Menu

Berlusconi al punto giusto di cottura?

Una stagione durata 20 anni è finita, sta finendo, finirà. Ma non si torna certo alla situazione precedente. I pozzi sono stati avvelenati, la finanza pubblica devastata, la convivenza civile azzerata, la cultura bombardata.

Siamo sotto pieno assalto congiunto da parte dei “mercati internazionali” e delle “istituzioni europee”. La posta in gioco è dichiarata: un governo euiropeo dell’economia, quindi della distribuzione della ricchezza tra le diverse figure sociali. Un governo non eletto, non responsabile, al riparo di qualsiasi “invadenza” popolare (sia referendaria che manifestatoria), cui la classe dirigente “locale” (nazionale) deve fornire nomi e volti, ma non idee diverse o divergenti.

Questo elimina in modo radicale il significato del gioco elettorale, che resta appetibile solo per chi vuol partecipare al concorso a premi “chi vuol fare il terminale della troika?”. Al più, a sinistra, rimarrebbe solo l’argomento “diritto di tribuna”.

Una panoramica di giornata può aiutare a districarsi nella confusione.

*****

Cos’è il “governo tecnico”? Chi lo dovrebbe guidare? Cosa dovrebbe fare?

Un’interessante anticipazione da “il manifesto” su Mario Monti, il primo candidato. Ma il programma è lo stesso per tutti gli altri venetuali candidati… Perchè il progetto in marcia è il “governo economico europeo”.

Il programma del «tecnico» pronto per governare

Francesco Piccioni

«Presto, un governo tecnico!» Il grido che sale da Confindustria, Abi, opposizione parlamentare e malpancisti del Pdl è ormai un coro assordante. Ma cosa dovrebbe fare un governo del genere? E chi sarebbe quella «figura al di sopra delle parti» che potrebbe riscuotere contemporaneamente i voti bipartisan nel parlamento italiano nonché la fiducia delle istituzioni europee (senza dimenticare quella ben più volatile dei mercati)?
Il nome più cliccato è Mario Monti, ex rettore e presidente dell’università Bocconi. Poi indicato dal primo governo di centrodestra come commissario europeo, presidente continentale della Commissione Trilaterale (fondata nel 1973 da David Rockefeller) e membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg. Dal 2005 è International Advisor per Goldman Sachs. Sopra le parti, insomma…
Il programma, invece, scivola via dall’attenzione, ben rimpannucciato sotto la parola-coperta-di-linus degli ultimi 20 anni: «riforme». Eppure il programma c’è: chiaro, strutturato, scolpito come le tavole della legge.
In un lungo editoriale sul Corsera, la scorsa settimana, Monti ha squadernato le ragioni della non credibilità di Berlusconi evidenziando la distanza delle «convinzioni profonde» del Cavaliere da quelle condivise dagli altri leader europei. Sull’euro come sulle «riforme», sulla durezza delle misure da prendere e sulla necessità di «presentarle in modo convincente ai cittadini».
Ma soprattutto sul tema centrale di questa fase storica: «il governo economico» continentale che «si sta creando». Un compito cui l’Italia non sta contribuendo da protagonista, ma da soggetto passivo, che «improvvisa» nel tentativo di recepire forme di governo in grado di «disciplinare» il paese. Il rischio, palese nelle sparate berlusconiane e ancor più in quelle leghiste, è vedere il paese governato ancora da una classe dirigente «populista» e «distaccata dall’Europa».
Questa è la pars destruens che motiva la necessità di una «svolta radicale» nella gestione – liberale e liberista, sia chiaro – nel governo della cosa pubblica. Quella «costruens, non è un segreto, è tratteggiata nella «lettera della Bce» – inviata in luglio da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi -, rimasta a lungo «segreta» e articolata in tre semplici punti.
Le «misure per la crescita» devono comprendere la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali»; un «ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale» che renda gli accordi aziendali «più rilevanti rispetto agli altri livelli di contrattazione». Senza dimenticare l’«accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti» (e, in fondo, anche un «sistema di assicurazione dalla disoccupazione»).
La «sostenibilità delle finanze pubbliche» fa sempre la parte del leone, con l’«anticipo del pacchetto del luglio 2011» e l’obiettivo del «bilancio in pareggio nel 2013»; da realizzare – manco a dirlo – «principalmente attraverso i tagli di spesa». E quindi: «ulteriore intervento nel sistema pensionistico» («anzianità»), blocco del turnover nel pubblico impego e, «se necessario, riduzione degli stipendi». Persino il «pareggio di bilancio» nella Cosituzione e tante altre cosette che – onestamente – Berlusconi ha messo nei suoi disordinati elenchi di provvedimenti fatti, non fatti o malfatti.
Al terzo punto, infine, gli «indicatori di performance» per migliorare «l’efficienza amministrativa», l’abolizione delle province, l’accorpamento dei Comuni e tutte le frasi che sentite ripetere anche dal primo rottamatore che passa. Quando si parla di «governo tecnico», si parla di questo. E basta.

