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La costruzione del nemico. I media di regime

Vi proponiamo qui due pezzi presi dai due maggiori quotidiani nazionali. Speculari e coincidenti in larga parte. La tesi da dimostrare è quella dell’esistenza di “professionisti della violenza”, addirittura “addestrati” altrove. Ci sono alcuni luoghi che coincidono (la Val Susa, in entrambi i giornali), altri che differiscono (la Grecia, per repubblica). I particolari sono più che fantasiosi (“abbiamo preso il master in Grecia, ci andavamo una volta al mese”, spendendo evidentemente un mare di soldi solo per arrivare a Roma e scontrarsi con la polizia con tecniche gratuite che esistono da almeno 200 anni).

Carlo Bonini e Fiorenza Sarzanini sono due specialisti di “giudiziaria”, con ampi contatti tra i dirigenti di polizia e servizi segreti. Qualcuno del mestiere (giornalistico, sia chiaro), a sentire i loro nomi storce il naso; “troppo vicini” a certi ambienti per non essere stati abituati all’arte dello scambio. In cosa consiste? Beh, un giornalista di giudiziaria fa i suoi scoop grazie a “soffiate” provenienti dalla procure, dagli inquirenti, da “fonti” nei servizi. Gente che sgancia il documento giusto, dà l’imbeccata, consente di di farsi un nome. “In cambio” pretende – alla lunga – di avere notizie dai giornalisti che favorisce, fino a “suggerire” il modo di coprire determinati eventi. Tipo gli scontri di piazza o le “grandi operazioni contro gli insurrezionalisti”.

Fantasie? Ragazzi, non facciamo gli smemorati. Pio Pompa era un agente dei servizi che gestiva esattamente un ufficio di contatto con i giornalisti: ricordate il mitico “agente Betulla”? al secolo Renato Farina, giornalista di spicco del Giornale, Resto del Carlino o di Libero (http://www.repubblica.it/2006/07/sezioni/cronaca/sismi-mancini-2/memoriale-pio-pompa/memoriale-pio-pompa.html). E poi una pletora di altri nomi, anche molto “democratici”, di testate “democraticissime” (cioè semplicemente antiberlusconiane).

Ecco. Questi due articoli sono un chiaro frutto di questa “metodologia”. L’intervistato da Repubblica o è inventato o è un agente infiltrato (esistono, esistono…) nel movimento. Uno che “non parlo di politica con due giornalisti” atteggiandosi a “grande rivoluzionario” che non si abbassa a interloquire con “i borghesi”, ma “rivela” loro dettagli appetitosi come “i viaggi in Grecia”, “falangi” e”gruppetti di specialisti”, “ho fatto la guerra in Val di Susa”, ecc. Fino allo “scoop” finale da barzelletta: “vi do una notizia. Non è finita”. E che diamine, il giornalista dovrà pur scrivere altri pezzi, in seguito! Un bel serial, ci sembra il minimo….

Detto fra noi: se fosse stato un militante “vero” avrebbe parlato con i giornalisti solo di politica. Senza offrire un solo “dettaglio tecnico”.

La ricostruzione della Sarzanini invece è talmente fantasiosa da sembrare un romanzo. Manca soltanto la Spectre di James Bond, poi il quadro è completo.

A voi decrittare gli altri passaggi da delirio….

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da Repubblica

Il black bloc svela i piani di guerra

“Ci siamo addestrati in Grecia”

Parla un “nero”: le armi erano nascoste in piazza, è da un anno che ci prepariamo. E ancora: per noi questa è una guerra, ed è appena l’inizio

di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI

ROMA – F. è un “nero”. Ha 30 anni all’anagrafe, una laurea, un lavoro precario e tutta la rabbia del mondo in corpo. Sabato le sue mani hanno devastato Roma.

E lui, ora, ne sorride compiaciuto. “Poteva esserci il morto in piazza? Perché, quanti morti fa ogni giorno questo Sistema? Chi sono gli assassini delle operaie di Barletta?”.

Non i poliziotti o i carabinieri a 1.300 euro al mese su cui vi siete avventati, magari. Non quelli che pagano a rate le macchine che avete bruciato. Non il Movimento in cui vi siete nascosti.
“Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i “capetti” del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare. Perché ci prepariamo da un anno”.

Vi preparate?
F. sorride di nuovo. “Abbiamo fatto il “master” in Grecia”.

Quale “master”?
“Per un anno, una volta al mese, siamo partiti in traghetto da Brindisi con biglietti di posto ponte, perché non si sa mai che a qualcuno viene voglia di controllare. E i compagni ateniesi ci hanno fatto capire che la guerriglia urbana è un’arte in cui vince l’organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare tutto. Ora sappiamo come sfasciare. A Roma, abbiamo vinto perché avevamo un piano, un’organizzazione”.

