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Il senso dello “smantellamento dello stato sociale”

Lo smantellamento dello Stato sociale

Franco Ferrarotti

In Europa il welfare state non è più in grado di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri

 

Qualcuno l’ha definita la «quadratura del cerchio». È una questione che affligge un quinto dell’umanità – quel quinto privilegiato che non muore di fame (semmai, ha un problema di obesità), gode dell’acqua calda, ha un tetto e un’occupazione più o meno decente – ed è una questione che non si riduce a quelle che, in evidente polemica con l’impostazione marxiana, l’intelligente Daniel Bell chiama le «contraddizioni culturali del capitalismo». Pesca più a fondo. In un mondo in cui gli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, consumano l’80% delle risorse del pianeta, riguarda la possibilità di conciliare gli entitlements, cioè i diritti di cui i cittadini si ritengono legittimi titolari, con le provisions, cioè le risorse effettivamente disponibili nelle nazioni tecnicamente progredite per farvi fronte. Nei paesi più sviluppati, in particolare nell’Europa Occidentale o Unione Europea, nel Nord America e in Giappone, dopo la grande transizione storica dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti, questa tensione fra entitlements e provisions è diventata drammatica. Notavo vent’anni fa che la tensione, di cui discorre ampiamente con il consueto accattivante praticismo di diligente burocrate Ralf Dahrendorf, scaturisce dalle contraddizioni e dai dilemmi dello Stato democratico pluriclasse socialmente orientato, di cui scrivevo nel 1954, introducendo L’azione volontaria di Lord Beveridge in Italia.
Ma lo Stato di cui parlano Beveridge e Dahrendorf non può essere spacciato, se non con inammissibili forzature, per lo Stato sociale di William Beveridge. L’interpretazione spenceriana dello Stato, quella che sottende la posizione liberale tradizionale, è puramente negativa. La formulazione classica di questa posizione la si può trovare in Man versus the State. Essa corrisponde abbastanza esattamente agli interessi delle classi medie al loro sorgere nel mondo moderno, in rivolta contro i residui del dispotismo feudale e appassionatamente devote alla libertà di movimento, di azione e di atteggiamento dell’individuo.
Non c’è strabismo, temo, che possa far scambiare questa situazione storica e culturale con quella italiana. La ricetta di Beveridge contro gli eccessi dell’autoritarismo centrale e il mito dello Stato onnipresente e onnisciente è di natura strettamente pragmatica e non ha riscontro nella cultura politica italiana, salvo forse il caso del gran lombardo Carlo Cattaneo, del resto presto isolato e battuto, con il suo giudizioso, sobrio e tenace riformismo, dalla retorica delle patrie carducciane e dei “soli dell’avvenire” privi di avvenire.
In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Piero Gobetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica, come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C’è di più, e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice Rocco, che solo da pochi anni ha subito varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società viene esaltata come una funzionalità ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde, sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti i campi, mentre alle classi popolari vengono indicati i corsi della “scuola di avviamento professionale”, secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l’intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari.
In Europa lo Stato sociale non è più in grado, oggi, di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. E la Banca centrale europea non è disposta e non è comunque in grado di comprare tutti i buoni del Tesoro necessari a “servire” il debito. D’altro canto, la classe politica non può, non ha né il coraggio né la lungimiranza per imporre drastiche misure, di cui pure riconosce, a parole, la necessità. Ne va della sua rielezione. Sono misure necessarie ma impopolari: imposta patrimoniale, abolizione di vasti parassitismi in tutti i servizi pubblici, elevazione dell’età pensionabile, riforme delle pensioni di anzianità e dell’assistenza sanitaria pubblica.
È chiaro che chi si è battuto in Italia per i diritti sociali e per lo Stato sociale ha avuto una certa quota di illusioni, se non di pura e semplice ingenuità, che una certa vocazione al sarcasmo potrebbe anche presentare come analfabetismo economico o sprovveduta spinta utopistica. Non andrebbe però dimenticata o sottovalutata, dai duri realisti odierni che non perdono occasione per incensare il mercato (che non è più solo italiano – avvertono – ma è anzi europeo, anzi mondiale), la funzione sociale dell’utopia.
Non c’è solo lo Stato. Quando si dice “pubblico”, nella pubblicistica politica italiana e, cosa più grave, nella mentalità media dei politici, si pensa unicamente allo Stato. Pubblico non significa solo statuale, secondo una impostazione essenzialmente statolatrica, che purtroppo non è stata prerogativa solo della destra politica fascista, ma per anni ha anche permeato e seriamente compromesso le prospettive della sinistra innovatrice. Pubblico significa statuale, ma anche, e forse in primo luogo, sociale. La società civile è più ampia dello Stato; non può accettare di venirne tutta assorbita senza correre il rischio di negarsi. Lo Stato, ad ogni buon conto, con riguardo ai diritti sociali, si è mosso in Italia secondo due modalità di intervento largamente insufficienti: da una parte, trasferimenti monetari e, dall’altra, istituzione di servizi sociali erogatori di prestazioni dirette.
Entrambe le modalità di intervento, non solo in Italia, sono approdate ad esiti per certi aspetti negativi. I trasferimenti monetari non garantiscono livelli minimi di sussistenza, tali almeno da far uscire dalle situazioni di povertà e di indigenza cronica – si vedano in proposito le risultanze della Commissione Gorrieri – né fungono da volano per l’economia con l’aumento dei consumi interni, se non marginalmente e per prodotti di uso comune. I servizi sociali, d’altro canto, non sembrano in grado di trarsi fuori dalla spersonalizzante spirale burocratica, autentica maledizione italiana che frustra nel momento dell’implementazione anche le leggi socialmente più avanzate, con incredibili inefficienze, costi e sprechi incalcolabili, insoddisfazione ai limiti del tollerabile da parte dei cittadini-utenti. La visione generosa di Claudio Napoleoni che scorgeva il loro trasformarsi in relazione comunicativa umana, pensando al rapporto tra operatore sociale e utente, in una vena forse non immemore dell’apporto di Lord Beveridge, resta a tutt’oggi un prologo in cielo, se non un’illusione finanziariamente insostenibile.
Il debito pubblico è dunque destinato a crescere. D’altro canto, la classe politica non può permettersi interventi drastici, teme l’impopolarità. I “mercati”, intanto, speculano sulla paralisi; gli interessi sul debito crescono rapidamente, salgono e scendono, ma soprattutto salgono (dall’1,9% ad agosto al 7,3% a novembre 2011). I politici lasciano il posto e passano le leve di comando ai tecnici; almeno loro non hanno da temere le elezioni. Se necessario, sono nominati senatori a vita. Trionfano, nelle loro ovattate stanze, i potentati finanziari, rigorosamente anonimi, ancora giuridicamente “domicili privati”, a vergogna dei giuristi, anche quando le loro inappellabili decisioni incidono sulle condizioni di vita di intere popolazioni. Sono il deus absconditus che comanda a quelli che comandano. Come accadeva in Inghilterra nel Medioevo, quando il boia veniva dalla città vicina, la crisi sociale potrà contare sui suoi anonimi, asettici, ma efficienti macellai sublimati.