*****

Il de profundis del Corriere della sera sulle “misure” presentate al G20 da Berlusconi. Con alcune sottolineature nostre…

 

 

Tante misure, poca crescita

di Di Vico Dario

Un fortunato tormentone ministeriale recita che da crescita non si fa per decreto». Figuriamoci «per maxi emendamento»! Nel documento messo a punto dal governo c’è di tutto un po’. Considerarlo un’organica piattaforma per la crescita del Pil è onestamente difficile. E sicuramente non si presta a fornire «scosse» oppure a evocare fi mito della «rivoluzione liberale». Detto quindi che il maxi emendamento non sarà studiato in nessuna università come testo chiave di politica economica per promuovere la crescita nelle società tardocapitalistiche, sarebbe però sbagliato sottoporlo a un trattamento indifferenziato. Buttarlo via totalmente non avrebbe senso. Qualunque sia il governo che si prenderà cura dell’Italia nel 2012, alcune di quelle misure sarà bene che le implementi. Tutto ciò che va in direzione di liberare l’economia va dunque incoraggiato, e riguarda i servizi pubblici locali, le professioni, le attività impresa-commercio. La mobilità degli statali è una significativa discontinuità che sarebbe sbagliato disconoscere e che sicuramente agiterà il fronte sindacale. La sottovalutazione dell’export, invece, ha del lunare perché equivale a darsi la zappa sui piedi. Infine far pagare la decontribuzione dell’apprendistato ai parasubordinati reca con sé l’inconfondibile sapore della beffa.

L’azzeramento dei contributi per l’apprendistato nelle aziende fino a 9 dipendenti per un periodo di tempo fino a tre anni va nella direzione di favorire un incremento dell’occupazione giovanile. E visti gli ultimi dati Istat ce n’è sicuramente gran bisogno. In concreto significa, infatti, ridurre il costo del lavoro dell’1,5%. Un taglio che difficilmente farà stappare bottiglie di champagne ai datori di lavoro, ma che può incentivare nuove chiamate. Oggi l’intero sistema produttivo dà occupazione a circa 700 mila apprendisti di cui 220 mila nelle sole aziende artigiane. Se lo stock, dunque, è 700 mila ogni anno entrano in produzione «nuove» 80 mila apprendisti. Grazie a un provvedimento come quello annunciato, quanti nuovi posti di lavoro si potranno creare? Le prime stime parlano di un potenziale del 30% ovvero 25 mila giovani occupati in più. Non siamo, dunque, davanti a una «svolta» ma a una misura di buon senso e fortemente voluta dagli operatori. Sarebbe interessante se una ripresa di interesse per l’apprendistato si sposasse anche a una maggiore attenzione per i mestieri d’arte che promettono ai giovani profili professionali di assoluta eccellenza.