Quale organizzazione avevate?
“Eravamo divisi in due “falangi”. I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour. Altri 300 li proteggevano alle spalle, per evitare che il corteo potesse isolarli. L’ordine che avevano i 300 era di non tirare fuori né caschi, né maschere antigas, né biglie, né molotov, né mazzette fino a quando il corteo non avesse girato largo Corrado Ricci. Non volevamo scoprire con gli sbirri i nostri veri numeri. E volevamo convincerli che ci saremmo accontentati di sfasciare via Cavour. Ci sono cascati. Hanno fatto quello che prevedevamo. Ci hanno lasciato sfilare in via Labicana e quando ci hanno attaccato lì, anche la seconda falange dei 300 ha cominciato a combattere. E così hanno scoperto quanti eravamo davvero. A quel punto, avevamo vinto la battaglia. Anche se loro, gli sbirri, per capirlo hanno dovuto aspettare di arrivare in piazza San Giovanni, dove abbiamo giocato l’ultima sorpresa”.

Quale?
“La sera di venerdì avevamo lasciato un Ducato bianco all’altezza degli archi che portano in via Sannio. Dentro quel Ducato avevamo armi per vincere non una battaglia, ma la guerra. Il resto delle mazze e dei sassi lo abbiamo recuperato nel cantiere della metropolitana in via Emanuele Filiberto”.

Sarebbe andata diversamente se avessero caricato subito il corteo in largo Corrado Ricci e vi avessero isolati.
“Non lo hanno fatto perché, come ci hanno insegnato a fare i compagni greci, sono stati confusi dal modo in cui funzionano le nostre “falangi””.

Come funzionano?
“Siamo divisi in batterie da 12, 15. E ogni batteria è divisa in tre gruppi di specialisti. C’è chi arma, recuperando in strada sassi, bastoni, spranghe, fioriere. C’è chi lancia o usa le armi che quel gruppo ha recuperato. E infine ci sono gli specialisti delle bombe carta. Organizzati in questo modo, siamo in grado di assicurare un volume di fuoco continuo. E soprattutto siamo molto snelli. Ci muoviamo con grande rapidità e sembriamo meno di quanti in realtà siamo”.

È la stessa organizzazione con cui funzionano i reparti celere.
“Esatto. Peccato che se lo siano dimenticato. Dal G8 di Genova in poi si muovono sempre più lentamente. Quei loro blindati sono bersagli straordinari. Soprattutto quando devono arretrare dopo una carica di alleggerimento. Prenderli ai fianchi è uno scherzo. Squarci due ruote, infili un fumogeno o una bomba carta vicino al serbatoio ed è fatta”.

Parli come un militare.
“Parlo come uno che è in guerra”.

Ma di quale guerra parli?
“Non l’ho dichiarata io. L’hanno dichiarata loro”.

Loro chi?
“Non discuto di politica con due giornalisti”.

E con chi ne discuti, ammesso che tu faccia politica?
“Ne discuto volentieri con i compagni della Val di Susa”.

Sei stato in val di Susa?
“Ero lì a luglio”.

A fare la guerra.
“Si. E vi do una notizia. Non è finita”.

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Hanno dai 17 ai 25 anni. Si sono «addestrati» in Val di Susa con i No Tav

Maschere antigas e mazze nascoste
La battaglia preparata da giorni

Manovra a tenaglia di due frange per impedire il comizio

ROMA – C’erano almeno due «blocchi» violenti organizzati alla manifestazione degli Indignati a Roma. Uno era all’interno del corteo, l’altro ha puntato direttamente su piazza San Giovanni forse con l’obiettivo di impedire il comizio finale. In realtà si sono ricompattati a metà pomeriggio e sono andati all’assalto delle forze dell’ordine. Riuscendo a prevalere.

Il giorno dopo le devastazioni e i saccheggi, gli investigatori della Digos e del Ros dei carabinieri disegnano una prima ricostruzione di quanto avvenuto in piazza. Anche per focalizzare gli errori nella gestione dei servizi di ordine pubblico. Ed emerge un dato nuovo: le frange estremiste sono composte per la maggior parte da giovani, anche minorenni. La media ha tra i 17 e i 25 anni, molti di loro si sono «addestrati» e «allenati» schierandosi con i No Tav nei boschi della Val di Susa. Per comunicare usano soprattutto il Web. Sono i filmati e le testimonianze di chi ha potuto osservarli da vicino a fornire i dettagli dei loro comportamenti. Sin dal loro ingresso in città.