da “il manifesto”

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Questo articolo di Franco Ferrarotti – sociologo, fondatore della disciplina in Italia – pone con chiarezza un problema che al giornale in cui è apparso sembra esser sfuggito. Anche perché non sviluppato fino in fondo.

Il contrasto tra diritti e risorse, infatti, è un nodo centrale e costituente le relazioni sociali nello sviluppo della crisi economica. In paesi a capitalismo avanzato, almeno. Ovvero nelle aree in cui la “cultura dei diritti” si è fatta strada grazie a oltre un secolo di lotte operaie. Quando i diritti non possono più esser soddisfatti con le risorse a disposizione, oltretutto distribuite in modo fortemente diseguale, nasce una contraddizione socialmente lacerante. E dato che la disugualianza non sembra rettificabile (“riformabile”) all’interno del meccanismo produttivo esistente, che ha concentrato verso gli “dei” della finanza globale il potere di indirizzo sulle scelte fondamentali, sottraendole forse per sempre ai riti e alle incerte procedure della democrazia formale, ne discende che i diritti non hanno più uno spazio economico (e quindi sociale) legittimo.

Si può sorridere ironicamente quando si ascoltano politici, esperti, neoministri, fustigare pubblicamente “privilegi” che si riducono a un assegno pensionistico o un salario appena decenti (poco sopra il minimo vitale, insomma). Ma non si deve sottovalutare cosa questo fustigare indica come prospettiva a breve termine.

Oltre ai privilegi, infatti, viene costantemente sollevato il “problema” delle crescenti aspettative di permanenza in vita. L’allungamento della vita media, con i suoi corollari “economicamente negativi” – pensione erogata per molti anni, frequente ricorso alla sanità, necessità di “cura della persona non autosufficiente” – viene dunque considerato in modo subliminale un “costo intollerabile”. L’idea capitalistica di efficienza economica vede coincidere al minuto vita lavorativa e vita fisica, senza residui “produttivamente inutili”. In fondo, la pensione è un istituto bismarckiano – non progressista davvero – “tarato” fin dall’inizio sulla coincidenza delle due età, allora (e in Germania) fissata a 65 anni.

Unendo le due fustigazioni in un solo discorso otteniamo una sintesi poco gradevole, ma assolutamente dialettica: siamo troppi. E anche questo è un ragionamento che, a piccole ma decisive dosi, ci viene ammannito da qualche opinionista in bella vista.

Non staremo qui ad assillarvi con lunghi ragionamenti sulla crisi di sovraproduzione; ci limiteremo a ricordare che per “sovraproduzione” – marxianamente – si intende non tanto “eccesso di merci prodotte” rispetto alla domanda solvibile (consumatori con in tasca i soldi per pagarle), quanto “sovraproduzione di capitale in cerca di valorizzazione”. Troppo capitale (non banalmente “denaro”, una forma che prende corpo in una tipografia blindata); ovvero troppi macchinari, vie di comunicazione e trasporto, troppe merci… troppi esseri umani.

Non è la prima volta che si verifica una “sproporzione” del genere in regime capitalistico. La sproporzione – finora, almeno – non è stata infatti tra “dimensioni della natura” e dimensioni dell’umanità. Come sanno anche i sassi il capitale ha ricominciato a “vivere” – ad accumularsi nuovamente – tramite una guerra che provvedeva a distruggere il capitale in eccesso: macchinari, merci, vie di comunicazione, uomini e donne.

Ma…

Ci troviamo al centro di tre crisi convergenti: economica, energetica, ambientale. Tutte e tre ci dicono che “siamo troppi” se pretendiamo di vivere secondo il modello che si è imposto dal ’45 in poi. Specie se pretendiamo di farlo con lo squilibrio distributivo tipico di un “regime di concorrenza”, dove la forza (economica, finanziaria o militare) permette di appropriarsi di grandi quantità di risorse a scapito di altri. Dove l’1% può trattenere per sé buona parte di ciò che al restante 99% va a quel punto negato. La soluzione della “guerra classica” (un imperialismo contro l’altro, milioni di persone richiamate alle armi, trincee e bombardamenti, distruzione di ponti, ferrovie, aeroporti, fabbriche, centri servizi, ecc) non è però più praticabile. Se non nei confronti di avversari di basso rango (talebani, Saddam, Gheddafi, ecc), insufficienti ad abbassare la sovraproduzione esistente. L’arma atomica inibisce la “guerra vera”, contro capitalismi di pari forza e consistenza economica. Si rischia un “successo eccessivo”; un ritorno all’età della pietra o addirittura al predominio di animali inferiori.

E allora, come si fa?

I “troppi” – chiaramente – sono una quota rilevante del 99%. Nulla di più semplice, allora, che cominciare a “sfoltire” riducendo il paniere dei diritti, specie se la “scarsità delle risorse” viene resa evidente agli occhi di tutti. Quanta gente incontrate, al mercato o sull’autobus, già convinta che “purtroppo è necessario fare sacrifici”? Stesse scene negli Stati Uniti, in Germana, in Giappone.

Si può fare, dunque, non serve usare i carri armati. Basta allungare ancora un po’ l’età pensionabile, ridimensionare l’importo degli assegni pensionistici, tagliare la scuola e la sanità pubbliche, ridurre i servizi sociali e il trasporto pubblico… Il resto verrà da sé. Noi poveri invecchieremo prima, ci cureremo di meno, moriremo più giovani. Si farà spazio per semi-schiavi – “liberi”, ci mancherebbe! – molto più produttivi perché sempre giovani. A rotazione accelerata.

I risultati di una guerra mondiale, resa ormai impossibile dalla proprietà un po’ troppo estesa dell’arma nucleare, potranno esser raggiunti in altro modo. Una bella guerra contro “i poveri”. Con la benedizione di tutte le chiese e condotta dai “banchieri di tutti gli dei”. Ossia dagli dei contro gli uomini.

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