Detto della bontà del provvedimento sull’apprendistato, è singolare che per finanziarlo il governo voglia alzare di un punto percentuale la contribuzione per i parasubordinati e le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps. Si arriverà così al 28%. I co.co.pro. finanzieranno con i loro soldi l’assunzione degli apprendisti! Qual è il ragionamento che sta dietro questo paradosso sociale? Il governo pensa di rendere meno vantaggioso per i datori di lavoro il ricorso al lavoro flessibile e quindi aumenta gli oneri. Peccato che questo presupposto non si sia mai verificato: già da diversi anni la contribuzione sale, ma in parallelo è cresciuto anche il ricorso ai parasubordinati e alle partite Iva monocommittenti. I datori di lavoro tendono a scaricare sul co.co.pro. l’aumento contributivo e di conseguenza la logica della deterrenza va farsi a benedire. Per le partite Iva — che dovrebbero rientrare nel provvedimento — la beffa è doppia. Un consulente pagherà contributi previdenziali doppi rispetto ad altri professionisti iscritti alle loro Casse (e non alla gestione separata Inps).

La liberalizzazione dei servizi pubblici locali, dunque, dovrebbe partire. Comuni e Province avranno l’obbligo di testare il mercato per mettere a gara l’affidamento dei servizi. Se il governo sarà conseguente questo significherà disboscare il «socialismo municipale», perché in base alle normative europee o indice una gara o comunque il Comune dovrà gestire in proprio il servizio, tagliando le società municipalizzate. Ma le giunte leghiste saranno d’accordo o faranno ostruzionismo? Un principio importante, poi, dovrà essere quello di verificare l’efficienza dei servizi locali dal punto di vista delle tariffe. Dovrà diventare costo standard quello più vantaggioso per il cittadino. Tutto ciò darà crescita? Dovrebbe favorire nuovi soggetti e per questa via aumentare occasioni di lavoro e allargare il business. Più complessa è la riforma degli ordini professionali che il governo prevede in 12 mesi. E prevista la possibilità di costituire società tra professionisti e derogare ai minimi tariffari fissati dagli ordini. Il confronto con le rappresentanze si presenta serrato e chi conosce il terziario invita a non farsi illusioni. L’occupazione nel breve non aumenterà.

La norma che prevede la mobilità per i dipendenti pubblici va nella direzione giusta di introdurre meccanismi di flessibilità dentro un sistema endemicamente rigido. Non la si può etichettare come pro-crescita, ma sicuramente riprende il filo dei discorsi sulla riforma che si erano interrotti. Ogni anno le amministrazioni saranno chiamate a monitorare il personale in soprannumero e a ricollocarlo utilizzando magari forme contrattuali più flessibili. Trascorsi 3 mesi il personale che resta eccedente viene collocato in «disponibilità», si interrompe il rapporto di lavoro in cambio di un’indennità pari all’80% dello stipendio. I risparmi conseguiti con queste procedure andranno per il 50% a premiare il merito e per il 15% alla formazione del personale in mobilità. La norma è in forte discontinuità e coniuga ricerca dell’efficienza e meritocrazia. Un avvocato del diavolo obietterebbe che si tratta di una norma-vetrina: facile da scrivere, molto più difficile da condurre in porto. I lavoratori del pubblico impiego ritengono di essere stati già abbastanza penalizzati dalla varie manovre e c’è quindi da fare i conti con una reattività sindacale piuttosto pronunciata.