La maggior parte arriva sabato mattina. Sono circa le 11 quando i carabinieri di Pomezia inseguono e poi fermano una Fiat 600 con a bordo un ragazzo e tre ragazze. Nel bagagliaio hanno un piccolo arsenale occultato in cinque zaini: quattro caschi da motociclista, dieci maschere antigas con filtri, 500 biglie di vetro e una fionda professionale di grosse dimensioni, quattro mefisti, quattro parastinchi, due mazzette da muratore, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Nel rapporto già trasmesso alla magistratura si parla di «elementi appartenenti all’area anarcoinsurrezionalista».

Molti giovani che si ritrovano alla «partenza» della manifestazione, in piazza della Repubblica, si sono mossi in maniera autonoma, almeno nell’ultima fase. Ognuno di loro ha nello zaino il proprio equipaggiamento: fionde, biglie, un po’ di sassi. C’è chi ha il casco da ciclomotore agganciato all’asola laterale dei pantaloni. Chi nasconde la maschera antigas, particolare che rimanda alle proteste contro l’Alta Velocità. Un centinaio si sistema in fondo al corteo, una cinquantina comincia a risalire verso la testa. In tutto, questa è l’ultima stima, potrebbero essere circa cinquecento, mimetizzati tra i manifestanti e pronti a tirare giù il passamontagna e su il cappuccio per «travisarsi» quando bisogna entrare in azione.

Lungo il percorso sono sistemate buste di plastica bianche: segnalano i punti dove si trova il resto del materiale da utilizzare negli scontri e per sfasciare bancomat e vetrine. Le hanno messe su pali già divelti, vicino a piccoli mucchi di sampietrini occultati da altre buste, sui portoni di alcuni palazzi dove hanno nascosto mazze e bombe carta. Ed è proprio questa circostanza ad alimentare nei responsabili della sicurezza la convinzione che dietro la strategia di assalto ci sia una precisa regia. Una tattica studiata dai più «anziani» che da tempo avrebbero pianificato di infiltrarsi nel corteo degli Indignati per far fallire il progetto di una manifestazione pacifica.

Il primo attacco parte alle 14,35 nel supermercato Elite e diventa una sorta di prova generale di quello che accadrà in seguito. Sono circa cinquanta, agiscono indisturbati. L’ordine impartito dal questore Francesco Tagliente vieta di intervenire all’interno del corteo per non mettere a rischio l’incolumità di chi sta sfilando. Da lì in poi è una violenza che cresce. Ma sempre con azioni estemporanee che portano piccoli gruppi a uscire dal serpentone e rientrare subito dopo, evidentemente consapevoli che in questo modo le forze dell’ordine non possono fermarli.

Dopo un chilometro cominciano gli scontri. All’altezza di via dei Serpenti c’è chi cerca di «spezzare» il corteo. Parte una carica della polizia, i teppisti rispondono lanciando bombe carta, sassi, bottiglie. Altri stanno sfasciando alcune vetrine. Altri ancora entrano in un albergo sperando di trovare una via di uscita laterale che li porti verso il centro di Roma, in prossimità di quelle sedi istituzionali che rimangono comunque l’obiettivo primario. Vengono rispediti indietro e tornano a mescolarsi tra la folla. Passano una ventina di minuti prima che si riesca a riportare la calma. Ma intanto un gruppo è già arrivato fino al Colosseo e ha cominciato un nuovo assalto.

Le comunicazioni tra la sala operativa della questura e i funzionari che sono in piazza danno conto delle valutazioni sull’opportunità di «caricare» ancora. Alla fine si decide di aspettare. Troppo alto viene ritenuto il rischio di coinvolgere gli altri manifestanti in quel tratto di strada che consente poche vie di fuga visto che da un lato ci sono le aiuole e dall’altra la fermata della metropolitana. E dunque si preferisce attendere che il «nucleo» arrivi più avanti, dopo aver superato la strettoia. Un calcolo che però si rivela sbagliato. Perché quelli che si erano dispersi nel corteo si sono ormai ricompattati e marciano in direzione San Giovanni.

Ora sono un «blocco» numeroso e determinato a scatenare la guerriglia contro i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri che in assetto antisommossa e con i blindati li attendono in piazza, lì dove la manifestazione dovrebbe terminare con gli interventi dal palco e la festa. Lì, dove invece c’è un altro «blocco» di violenti organizzato – questa è la convinzione degli investigatori – per l’ultima fase. Verso le 17 comincia una vera e propria battaglia. Molti manifestanti pacifici che hanno raggiunto il punto d’arrivo riescono a fuggire, altri rimangono «schiacciati» contro le «mura» della Basilica. Ma qualcuno decide di aggregarsi ai più violenti, di partecipare agli assalti con lancio di sassi e bombe carta. Va a fuoco il blindato dei carabinieri, le forze dell’ordine entrano in azione con gli idranti. Ma hanno ormai perso il controllo della situazione. E per riportare la calma nella zona dovranno trascorrere altre tre ore.

Fiorenza Sarzanini
17 ottobre 2011 07:40

 

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