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Prime luci sul programma anti-sociale

I giornali di Confindustria sembrano molto ben informati sul programma del presidente del consiglio incaricato. Anche perché è arrivato lì anche grazie alla pressione delle imprese.

Il programma è antico quanto le piaghe d’Egitto. Si ricomincia per un altro giro di potatura alle pensioni, a partire da quelle di anzianità, che si vorrebbero eliminare entro un paio d’anni al massimo (solito sistema dei “gradini” sempre più alti, inaugurato da Prodi, invece dello “scalone” singolo, che provoca manifestazioni di protesta). E si arriva direttamente all’abolizione dell’art.18, per dare alle aziende la possibilità di licenziare i dipendenti. Quali? Quelli più costosi, ossia gli ultraquarantenni con famiglia a carico; e quelli con più bassa qualifica, facilmente sostituibili con giovani alle prime esperienze, non sindacalizzati, ricattabili con lunghi periodi di apprendistato.

Il dispositivo diventerebbe rapidamente mortale per un paio di generazioni di lavoratori dipendenti: troppo vecchi per continuare a lavorare (secondo i loro datori di lavoro), troppo giovani per andare in pensione (secondo lo stato e le leggi).

Roba vecchia, ma dolorissima.

Quello che dà veramente il vomito è però la ricerca della “parola” che faccia sembrare tutto ciò un “atto di equità”.

Basta leggere che la pensione sarebbe un “privilegio”. E’ vero che ce ne sono alcune spaventosamente elevate (quelle che spesso intascano gli stessi che vogliono tagliare le pensioni di tutti, a cominciare da Giuliano Amato), ma leggendo attentamente si vede che “privilegio” coincide con la possibilità di uscire dal lavoro dopo 40 anni. Non potendolo dire esplicitamente, si creano meccanismi “tecnici” sempre meno trasparenti, arzigogolati e ricchi di subordinate.

Come scritto più volte, queste “riforme” possono aiutare le imprese a ramazzare qualche spicciolo di profitto in più. Ma – incidendo pesantemente sul potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti – di sicuro non aiuta “la crescita”.

 

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da Il Sole 24 Ore

Agenda Monti. Pensioni, tagli ai privilegi

Un percorso più veloce per alzare l’età pensionabile anche attraverso una stretta alle ‘anzianità’. Un calcolo dei trattamenti ancora più ancorato ai contributi versati. E un argine ai privilegi nel sistema previdenziale, compresi quelli collegati ai fondi speciali Inps e agli assegni di natura assistenziale come reversibilità. Il tutto con l’obiettivo di giungere a un riallineamento delle aliquote contributive, facendo scendere quelle più alte e passando obbligatoriamente per un tavolo con le parti sociali.

Non è ancora definita nei dettagli ma appare già abbastanza chiara la strategia che il premier in pectore Mario Monti intende seguire, stando anche alle consultazioni avute con le forze politiche e sociali, per giungere a una riforma del sistema previdenziale che acceleri la cosiddetta transizione e dia maggiori certezze per il futuro pensionistico dei giovani.
Riforma che, almeno per quanto riguarda le anzianità e il contributivo per tutti, non dovrebbe essere inserita nel primo decreto anti-crisi del nuovo governo. La strada per giungere a un compromesso con i sindacati e anche con il Pd su nuovi interventi sulle pensioni non si presenta in discesa. Ma Monti non demorderà, anche perché cercherà di far ripartire il treno della crescita proprio sulla spinta delle riforme strutturali.

La rotta che sembra intenzionato a seguire il premier incaricato poggerebbe, in nome dell’equità, sull’adozione a tutto campo del metodo contributivo, nella forma pro rata, e sulla riduzione dei privilegi ancora presenti rispetto al ‘sistema’ di riferimento Inps per alcuni fondi (elettrici, piloti, dirigenti di azienda eccetera). Dovranno poi scomparire le duplicazioni tra trattamenti Inps di tipo assistenziale, come ad esempio le reversibilità e le invalidità, e le detrazioni fiscali, come peraltro già previsto dalla delega fiscale all’esame del Parlamento. Una separazione, insomma, della previdenza dall’assistenza che sarebbe gradita anche alle parti sociali.