Nei talk show il ministro di turno gonfia il petto e narra le meraviglie del nostro export, gloria e vanto dell’italica imprenditoria. Manca solo l’inno nazionale! Per carità, è tutto vero. Le nostre medie aziende e anche i vituperati distretti hanno continuato a macinare vendite all’estero sui mercati tradizionali (Ue e Usa) e su quelli emergenti (Cina, Brasile, Russia, India). Insomma se c’è qualcosa che riesce a muovere il Pil oggi è proprio il made in Italy. Spenti i riflettori delle tv, però, dell’export i ministri se ne dimenticano. Ancora nessuno ha spiegato chi e perché abbia «freddato» l’Ice, e ora il governo se ne esce con la creazione di una «piccola agenzia» in condominio tra Esteri e Sviluppo economico e con risorse limitate a disposizione. Intanto la rete estera è abbandonata a se stessa e sono numerosi gli impegni con fiere e manifestazioni che abbiamo dovuto disdire. L’export avrebbe bisogno di strumenti di garanzia per le piccole e medie imprese, di investimenti con la logica del private equity, di meccanismi che leghino la creazione di reti di imprese all’internazionalizzazione. Ma evidentemente nel governo c’è un deficit di competenze.

 

*****

E quello ancor più speranzoso di Repubblica…

A Cannes va in scena il dopo-Cavaliere –
Gli Usa archiviano il Cavaliere. “I vostri problemi vanno risolti anche con un nuovo governo”

di Rampini Federico

L'”asse col turbo Merkozy”, dopo avere sospeso la democrazia in Grecia imponendo la cancellazione del referendum, rivolge la sua pressione sull’Italia.

E durante tutta la prima giornata del G20 si sottrae all’assedio del premier italiano che vorrebbe un incontro bilaterale: il presidente Usa lo riserva a Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, ormai decisi a «riempire il deficit di leadership dell’Unione europea». E’ un summit costretto a concentrarsi quasi esclusivamente sull’emergenza europea, sul rischio recessione associato alla crisi debitoria, e sui due “casi” più caldi: dopo la Grecia, l’Italia.

La cancelliera tedesca mette i due paesi sullo stesso piano, liquidandoli insieme con questa frase: «Per noi solo gli atti contano ornai. L’importante è che passino rapidamente tutte le decisioni prese al vertice di Bruxelles de127 settembre». E ripete ancora: “Rapidamente”, esprimendo tutta l’insofferenza germanica per l’impantanarsi della politica greca e italiana.

Il termine temporale è due settimane, il saldo della manovra italiana viene messo nero su bianco nel documento finale del G20: deve raggiungere i 60 miliardi promessi quest’estate. Ci pensa il padrone di casa, il presidente del G20 Nicolas Sarkozy a ribadire in conferenza stampa i dubbi sull’attendibilità delle promesse di Berlusconi: «La questione non è il contenuto del pacchetto ma questa: sarà applicato?»

E’ un punto interrogativo che viene ripetuto più volte, crea un cordone di diffidenza attorno al premier italiano. E’ sintomatica anche la frase con cui Sarkozy esprime fiducia nell’economia reale italiana: «E’ una delle più forti del mondo, la terza in Europa, con un’imprenditorialità notevole». E’ un passaggio che fa giustizia di tutte le attese su miracoli esterni, sul “cavaliere bianco” cinese che avrebbe dovuto entrare con massicce risorse nel fondo salva-Stati Efsf, sugli eventuali aiuti aggiuntivi dal Fondo monetario internazionale. L’Italia deve prima di tutto contare sulle proprie forze, attingere a una ricchezza reale che c’è: non si arriva a invocare qui a Cannes la patrimoniale, ma la direzione indicata è quella di un poderoso sforzo “domestico”.

E ancora Sarkozy a nome del direttorio franco-tedesco con benedizione Usa torna a usare una frase già nota: «Stiamo lavorando con le autorità italiane». Le autorità, dice lui, non cita il governo: è la conferma che il Quirinale viene ormai considerato come il punto di riferimento, l’interlocutore saldo e credibile in una fase di instabilità del quadro politico italiano.

