realtà va compresa nel suo intero per poter pensare una strategia, delle tattiche, delle forme di conflitto.

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Gli idranti sulla folla pacifica, cariche e strane manovre a velocità folle dei blindati dei carabinieri Ma il corteo reagisce soprattutto contro gli «incappucciati». E prova a cacciarli via

L’apocalisse di San Giovanni
Roberto Ciccarelli – Eleonora Martini

ROMA

Eleonora Martini
ROMA
Piazza San Giovanni è un campo di battaglia, ed è nelle mani dei manifestanti. Alle sei del pomeriggio gli agenti di polizia, i carabinieri e la guardia di finanza sembrano nel pallone. Avanzano verso le fila più agguerrite dei rivoltosi, rispondono alla fitta sassaiola lanciando lacrimogeni ad altezza d’uomo e getti d’acqua con gli idranti, ma poi retrocedono velocemente, cambiano angolazione, si lasciano accerchiare. I caroselli delle camionette e dei furgoni lanciati a tutta velocità verso la folla hanno un raggio corto, piccole incursioni e poi di nuovo in ritirata. Giocano come al gatto col topo. Per ore. Solo dopo un’ora e mezza buona di guerriglia come non se ne vedeva da anni, parte la carica definitiva. Non si guardano più le spalle, serrano le fila, si dividono in plotoni, raggruppano i blindati, attaccano. E in pochi minuti disperdono i manifestanti che premevano da via Carlo Felice, annullano l’azione in fieri partita da via Appia, e riescono – malgrado una camionetta dei carabinieri incendiata sulla quale sono state ritrovate le scritte «Acab» e «Carlo Giuliani», e molte altre devastate – ad avere la meglio sulle centinaia di giovani e giovanissimi ribelli che dal primo pomeriggio e fino a sera hanno messo a ferro e fuoco la città. Perché non farlo subito? Ai cronisti, cui sfugge completamente il senso di una tale gestione delle forze di sicurezza in piazza, un ufficiale di polizia ammette: «Anche a noi, eravamo pronti ma ci sono stati ordini dall’alto».
Fonti della questura invece sostengono che la preoccupazione delle forze dell’ordine era salvaguardare il resto dei manifestanti e isolare i più agguerriti, cosa che di fatto poi è avvenuta. In qualche modo, però, accerchiati i «servi dello Stato» (l’epiteto più simpatico rivolto loro da chi per tutto il giorno ha usato slogan e nulla di più) lo erano davvero. Se da un lato l’intero corteo ha espresso tutta la sua rabbia contro chi era già pronto per la guerriglia – arrivando addirittura alle mani in più di un’occasione e quasi agli scontri, come è successo fin dalle quattro del pomeriggio all’incrocio tra via Labicana e via Merulana con lo scambio di insulti degenerato in lanci di pietre e bottiglie – altrettanto ferma era la contestazione riservata agli agenti. «Noi difendiamo i vostri figli – gli urlavano in faccia i manifestanti – e voi difendete gli sfruttatori». Due episodi, quasi contemporanei, descrivono questa doppia indignazione: da un lato un militante di Sel di 52 anni che ora rischia di perdere due dita di una mano per aver cercato in via Cavour di deviare una bomba carta lanciata contro i vigili del fuoco, dall’altro un pacifico manifestante gravemente ferito da un blindato delle forze dell’ordine lanciato contro la folla in Piazza San Giovanni.