Sulle anzianità il confronto con i sindacati si presenta più arduo. Anche perché Cgil, Cisl e Uil non sembrano disposte a digerire facilmente quella che viene considerata da vari tecnici la strada da percorrere: l’introduzione di quota 100 (la somma di età anagrafica e contributiva) immediatamente con un percorso graduale in tre anni (dal 2012 al 2015 partendo da quota 97), che equivarrebbe all’abolizione dei trattamenti anticipati.
I sindacati, e anche il Pd, sarebbero più propensi a concentrare la discussione su un sistema di pensionamento flessibile: da un minimo di 62 anni a un massimo di 67 o 70 anni prevedendo penalizzazioni per chi esce prima dei 65 anni e micro-incentivi per i lavoratori che optano per il pensionamento dai 66 anni in poi.
In ogni caso potrebbe essere anticipato dal 2026 al 2020-2021 il momento in cui la soglia di vecchiaia dovrà salire per tutti i lavoratori e le lavoratrici a 67 anni. Intanto l’Inps fa sapere che, anche per effetto dell’introduzione della finestra mobile per le uscite, prosegue anche a settembre e ottobre il trend di calo delle pensioni di anzianità registrato nei primi otto mesi dell’anno (-19%). «Nei primi dieci mesi – ha detto il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua a margine di un convegno al Cnel sui patronati- si conferma per le nuove pensioni di anzianità l’andamento avuto al 31 agosto».

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Si riparte dalla flessibilità e i «nuovi» licenziamenti

Troppe rigidità in uscita, una flessibilità che raggiunge il limite del precariato per chi entra nel mercato del lavoro. È questo il problema che dovranno affrontare il presidente del Consiglio incaricato, Mario Monti, e il nuovo ministro del Welfare.
Si tratta di quel ‘dualismo’ denunciato dalla Banca d’Italia, come ha detto l’ex governatore Mario Draghi, ora al vertice dell’Eurotower, rimarcato anche dalle istituzioni europee, sia la Bce che il Consiglio Ue: il mercato del lavoro italiano è ingessato, chi ha un lavoro è troppo protetto e le difficoltà che le imprese incontrano nei licenziamenti ingessano il mercato del lavoro, rendendo le assunzioni dei giovani difficili e spesso precarie.

Serve una riforma: lontana dallo slogan ideologico dei licenziamenti facili, ma che affronti il problema, mettendo sul tavolo anche una revisione del sistema di protezione per chi perde il lavoro.
Sfida non facile per chi prenderà il posto di Maurizio Sacconi, che si ritroverà a fare i conti con il totem dell’articolo 18. È proprio su questi argomenti che durante l’estate si è surriscaldato il clima sociale. Ed è durato poco l’effetto di ritrovata unità sindacale con la firma dell’accordo del 28 giugno su rappresentanza e contrattazione aziendale, siglato da Confindustria e sindacati, Cgil compresa (dopo un lungo periodo di accordi separati), protocollo in cui si prevedevano intese modificative in azienda rispetto ai contratti nazionali e veniva stabilito che gli accordi firmati a maggioranza valgono per tutti.

A dividere di nuovo il sindacato, l’articolo 8 della manovra economica varata ad agosto, in cui si stabilisce l’erga omnes dei contratti aziendali per legge e la possibilità per le parti, previo accordo, di derogare anche rispetto a leggi esistenti, comprese quelle sui licenziamenti e quindi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Su questo specifico punto i sindacati sono d’accordo: hanno dichiarato che non lo applicheranno. Sul resto, sono divisi: per la Cgil l’articolo 8 è da abrogare, Cisl e Uil lo condividono.
Questo sarà il punto da cui il futuro ministro dovrà ripartire. Per attuare le indicazioni dell’Europa e mettere mano al mercato del lavoro, licenziamenti compresi.
Primo traguardo sarà portare tutti al tavolo: la Cgil all’ex ministro Sacconi, che aveva preannunciato una convocazione delle parti sociali, aveva già detto che non sarebbe andata. Per Confindustria, invece, come ha ripetuto lunedì la presidente, Emma Marcegaglia, agli Stati generali della Lombardia, il tema va affrontato, senza riserve ideologiche, parlando di flessibilità in uscita, in entrata e di ammortizzatori sociali. Bisognerà vedere se il clima di emergenza nazionale, gli appelli che arrivano dal Quirinale su senso di responsabilità di tutti, quindi partiti e anche parti sociali, faranno mettere da parte veti e battaglie di principio. Avviando la discussione e arrivando al traguardo.
N. P.

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