L’asse “Merkozy” sa di avere una sponda decisiva nella Casa Bianca. Lo si capisce dalla frase sibillina che usa Ben Rhodes, uno dei principali sherpa di Obama che lo accompagna qui al G20. «Per l’Italia vale il discorso della Grecia – dice Rhodes – e cioè se ci sono cambiamenti di governo non cambiano i problemi del paese». Anche l’Amministrazione Usa quindi si prepara al dopo-Berlusconi, si proietta già a lanciare messaggi a un governo diverso, a cui indica i paletti: i problemi da risolvere, l’entità della manovra di risanamento, l’urgenza estrema di un recupero di fiducia internazionale.

Per tutta la giornata la delegazione italiana tenta di strappare un gesto di ricucitura, una parvenza di riconoscimento: l’incontro bilaterale Obama-Berlusconi. E per tutta la prima giornata del vertice questo bilaterale non si materializza. Al suo posto, una caricatura: Obama che esce dall’ascensore dell’albergo per andare a fare jogging, s’imbatte a sorpresa nel premier italiano che gli mostra i bicipiti. Obama dà una pacca sulla spalla a Berlusconi, scherza «io non sono così muscoloso», scatta e corre via lontano.

Nonostante i sorrisi davanti alle telecamere nelle riunioni di gruppo, è profondamente contrariato il presidente americano. Grecia e Italia gli hanno “dirottato” un G20 dove voleva impostare priorità diverse: «Non basta parlare di tagli, occorre una strategia di rilancio della crescita, dell’occupazione, altrimenti anche i deficit pubblici si avvitano su se stessi». Ma è proprio quel premier che gli mostra i bicipiti all’uscita dall’ascensore, una delle ragioni per cui il messaggio sulla crescita passa in secondo piano, travolto dalle convulsioni dei mercati sui bond italiani.

Obama è sbarcato a Cannes portandosi dietro un pessimo rapporto della Federal Reserve, che vede nero per il futuro dell’eurozona, e in conseguenza della ripresa globale. Perciò l’America non può che portare tutto il suo peso a sostegno del turbo-asse Merkozy, concorda con loro un fuori programma: dopo la cena ufficiale non si va a letto, segue invece un nuovo vertice straordinario per cingere d’assedio l’Italia e la Spagna. Con Berlusconi circondato dal gran giurì che vuole azioni immediate: Usa, Germania, Francia, Fmi, Commissione Ue, e la Bce rappresentata dal neopresidente Mario Draghi.

Come per la Grecia, è implicito il commissariamento anche dell’Italia e lo dice il presidente Ue Van Rompuy: «La Commissione di Bruxelles è impegnata a monitorare l’attuazione degli impegni presi dal premier italiano, e può farlo anche il Fmi». Su questa ipotesi di doppio monitoraggio ieri è scattata la resistenza della delegazione italiana, preoccupata di un commissariamento bilaterale Bruxelles-Washington. Alla fine ne esce questo passaggio del documento finale che il G20 approverà oggi: «L’Italia si impegna a raggiungere il rapido calo del rapporto debito-Pil a partire dal 2012, e il bilancio vicino al pareggio entro il 2013. La piena applicazione della manovra da 60 miliardi, il rafforzamento delle regole fiscali e di bilancio secondo le indicazioni europee, l’introduzione dell’obbligo di pareggiare il bilancio nella Costituzione». Quel passaggio di Sarkozy sulla «terza economia europea» riassume l’incubo di Cannes: si sono visti i danni globali che può provocare un mini-Stato come la Grecia che pesa il 3% del Pil dell’Unione, nessuno può tollerare lo sconquasso che verrebbe dal prolungarsi dell’instabilità italiana.

*****

Il gesto csaramantico de Il Sole 24 Ore

L’impasse dell’Esecutivo tecnico

Nei prossimi giorni si saprà se Berlusconi ha ancora una maggioranza. Forse sì, forse no. In ogni caso sarebbe una maggioranza relativa e non assoluta soggetta comunque ad una costante erosione. La crisi è una eventualità sempre più probabile. Se così fosse quali potrebbero esserne gli esiti?