Torniamo indietro. Poco prima delle due, dal corteo compatto era partita la prima incursione. Sono una decina, incappucciati e bardati, con una sventagliata di colpi squarciano come burro le vetrine del supermercato «Super-élite». È il segnale. Il sapore della giornata sarà acre e indigesto. A pochi metri, una smart e due Suv vanno in fiamme annerendo uno dei palazzi attigui al gran hotel Palatino «dove una stanza costa quanto una camera in affitto per un mese» qualcuno ha urlato dal microfono di un tir. Il sole battente, e un silenzio minaccioso, sembrano sospendere il tempo, mentre l’incursione di una pattuglia occupa la passeggiata archeologica e la basilica di Massenzio. Una volta entrati in via Labicana ricomincia la caccia. Prima un’agenzia di lavoro interinale, la Manpower, viene devastata. Un fumo denso e irrespirabile si alza. «Meno male che non s’è alzato – sospira un tabaccaio con lo sguardo perso nel vuoto – lì sopra c’è gente che c’abita». Poi tocca ad una caserma dei carabinieri. Un assalto furioso all’edificio che qualcuno sostiene sia da tempo in disuso. In pochi minuti, l’intero edificio va in fiamme. E dopo un paio d’ore l’incendio non domato in tempo sembra abbia fatto crollare il tetto. «Andiamo al parlamento – urla un ragazzo con un martello in mano – stiamo facendo il percorso di Alemanno». Al parlamento non ci arriverà, in compenso qualcun altro entra nella parrocchia di San Marcellino e si impossessa di una Madonna alta mezzo metro. La porta in strada e tra uno strattone e un altro la statua s’infrange sull’asfalto. La reazione sdegnata di un cinquantenne, calvo e in una buona forma, è irruenta. Prende il giovane iconoclasta per la collottola e lo sbatte su uno dei pali che reggono il display orario dei tram. Lo insulta vigorosamente, la statua e ai loro piedi in mille pezzi. I fotografi si scatenano, sembra una veglia. Nell’incursione è stato distrutto anche un crocefisso, un atto ritenuto «blasfemo» dall’associazionismo cattolico capitolino che hanno invitato anche a riflettere «sul clima di tensione che ha conquistato soprattutto i giovani». L’età media di questi giovani è sicuramente molto bassa, ragazzi di accenti e stazze diverse. Uno di loro, Janek, si racconta: ha finito la scuola da due anni, è arrivato sei anni fa con i genitori dalla Polonia, dice di non avere un lavoro. «Sono uno senza bandiera – usa un italiano limpido – è inutile che la gente protesta, l’Europa fallirà tra un anno e seguirà il destino della Grecia, che è già fallita anche se nessuno lo dice. Anche in questo paese non rimarrà niente e noi non avremo mai niente». La sua personale ricostruzione termina con un’invettiva contro le banche «pagate dallo Stato».
A sera, quando si contano dieci feriti tra i poliziotti e almeno 70 tra i manifestanti di cui tre molto gravi, quattro persone arrestate definite «anarco-insurrezionalisti», e a farne le spese è anche la sede del Pdl di Piazza Tuscolo, piazza San Giovanni è ridotta «come nemmeno piazza Tahrir» – parola di un giovane testimone di entrambe le rivolte. Mentre gli scontri riprendono in serata spostandosi verso piazza Vittorio, rastrellata vicolo per vicolo all’inseguimento di poche decine di persone rimaste isolate, e un ponteggio di via Merulana va in fiamme, centinaia di manifestanti affrontano invece a mani alzate i cordoni di polizia e carabinieri per fermare l’ultima carica, si siedono a terra e il diverbio diventa quasi un’assemblea: «Stanno sfruttando anche voi, toglietevi i caschi e manifestate con noi».

Redazione. Ecco l’anima “poliziotta” che dice la sua, nascondendosi tra la velleità di fare “pura cronaca” e l’impossibilità di farla con “spirito neutrale”. Un po’ di dietrologia sulle ragioni per cui la polizia avrebbe a lungo esitato o giocato “al gatto col topo”, un po’ di “colore nero” sulle “drammatiche” possibili conseguenze di questo o quel falò. Chi scrive odia i movimenti (per definizione un po’ “disordinati”), gli scappa dalla penna. E si sente. Ma che ci fa al “manifesto” una persona così?

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L’alternativa Rifiuto dei diktat di Draghi e Trichet, più risorse per scuola e cultura, il movimento parte da qui
La posta in gioco è una sola
L’opposizione sociale riempie le strade e parla di politica. Rispedisce al mittente la missiva della Banca centrale europea e l’articolo 8 della manovra Scontri e cariche non riducono il valore di una delle maggiori manifestazioni della storia di Roma

Loris Campetti
Cinquecento guastatori nerovestiti che scatenano la guerriglia in città non possono e non debbono far dimenticare la violenza di chi pretende di governare il mondo imponendo ai loro inservienti politici che fingono di governarlo regole antisociali, destinate a colpire le fasce più deboli e intere popolazioni in tutto il mondo. Sono vittime essi stessi, i cinquecento nerovestiti, di quella violenza globale, e reagiscono a modo loro. Né tre automobili e una ex caserma bruciati possono e debbono cancellare la determinazione e la rabbia di centinaia di migliaia di cittadine e cittadine che hanno invaso Roma a mani nude per dire che bisogna cambiare subito le regole, la politica – altro che l’antipolitica di cui in troppi cianciano – la società, la cultura. Quelli che la democrazia è partecipazione ma anche riappropriazione dei beni comuni sottratti.
Anche il futuro è sottratto, non ne possono più e vogliono riprenderselo in mano. Sono indignati, chi cercando lo scontro e riproponendo un rito stanco, nell’illusione di aggregare la rabbia di tutti, di quel 99% di cui parlano slogan e cartelli: quei cinquecento più altrettanti giovanissimi che sono riusciti a tirarsi dentro. Chi invece declinando la sua rabbia persino con ironia, come recitava un cartello divertente: «Io nun so’ indignato, me rode er culo». L’opposizione sociale c’è e si vede, è fatta di mille pezzi, culture e storie diverse, di individui e movimenti, uniti da una battaglia appena iniziata contro la dittatura della finanza che impoverisce la cultura, flagella scuole, ricerca e sapere, chiude fabbriche e teatri, tenta di scatenare una guerra orizzontale tra le vittime, nell’illusione di impedire il conflitto verticale dal basso verso l’alto, verso la cupola: la Bce, l’Fmi, il Wto. Ieri a Roma l’opposizione sociale si è ripresa la parola e la città, in scena è andato chi non sta al gioco perché ha capito che è un gioco truccato. L’ha talmente capito da resistere ai caroselli senza senso e pieni di provocazione della polizia con gli idranti in piazza San Giovanni e da espellere dal corteo chi con il suo agire rischia di frenare la crescita di un movimento che non vuol farsi fermare.
Per questo l’elemento unificante della protesta è il rifiuto della lettera della Bce, rispedita in massa al mittente. Ma ha preso corpo anche il rifiuto di quel maledetto articolo 8 della manovra di Berlusconi, Tremonti e Sacconi che si mangia quel che resta della democrazia nel lavoro. Lo sanno e lo ricordano a tutti gli operai della Fiom sfilando in tantissimi con le loro bandiere accresciute dall’orgoglio di Pomigliano; ma ai draghi ribelli, agli studenti e ai precari, al popolo di Uniti per l’alternativa non hanno neanche bisogno di ricordarglielo. Venerdì prossimo tornerà la protesta a Roma con i lavoratori della Fiat che a loro volta non devono spiegare a nessuno dei manifestanti di ieri che Berlusconi è un cancro da estirpare e la medicina non può essere Marchionne, che al modello antisociale liberista ha dato corpo. Non sfileranno da soli, gli operai della Fiat, come non protesteranno da soli gli studenti, il popolo NoTav, gli ambientalisti, gli attivisti dei beni comuni. Ieri a Roma è stato ufficializzato un fidanzamento che può durare a lungo, perché lunga sarà la battaglia per dar corpo a un’alternativa capace anche di farsi politica. La parte di sinistra politica che ieri ha partecipato al corteo dovrebbe aver preso molti appunti. Almeno è quel che sperano in tanti, quelli che di deleghe in bianco non sono più disposti a darne.
Ieri sera, mentre a piazza San Giovanni continuavano gli scontri, il centro di Roma era tutto un susseguirsi e incrociarsi di cortei. Ancora verso la piazza ormai impossibile, oppure su per via Merulana fino a ritornare al punto di partenza a piazza Esedra, oppure con la Fiom fino a piazza Vittorio, e ancora con gli studenti preceduti dal camion del Valle occupato dal Colosseo al Circo Massimo, infine con Uniti per l’alternativa da San Giovanni sempre verso il Circo Massimo. Tutti questi spezzoni gridavano la stessa cosa e avevano in mente un ordine diverso da quello che toglie i soldi alle scuole, ai salari, alla cultura, all’ambiente, alle pensioni per darli alle banche.
In questa partita è in gioco il modello sociale dato e quello che si vuole costruire. A Roma come in tutte le città del mondo in cui con lingue e accenti diversi si soffre della stessa spoliazione: della democrazia e insieme del pane. A Roma questo popolo generoso ha un problema specifico che si chiama Berlusconi e una nuova ferita inferta dall’ultima compravendita di voti in Parlamento. Due mondi opposti si animano davanti ai nostri occhi: in piazza la dignità di un popolo, nei Palazzi la vergogna di un ceto blindato autoreferenziale. Il primo mondo è maturo, ha imboccato la sua strada, il secondo è marcescente. In quale dei due mondi sta la politica? Non chiedetelo a chi dice che una grande manifestazione è stata rovinata da un gruppo di irresponsabili: non è vero, la grande manifestazione c’è stata e basta e non sarà certo l’ultima. La strada è lunga, c’è tempo per crescere, e per maturare.

Redazione. Più nella tradizione “manifesto”, invece, questo pezzo di Campetti che cerca di distinguere tra le parti del corteo (condannando il comportamento dei giovani che sono andati allo scontro, ma comprendendo che non sono “un altro mondo”), ma soprattutto di evidenziare le ragioni della protesta. E quindi le politiche di Bce e Ue, che stanno azzerando il modello sociale europeo e le possibilità di esercitare la mediazione sociale.

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Bersani: “Il movimento deve isolare i violenti”

di Simone Collini

 

Condanna le violenze «inaccettabili», ma sottolinea che il movimento «esprime nel profondo un’esigenza che la politica deve cogliere». Soprattutto Pier Luigi Bersani guarda alle «cose incredibili e vergognose» accadute a Roma e pone una questione precisa: «Com’è possibile che una banda di centinaia di delinquenti abbia potuto devastare, aggredire, incendiare e tenere in scacco per ore il centro di Roma?».

Il leader del Pd, reduce da una festa a Firenze per il quarto compleanno del partito, parla nelle ore in cui nella capitale si scatena l’inferno. «Questi provocatori colpiscono al cuore le ragioni di un movimento internazionale che vuole esprimere un disagio e una critica all’attuale assetto dell’economia mondiale».
Scene da guerriglia urbana e il messaggio degli “indignati” finito nell’ombra: una sconfitta per tutti, onorevole Bersani?
«No, se ogni protagonista del movimento che intenda esprimere pacificamente le sue idee isolerà chi ha compiuto queste violenze».

Sono istanze fondate quelle che pongono gli “indignati”?

«Questo movimento non ha una piattaforma ma istanze generali. Però criticando l’attuale assetto dell’economia mondiale, della finanza, dei privilegi e dei facili arricchimenti di pochi mentre tanti si impoverivano, esprime un’esigenza che la politica deve cogliere».

Difficile convincere questi ragazzi che la politica sia altro da quanto visto in Parlamento il giorno della fiducia, non crede?

«È chiaro che c’è una distanza stellare tra le esigenze espresse e la raffigurazione ordinaria di questa nostra politica. Quando abbiamo deciso, giustamente, di non accettare di assistere al 53esimo rito stanco di un uomo che vuole solo sopravvivere, abbiamo dato un segnale che non stiamo tutti nel mucchio, che c’è Berlusconi e ci sono gli italiani. Le due realtà non coincidono».

Berlusconi però ha ottenuto la fiducia e rimane al governo.

«I dati essenziali della giornata di venerdì sono altri. Il primo, i tempi si sono accorciati, perché la maggioranza perde pezzi ed è costretta a pagare cash in poltrone la propria sopravvivenza. Il secondo, Berlusconi è in campo, ferito, indebolito, totalmente paralizzato nell’azione di governo ma intenzionato ad avvitarsi ancora di più attorno al meccanismo padronale, personalistico, populistico che ha introdotto. Questo deve indurre a una riflessione tutte le forze di opposizione, che in questo passaggio hanno compiuto un passo avanti molto rilevante. Per la prima volta c’è stata una convergenza visibile di tutti coloro che si oppongono a questo governo».

Lei parla di passo avanti ma la proposta di un’alleanza tra progressisti e moderati sta in campo da mesi senza che si giunga a un vero accordo.

«La nostra proposta parla di un’esigenza di ricostruzione, oltre che dell’incontro tra progressisti e moderati. Il confronto non sarà solo tra un governo e un altro, ma tra l’idea di uomo solo al comando e l’idea di riforma della democrazia rappresentativa. Chi per calcoli o piccoli problemi avanza preclusioni pregiudiziali e vuole sottrarsi a questa scelta, poi deve spiegare come si fa a evitare che vinca Berlusconi e il berlusconismo».

Berlusconi potrebbe anche passare la mano nel tentativo di allargare ai centristi, non crede?

«Questa è un’illusione. Quando c’è un partito del predellino non ci può essere un successore, solo un paravento. Un padrone è un padrone. Il messaggio è chiaro per tutti. Questa destra non uscirà dal modello deformato della democrazia italiana in senso populista. E noi siamo alternativi al modello, non solo a Berlusconi. Noi vogliamo riformare la democrazia per rimetterla in condizione di decidere. È questo il terreno di incontro tra progressisti e moderati. È questa è la nostra proposta. Sta agli altri decidere».

Al prossimo incidente si va al voto, come dice Casini?

«Se c’è la possibilità di un passaggio con un governo autorevole, percepito così dal mondo, che affronti l’emergenza economica e consenta di fare una nuova legge elettorale, noi siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità. Se non è possibile questo, e effettivamente ora vedo minori spazi, si vada a votare».

È ipotizzabile che il Pd sacrifichi un alleato del centrosinistra pur di incassare il sì dell’Udc?

«Noi non escludiamo nessuno e lavoriamo per organizzare un centrosinistra credibile, dicendo però anche che abbiamo il diritto e il dovere di chiedere garanzie per la governabilità. Non su dei libroni, ma su quattro o cinque questioni delicate, a cominciare da politica internazionale, risanamento, lavoro. Dobbiamo capire se siamo d’accordo».

Come può escludere che in Parlamento si ripetano le divisioni dei tempi dell’Unione?

«Questa volta noi non ci staremo a ogni prezzo, questa volta va privilegiata la chiarezza e la serietà dell’operazione. E allora dovremo prevedere un meccanismo di garanzia, di stabilità della maggioranza parlamentare che ci impegni reciprocamente».

Pensa a un gruppo unico?

«Può anche esserci un patto tra gruppi diversi, purché si prevedano precisi vincoli di maggioranza».

Cosa risponde a Vendola e Di Pietro, che chiedono di svolgere le primarie per il candidato premier entro gennaio?

«Primo, che noi siamo il partito delle primarie e non possono tirarci per la giacca. Secondo, che scegliere una persona senza avere prima un programma e un’alleanza è un modello che non ci appartiene».

Lei parteciperà alle primarie?

«Io ci sono. Ma dico fin d’ora che non intendo nascondermi dietro un notaio, che non sarò il candidato del Pd perché lo dice lo Statuto. Un partito degno di questo nome, e noi lo siamo, fa una discussione e ha i meccanismi per decidere».

Farete le primarie del Pd prima di quelle di coalizione?

«Non è che possiamo fare due volte le primarie. Il partito ha i suoi organi interni e ha tutte le possibilità di prendere decisioni partecipate».

Pensa che dal convegno di Todi possa poi nascere un partito dei cattolici e che si candidi magari a guidare il centrodestra, come sostiene qualcuno?

«Mi pare un’idea con poco fondamento. E non capisco perché un simile partito dovrebbe essere collocato al centro, o addirittura nel centrodestra».

Non teme che diversi cattolici del Pd potrebbero essere tentati da altre offerte politiche?

«Guardiamo alla nostra offerta. Il Pd è un partito di credenti e non credenti che offre alle sensibilità religiose un’acuta attenzione al sociale e un umanesimo forte. Un partito che crede nella partecipazione, che chiede a tutti il riconoscimento del ruolo peculiare, di mediazione, della politica. E quindi un partito che tra credenti e non credenti si sente perfettamente a suo agio, nel perimetro segnato dalla Costituzione e dalla Gaudium et spes. Vogliamo avere una politica rispettosa del magistero della Chiesa, che deve intervenire nella discussione pubblica. E non tenteremo mai di arruolarla, come cercano di fare altri. Su singoli temi discuteremo. Ma questo è il nostro profilo».

Redazione. Fermo al Pci ann ’70, all’uso di categorie bempensanti che non funzionarono nemmeno allora ma oggi fanno pena. In realtà Bersani sta dando le indicazioni agli illusi alla sua “sinistra” che pensano di poter cavalcare un po’ di movimento per rastrellare voti in vista di una mega-alleanza elettorale. E dice: occhio che qua dovremo applicare il programma della Bce. Niente chiacchiere. Letale.

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da La Stampa

 

Perché succede solo qui

Ieri in 951 città di 82 Paesi del mondo sono scesi in piazza cittadini di ogni età, ma soprattutto giovani, per protestare contro un sistema economico che si preoccupa di salvare le banche prima dei cittadini. Sono i cosiddetti «Indignati», che hanno preso il nome dai manifestanti spagnoli che in primavera hanno occupato la Puerta del Sol a Madrid per denunciare la disoccupazione crescente, la precarietà dilagante e i privilegi della casta economica e di quella finanziaria.

La protesta ha fatto proseliti e in queste settimane i riflettori si sono concentrati a New York sugli «occupanti» di Zuccotti Park, una piazza poco lontana da Wall Street, dove è stato costruito un piccolo accampamento che intende contrapporre l’uomo della strada, che soffre la crisi, ai broker della Borsa che sono tornati a prendere bonus milionari. La mobilitazione americana non è mai sfuggita di mano e, di fronte alle accuse del sindaco di sporcare e deturpare, gli occupanti si sono messi al lavoro per lavare e pulire.

Poi ieri c’è stata la prova mondiale di un movimento che sta raccogliendo la comprensione di giornali, televisioni, comuni cittadini, politici e perfino di banchieri.
In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana.
Anche oggi ci tocca vergognarci.

Mentre a New York i ragazzi indossavano distintivi pacifisti ed erano armati solo di scope e spazzoloni per pulire, da noi indossavano caschi e erano armati di bombe carta.
La colonna sonora a Manhattan è quella del tamburino che suona i bonghi (e il dibattito tra le tende è se debba fermarsi dopo pranzo per non disturbare chi riposa nelle case vicine) o dei buddisti che pregano ripetendo «Om». L’odore è quello degli incensi di attempati figli dei fiori.

La nostra colonna sonora invece, come troppe volte nella storia italiana, è quella delle sirene dei blindati di polizia e carabinieri, dei rotori degli elicotteri che sorvolano gli scontri e delle esplosioni, mentre l’odore è quello acre dei lacrimogeni o del fumo delle auto incendiate.
Perché è accaduto a Roma, perché è accaduto solo da noi, perché alcune migliaia di ragazzi che volevano solo la guerriglia sono riusciti a prendere in ostaggio una città, un movimento nascente e a distruggere ogni possibilità di mobilitazione pacifica e fruttuosa?
Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?

Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs, che faceva uso di droghe ma le sue visioni erano futuristiche e non apocalittiche.

Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro. Per guarire dovremmo eliminarli dal vocabolario. Smettere di relativizzare la violenza perché, a seconda dei tempi, a giustificarla c’è il regime democristiano, quello berlusconiano, l’alta velocità o qualche riforma indigesta.

Milioni di italiani sono indignati dalla nostra classe politica, dalla lontananza che chi ci governa mostra verso i problemi reali dei cittadini, e dalla mancanza di investimenti sul futuro dei giovani. Ma non per questo pensano di scendere per strada a bruciare l’auto del vicino e non per questo sono meno indignati, arrabbiati o sfiniti. Di certo considerano quei manifestanti dei vandali e dei criminali, che non conoscono il valore del rispetto e non hanno mai faticato per guadagnarsi da vivere.

Ora la rabbia è grande, ma state sicuri che tra tre giorni quando le forze dell’ordine avranno identificato alcuni di questi ragazzi e un magistrato li indagherà, allora si alzeranno voci pronte a difenderli, a giustificarli e a mettere sul banco degli imputati giudici e poliziotti colpevoli di non capire e di essere troppo severi. Ma la democrazia si preserva difendendo la convivenza e il diritto delle migliaia che volevano manifestare pacificamente, non schiacciando l’occhio agli estremisti.

Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento. Ai giovani allora restano solo due possibilità: un atteggiamento di rassegnazione e di apatia che trova riscatto momentaneo solo nello sballo degli Happy Hour (le ore del lungo aperitivo che dal tramonto si trascina fino a notte fonda) o un atteggiamento di rottura. Perché se si dice che nulla si può costruire, allora non resta che la pulsione a sfasciare e distruggere.

Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano. Ce ne sono ben più di quanto si possa immaginare e molti erano in piazza ieri: li abbiamo visti battere le mani a polizia e carabinieri, li abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti piangere di rabbia. Ragazzi, il futuro è vostro se imparate subito a rifiutare la violenza, a non tollerarla mai, a isolare chi la predica e la mette in atto, a denunciarla il giorno prima e non quando ormai il corteo è partito. Il futuro esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da chi non crede in nulla.

Redazione. Il figlio del Commissario perde una decina di punti. Sotto la sua direzione La Stampa è parecchio migliorata, l’abbiamo detto spesso. Ora una caduta verticale di capacità di riflessione. La domanda “perché succede solo qui” dimentica i riot inglesi, un anno e mezzo di scontri in Grecia, le cariche di Madrid e Barcellona, gli arresti di New York. E’ una domanda per ottundere il pensiero di chi legge. Perché alla fine del piccolo giro di argomenti, le risposte sono solo due e bipartisan; succede solo qui perché c’è l’anomalia Berlusconi, oppure perché qui c’era il più grande movimento comunista dell’Occidente. Banale.

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Dal Sole 24 Ore

Giorno di battaglia per le strade di Roma

Di Marco Lodovico

Scene di guerriglia urbana, un nuovo G8 di Genova ma a Roma. E il morto non c’è stato quasi per miracolo. La manifestazione degli indignados, temuta da mesi al Viminale, si è trasformata in una battaglia estenuante in piazza San Giovanni, via Cavour, via Labicana e viale Manzoni tra forze di polizia e violenti di ogni genere.

Sono antagonisti, No tav, il cartello “Roma Bene Comune”, alcune centri sociali che accolgono frange eversive o quantomeno gente senza timori di scontrarsi. Il corteo che parte da piazza della Repubblica riempie forse 100mila persone: tanti, la gestione dell’ordine pubblico si fa così critica, quando si moltiplicano a vista d’occhio gli incappucciati, impropriamente definiti black bloc (di quelli veri non ce n’era neanche uno). Le prime devastazioni in un supermercato in via Cavour avvengono già un’ora e mezzo dall’inizio della sfilata. Poi è un crescendo minaccioso e incessante.

Macchine incendiate, la prima, la seconda, la terza. Arrivano la distruzione di bancomat e vetrine di filiali bancarie: era previsto, ma si sperava che non accadesse. L’aggressione arriva fin dentro le chiese, come quella di san Marcellino e Pietro, profanata con una statua della Madonna frantumata. Gli indignados pacifici si muovono a fatica e in poco tempo capiscono che la loro manifestazione è fallita, anzi finita. Sul palco e sotto i riflettori di tutto il mondo ci gli altri, con passamontagna, mazze, pietre, chiavi inglesi, martelli. Provano a isolarli, ma i violenti neanche se ne curano: sono ormai i protagonisti. E sono tanti.

Centinaia, come minimo. Fanno le loro scorribande per piazza San Giovanni, tentano di scagliare le transenne metalliche, estrarre cartelli stradali. Minacciano i mezzi delle forze di polizia, provano a scontrarsi.
La reazione decisa dalla Questura è misurata ma calcolata: cariche di alleggerimento, si cerca soprattutto di difendersi, di evitare a tutti i costi lo scontro fisico: sarebbe pericolosissimo. Gente per strada applaude agli uomini in divisa, persino quando decide di usare gli idranti.

Poi, alle 18.15, la scena più agghiacciante. Un centinaio di ragazzi armati di bastoni si avvicina a più riprese contro un gruppo di furgoni dei Carabinieri. I mezzi vanno indietro, avanzano e poi ancora arretrano. Ma uno di loro sbaglia manovra, è questione di attimi, si trova isolato. In pochi secondi è accerchiato da venti, trenta uomini che colpiscono il blindato: senza sosta, senza pietà, senza controllo. Chi può vedere in diretta le riprese filmate dall’elicottero della Polizia di Stato rimane atterrito. Da un momento all’altro può accadere il peggio. Torna in mente come un incubo a scena del G8 di Genova, quando in piazza Alimonda il carabiniere Mario Placanica, terrorizzato, dentro un mezzo simile a quello di ieri circondato dai manifestanti sparò e uccise Mauro Giuliani.

Stavolta i due militari dell’Arma riescono ad avere il coraggio di uscire dal mezzo e scappare di corsa. Non sono inseguiti ma il furgone viene prima distrutto e poi, incendiato, arde come una torcia. Sul piano simbolico gli eversivi hanno già vinto: quel blindato dei carabinieri in fiamme è lo scalpo da esibire in tutta Italia, anzi tra gli eversivi del resto del mondo. Del resto non ci sono infiltrati provenienti dall’estero: è tutta violenza italiana, molta romana.

Esperta e organizzata, si muove con geometrie variabili, sa che Polizia e carabinieri stanno in difesa, scompare e riappare in gruppi diversi, più piccoli o più grandi. L’elenco degli scontri sembra interminabile e forse nessuno si aspettava così tanta violenza. A un certo punto un gruppo di manifestanti pacifici ha deciso di isolare e “catturare” alcuni violenti feriti e portati poi in ospedale. In via Labicana è stato dato alle fiamme un ex deposito militare con annessa un’abitazione privata. Nell’incendio – ha riferito il ministro della Difesa Ignazio La Russa – un generale in pensione ha rischiato di morire bruciato vivo e si è salvato solo perché alcuni vicini lo hanno aiutato a fuggire, insieme alla moglie, con una scala dalla finestra. Un 60enne che in via Cavour tenta di fermare un lancio di bottiglie contro i vigili del fuoco intenti a domare un rogo viene aggredito e ferito lievemente al volto. Viene lanciata una bomba carta contro l’ex sede dell’Agenzia delle entrate a via Labicana. Poi è occupata e devastata in via Labicana la sede di Manpower, agenzia di lavoro interinale.

Tra viale Manzoni e via Emanuele Filiberto il manto stradale in certi punti è stato sventrato per prendere i sampietrini e trasformarli in proiettili micidiali. Si riesce va evitare, per fortuna, un tentativo di incendio vicino a una pompa di benzina. Ma le fiamme salgono alte in molti punti della zona di San Giovanni. La Digos alla fine sequestra 10 bottiglie incendiarie, bastoni, spranghe. Ci sono venti fermati, di cui 12 arrestati, compresi ragazzi di Bari, trento, Brindisi, Varese e Napoli. Ci sono 70 feriti, di cui tre gravi, circa una ventina tra le forze dell’ordine. Un militante di Sinistra ecologia e libertà di 52 anni perderà tre dita per lo scoppio di un petardo.


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2 Commenti


  • Gino

    Ero dentro all’oceano indignato e quello che mi ha deluso è la saccenza e finto perbenismo di tutti quelli che nel corteo hanno contestato chi giustamente ha reagito con la rabbia vera alla violenza quotidiana dei poteri forti. Quello che auspico fortissimamente è che la rabbia vera dei giovani si estenda a tutti i diversi strati sociali e poi vediamo se continuano a chiamarli
    black-block…. Gino.


  • renato sellitto

    sono completamente d’accordo con la saggezza di Valentino Parlato.il punto vero che i movimenti,oltre le proteste violente o meno non dispongono di un programma ed una vera piattaforma alternativa,fatto con un linguaggio semplice e concreto come i referendum sull’acqua Senza di ciò sarà difficile conquistare il “Palazzo d’Inverno” è finche si protrae la diaspora tra i comunisti senza proporre il programma di minima per far fronte alle aspettative delle nuove generazioni,si potranno consumare tante rivolte ,ma siamo lontani dall’obiettivo

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