La soluzione che – più di tutte – farebbe gli interessi del Paese è quella di un governo appoggiato da tutti i partiti presenti in Parlamento. Sarebbe un segnale forte di coesione nazionale. Un messaggio chiaro e rassicurante ai mercati e all’Europa. Soprattutto se a presiederlo fosse chiamata una personalità di indiscusso prestigio. È il governo di larghe intese auspicato da molti. Che questo sia l’esito della crisi dipende da Silvio Berlusconi. Dovrebbe fare quello che ha fatto nel 1995 con il governo Dini. Lo farà questa volta? Ce lo auguriamo ma non sembra probabile. Tanto più che una cosa è certa. La Lega Nord non appoggerà un governo simile. Berlusconi dovrebbe farlo senza Bossi.

Escludendo le “larghe intese” le altre soluzioni della crisi sono tutte interne al centrodestra. Se Berlusconi facesse un passo indietro si creerebbero forse le condizioni per un nuovo governo di centrodestra allargato all’Udc e forse a Fli. Se la Lega Nord accettasse questa soluzione un governo simile godrebbe di una larga maggioranza parlamentare. Alla Camera potrebbe contare su quasi 400 deputati e al Senato su circa 200 senatori. Se il Carroccio invece si tirasse indietro un governo siffatto avrebbe ancora la maggioranza ma sarebbe molto risicata. Chi ne potrebbe essere il leader? Difficile da dirsi. Se le cose fossero andate diversamente Tremonti sarebbe stato il candidato giusto vista la stima di cui gode in Europa. Con Tremonti in rotta di collisione con Berlusconi i candidati sono altri, Letta, Alfano. Anche Casini potrebbe essere in corsa.

Qualche mese fa un governo senza Berlusconi che comprendesse tutti i partiti del centrodestra sarebbe stato una soluzione possibile. Ma oggi? Anche ammesso che la Lega Nord non si tiri indietro, se la sentono Casini e Fini di appoggiare un governo simile senza l’appoggio o quanto meno la neutralità del Pd? Per Casini potrebbe rappresentare la grande occasione per fare una riforma elettorale che abolisca il premio di maggioranza. Ma è un incentivo sufficiente? E Berlusconi sarebbe disposto a concedere il superamento del bipolarismo pur di fare un accordo con l’Udc? E il Pd cosa farebbe in uno scenario del genere? Sarebbe disponibile ad appoggiare un esecutivo guidato da un esponente del Pdl? E se il candidato alla presidenza fosse Casini? Domande per ora senza risposta. Ma un fatto è certo: una soluzione del genere richiede necessariamente il consenso sia di Berlusconi che di Bossi.

Esiste una soluzione della crisi che non richieda un accordo con Berlusconi? Esiste ma ad una condizione: che si divida il Pdl. Non le defezioni cui stiamo assistendo ora. Con queste defezioni Berlusconi perde la maggioranza ma non si fa una vera maggioranza alternativa. Per fare un governo senza il consenso di Berlusconi e di Bossi occorre che la divisione nel Pdl sia vasta, che una parte importante del partito decida di separarsi dal suo leader e allo stesso tempo sia disposta ad appoggiare un governo insieme a Pd, Udc ecc. Si vedrà nelle prossime ore se questa condizione ha qualche chance di realizzarsi. Ma fin d’ora però ci si può chiedere se un governo che si forma in questo modo e con questa base parlamentare abbia veramente la possibilità di prendere le decisioni necessarie a rassicurare i mercati.

In conclusione è possibile che Berlusconi oggi o domani non abbia più la maggioranza e che la crisi sia alle porte ma non è affatto detto che la soluzione sia un altro governo. Potrebbe succedere, ma solo con il suo consenso o nel caso di una dissoluzione del Pdl. Senza l’una o l’altra di queste condizioni l’esito della crisi saranno le elezioni anticipate.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *