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L’Europa affronta la tempesta con una pietra al collo

Nel corso della giornata di venerdì, complice forse il diradarsi della fatica notturna, i risultati del vertice europeo di Bruxelles sono emersi con maggiore nettezza.

Non cambia il giudizio inizialmente dato (“mezzo fallimento”), ma si può precisare meglio.

Intanto sono sparite le “posizioni intermedie”, che davano l’idea di una polverizzazione dell’Unione. L’Ungheria del semi-fascista Viktor Orban ha fatto rientrare la sua contrarietà al trattato a tempi di record, con una resa senza condizioni che sarà un suo problema gestire in patria. E tutti i “malpancisti” (dalla Svezia alla Cechia, ai paesi baltici) hanno ridotto a niente le propri obiezioni. Troppo grave la conseguenza di un “forse” sulle loro economie, in tempi in cui “la speculazione” si sta guardando intorno in cerca di nuove vittime.

Resta fuori la Gran Bretagna e questa non è una notizia. Gli inglesi difendono l’attività di borsa, la City, l’unica vera fonte – per quanto bastarda – di residua influenza sul continente. Ma anche l’unica residua attività capace di attirare capitali. La produzione inglese è ridotta ai minimi termini, il paese ha una moneta sopravvalutata che inchioda le sue esportazioni, tranne che verso gli Usa (in parte). Cameron scommette sul tracollo dell’euro senza capire che sarebbe la sua fine: la sterlina acquisterebbe un valore abnorme, che renderebbe cheap le importazioni ma annullerebbe del tutto quel poco di export che ancora vanta. E un paese che importa soltanto non può andare lontano. Ma la crisi genera i suoi idioti, quelli che servono ad approfondire ancora un po’ le contraddizioni reali, rendendole insuperabili. Cameron sembra volersi conquistare un posto di rilievo, in questa categoria.

La Germania impone il suo modello di governance economica, che è andato bene in questi quindici anni per rafforzare la propria posizione centrale nella produzione e nell’architettura europea, ma diventa suicida se perseguito da tutto il continente, allo stesso tempo, nel pieno della più devastante crisi economca della storia umana. Anche qui, la Merkel e Bundesbank sembrano competere con Cameron per il podio della “categoria”. Sarkozy deve anche ringraziare per esser stato messo al guinzaglio, ottenendo in parte ciò che sperava per arrestare la “crisi di sfiducia” montante sui mercati nei confronti di Parigi. Il taglio del rating alle tre principali banche francesi, proprio ieri, è solo il tassello più recente di questo slittamento verso i Piigs.

Dell’Italia bisognerà parlare a parte, perché il suo governo non esiste più come “rappresentante del paese” in un consesso internazionale, ridotto com’è stato a “rappresentante del capitale astratto” (finanziario e internazionale) all’interno del paese. Monti di fatto ha sponsorizzato quasi senza riserve la posizione tedesca; ma in questo scenario non poteva neppure far altro. Non esistono infatti più i margini di mediazione, in questo meccanismo messo in crisi dalla crisi.

Il risultato è un “patto di bilancio” che inchioda i governi nazionali, espropriandoli della politica economica e fiscale. Una “cessione di sovranità” ovvia in qualsiasi unione sovranazionale, sensata e persino obbligata. Ma che viene effettuata per vie “tecnocratiche”, sotto la regia dominante di un solo paese, mettendo a disposizione del saccheggio finanziario il patrimonio di ricchezza di tutti gli altri paesi, senza procedure democratiche e coinvolgimento delle popolazioni. Le premesse di un fallimento disastroso ci sono tutte.

 

Vi consigliamo qui la lettura di alcuni articoli presi dai giornali di stamattina. Alcuni servono ad avere informazioni più dettagliate sui contenuti dell’accordo europeo (di cui abbiamo pubblicato da ieri anche il testo completo in italiano); altri per ragionare sulle conseguenze che questo stesso accordo mette in moto.

Segnaliamo in particolare l’analisi di Paul Krugman.

 

 

 

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da “il manifesto”

 

Banche – La Ue pensa soltanto a loro

 

Anna Maria Merlo

«Avremmo preferito una riforma dei trattati a 27, ma dal momento che questo non è possibile ne traiamo le conseguenze» ha spiegato Sarkozy, giustificando la scelta del trattato intergovernativo «17+» al posto della grande riforma promessa dalla Germania, bloccata dalla minaccia del veto britannico. David Cameron non si sente isolato, ha difeso la City. Angela Merkel sostiene che è stato «un buon risultato», perché permette all’euro la riconquista della «credibilità». Per Mario Draghi, l’accordo «17+» è una «base per il patto sui bilanci, con più disciplina delle politiche economiche dei paesi membri». Ma, prudente, «aspetta dettagli», prima di intervenire con maggiore solerzia per sostenere i paesi che affondano nei debiti e sono sotto la pressione dei mercati.
Il vertice che ha sancito la fine dell’Europa a 27 è stato un grande successo per le banche. La proposta contenuta nella lettera di Merkozy al presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy – escludere che in futuro i privati paghino i cocci della crisi (come è successo con il downgrading del debito greco), è stata accolta alla grande. Sarkozy si è rivolto alle banche per sottolineare il loro successo: «è molto importante», ha detto, che la Bce abbia deciso il ribasso dei tassi di interesse. Per «la prima volta nella sua storia» Francoforte ha deciso di «prestare a tre anni in modo illimitato e a tassi estremamente basso alle banche europee». La Bce non è garante di ultima istanza per i debiti pubblici, ma largheggerà con le banche (in difficoltà; Moody’s ha abbassato ieri il rating delle tre principali banche francesi). Non sono stati invece approvati gli eurobond, che avrebbero significato una mutualizzazione del debito, cioè una solidarietà tra paesi; cosa di cui le «formiche» – Germania, Austria, Finlandia e Olanda – non vogliono sentir parlare. Il sistema resterà uguale a prima, con le banche al centro del gioco e con il coltello dalla parte del manico. Anche sui «parafulmini» non è stato deciso nulla. Al massimo, se ne riparlerà in un prossimo vertice, non prima di marzo.
Di fatto, il vertice ha deciso che saranno i cittadini a pagare, spremuti dalle cure di austerità. Se si faranno spremere per bene, allora Bce e Mes potranno mostrarsi più comprensivi. «Un’Europa dove vengono sospesi i contratti collettivi, dove il precariato si estende, dove l’età della pensione viene alzata – ha commentato Bernard Thibault segretario della Cgt – nessuno può aderire a questa Europa!».
Le banche devono essere per 114,7 miliardi di euro, afferma l’Eba (Autorità bancaria europea). In Germania, era corsa voce di una possibile nazionalizzazione di Commerzbank, alla ricerca di più di 5 miliardi. In Francia Groupama, assicurazioni, trema. Ma la Bce è comprensiva con le banche e le istituzioni finanziarie. Molto meno verso i popoli. L’occupazione e quello che resterà del welfare dopo i tagli dipenderanno solo dalla salute del settore bancario. Per evitare i rischi di un credit crunch, la Bce ha allargato i cordoni della borsa, ma solo verso le banche.

 

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Pareggio di bilancio nelle Costituzioni, la follia ultima. Forse

 

Francesco Piccioni

Il vertice azzoppato della tarda notte nel pomeriggio è tornato a sembrare un gigante dalle gambe salde.
Recuperati gli indecisi, azzerata l’anomalia ungherese, si è potuta ammirare la dimensione del successo tedesco: un nuovo «patto di bilancio», aggiuntivo rispetto ai trattati europei, che parte dalla disciplina sui conti pubblici e di poco altro si interessa (i «meccanismi di stabilizzazione»). Ma impone di inserire in tutte le Costituzioni nazionali il «pareggio di bilancio», tollerando uno scostamento massimo dello 0,5%.
Diciamola in modo semplice: nel bel mezzo di una crisi globale di dimensioni ancora incomprese, una decisione del genere equivale ad affrontare la tempesta con una pietra al collo. Dà l’impressione della «fermezza» mentre tutto intorno balla a un ritmo indiavolato. Si adatta perfettamente all’immagine che la Germania in questo momento vuol dare di sé (il paese «serio» e «fermo»), mentre proprio la «spensieratezza» degli altri governi europei ha permesso di rafforzare la centralità della produzione e della capacità di esportazione tedesca, trasformando i confinanti in «contoterzisti».
Da questa angolatura la governance rafforzata si articola in regole ferree e sanzioni «automatiche» o quasi, nella convinzione metafisica che i «bilanci sani» degli stati permettano a tutti di comportarsi e competere come fa la Germania. Il doppio vincolo (3% massimo nel rapporto tra deficit e Pil, 60% massimo per quello debito/Pil) diventa un tritacarne in cui verranno infilati parecchi paesi (persino i virtuosi tedeschi superano ormai l’80%), Senza alcuna possibilità di venirne fuori migliorati.
Siamo di nuovo in recessione, dicono tutti i dati macroeconomici. E ogni manovra di aggiustamento dei bilanci pubblici è già di suo una pietra in più nella valanga recessiva. Lo ha spiegato ieri alla Camera il neo-governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, quantificando il decreto Monti in un -0,5%. Ed è perfettamente logico: si taglia la spesa pubblica e si alzano le tasse dirette (Irpef, ecc) e indirette (Iva, tariffe, accise, ecc) facendo così aumentare i prezzi; quindi si riducono i consumi della maggior parte della popolazione (quella a basso reddito). Un fatto che scoraggia la produzione e la distribuzione (a che serve investire capitale per produrre, se quelli che comprano sono sempre meno?), ma soprattutto riduce le entrate dello stato. Meno consumi significa meno Iva, meno Irpef (i licenziati non la pagano più e spendono meno). E qundi, dopo qualche tempo, bisogna di nuovo intervenire per ridurre le spese, aumentare le entrate, fare «riforme» – del mercato del lavoro o delle pensioni – che abbassano il salario (altri consumi in meno). E poi di nuovo.
Mani legate, per sempre, mentre la barca affonda o l’aereo va in vite.
Tutto il documento è pervaso di questa logica, che momentaneamente – ma per poco tempo – favorisce soltanto l’economia tedesca, dissanguando le altre. Un esempio? Gli analisti di Deutsche Bank hanno diramato una nota ai propri clienti in cui si dà «per scontato» che la Grecia uscirà dall’euro e tornerà alla dracma. Pagando probabilmente una svalutazione dei «beni nazionali» del 57,6%, che andrà ad aggiungersi a quella già frutto degli «aiuti» concessi un po’ alla volta in cambio di privatizzazioni e tagli. Senza alcun paradosso: se fosse stata lasciata andare prima avrebbe resistito meglio, l’Europa avrebbe subito un «contagio» minore, la speculazione avrebbe cercato altri bersagli (come ha comunque dovuto fare, dopo aver spremuto il limone di Atene) scontrandosi con una capacità di resistenza migliore.
Sul piano istituzionale, l’accordo di ieri getta le basi di «una più forte integrazione», anche fiscale, «per rispecchiare meglio il nostro grado di interdipendenza». Sarà dunque anche «rinforzata la governance», anche perché va potenziato il fondo salva-stati (Efsf), il «meccanismo europeo di stabilità» e risorse supplementari (200 miliardi) per il Fmi, che dovrà usarli per aiutare gli stessi paesi europei (una partita di giro, per superare una serie di ostacoli giuridici contenuti nei vecchi trattati; per esempio, questo accordo non sarà per ora un «trattato» comunitario, vista l’assenza degli inglesi, ma darà vita a tanti accordi bilaterali).
Meccanismi barocchi e fretta nell’agire non vanno mai a braccetto. E la seconda prevale sempre. Ci rimette la democrazia, ormai del tutto delegata ai vertici e senza possibilità di «revoca del mandato». Non può funzionare. Né durare molto.

 

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«Basta con le sanzioni Merkel» L’opposizione tedesca si ribella

 

Guido Ambrosino

BERLINO
Angela Merkel non raccoglie solo applausi a casa per la sua performance a Bruxelles. C’è una critica se vogliamo “da destra”, che insiste sul largo margine di incertezza su come rendere giuridicamente vincolanti le nuove norme di rigore per i bilanci dei paesi dell’eurozona, una volta che si è bloccata, per l’opposizione della Gran Bretagna, la via maestra della modifica a 27 del trattato di Lisbona.
Ma c’è soprattutto, dopo un lungo periodo di afasia e di subalternità al “pensiero unico”, una critica di sinistra all’unilateralismo risparmioso di Merkel. Non sono più soltanto i soliti socialisti della Linke a protestare. Stavolta si fanno sentire pure socialdemocrati e verdi, addirittura con un documento firmato insieme, polemico sin dal titolo: «L’eurozona non deve fallire per la grettezza del governo tedesco». Alla sinistra politica si unisce una schiera di analisti economici, convinti che l’ingegneria penitenziale sulle regole a poco servirà per ridare “fiducia” ai mercati. E perfino il sindacato unitario Dgb si fa sentire.
Le decisioni di Bruxelles, dice il Dgb, «non avranno effetto a breve termine, e a lungo termine saranno perfino dannose»: mettono in pericolo la coesione sociale, e spingono l’economia sull’orlo del baratro. Invece di far qualcosa per rilanciare la congiuntura, conclude il Dgb, il motto è sempre e solo «risparmiare, risparmiare, risparmiare».
Gli insodisfatti “di destra” fanno notare che il vertice di Bruxelles si è concluso con poco più di una dichiarazione d’intenti, dandosi tempo fino a marzo per riformulare le regole. Ricordano che alla vigilia sia Merkel che Sarkozy insistevano per una modifica a 27 dei trattati, perché, secondo il parere degli uffici studi della commissione europea, solo così si sarebbero potuti imporre vincoli cogenti agli stati. Infatti, sebbene l’euro sia stato adottato solo in 17 dei 27 stati dell’Unione, le modalità dell’unione monetaria vengono regolate nel trattato di Lisbona, costitutivo dell’intera unione, e solo in questo ambito potrebbero venire cambiate efficacemente. A Bruxelles si sono impegnati i governi, proseguono i critici. Ma che succederà se in Francia vincessero le prossime elezioni i socialisti di Hollande? I socialisti hanno già la maggioranza al senato, e potrebbero bloccare l’introduzione della norma costituzionale bloccadeficit voluta da Sarkozy.
Il blocco conservatore ha ancora la maggioranza tra i governi europei. Ma la rottura con i conservatori britannici lo spacca. E, come che sia, i governi passano. Potrebbero passare anche in Germania. Per questo è interessante che la Spd si stia riprendendo dalla sua recente sbandata per la “cultura della stabilità”. Non bisogna dimenticare che la norma bloccadeficit nella costituzione tedesca, presa a modello a Bruxelles, è un’escogitazione dell’ultima grande coalizione, dovuta in buona parte all’allora ministro socialdemocratico delle finanze Peer Steinbrück.
Adesso, invece, il presidente della Spd Sigmar Gabriel si tira fuori dal coro. Secondo lui c’è bisogno di molto più di norme frenadebito. Invece di puntare a una «vera politica comune per l’economia e la finanza», la cancelliera insiste solo per una «unione delle sanzioni», che certo non basta.
Quello di Gabriel non è uno sfogo estemporaneo. I massimi dirigenti della Spd e dei verdi, con l’aiuto di Peter Bofinger, uno dei “cinque saggi” della consulta per l’economia, hanno redatto un lungo documento contro l’unilateralismo tagliaspese della Merkel, pubblicato l’8 dicembre sul sito della Süddeutsche Zeitung: «Il governo, chiedendo ossessivamente sempre nuove misure di austerità, e rifiutando seccamente ogni misura che potrebbe rassicurare i mercati finanziari, mette in pericolo la stabilità dell’unione monetaria europea e dell’intero sistema finanziario europeo».
Nelle conclusioni di Bruxelles la copresidente della Linke, Gesine Lötsch, vede solo «pene draconiane per i paesi che spendono troppo», ma la completa rinuncia a imporre una qualche disciplina sul fronte delle entrate. O omissione per lei «incomprensibile», perché invece bisognerebbe, con degli standard minimi sulla tassazione della ricchezza, attingere ai 27 miliardi di patrimoni privati in Europa per contrastare la crisi.

 

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Cameron? Il medico dei salassi uccidi-crescita

Paul Krugman

Di questi tempi i profeti di sventura come il sottoscritto hanno un problema di abbondanza: le cose stanno andando talmente male, in talmente tanti posti, che quasi non sappiamo da dove cominciare.
Ma è il caso di riservare qualche riga a un disastro che è stato messo in ombra dalla crisi dell’euro: l’esperimento di austerity della Gran Bretagna.
Nel 2010 entrò in carica il Governo del primo ministro conservatore David Cameron, convinto seguace della dottrina secondo cui il rigore nei conti pubblici porta espansione economica. Gli esponenti del Governo dicevano a tutti di leggere il saggio degli economisti Alberto Alesina e Silvia Ardagna (concisamente criticato da Christy Romer, l’ex presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente Obama, nel corso di un discorso tenuto recentemente all’Hamilton College, che potete leggere sul sito econ.berkeley.edu), che citava l’Irlanda come esempio di successo, e in generale raccontavano a destra e a manca che sarebbero riusciti a evocare l’introvabile fatina della fiducia.
Ora si è scoperto che le politiche antiespansive sono davvero antiespansive. E il risultato è che nonostante tutti i tagli alla spesa i deficit rimangono alti. E che facciamo allora? Tagliamo ulteriormente la spesa!
Questa richiesta di ancora più austerity si basa sulla convinzione che le prospettive di crescita economica della Gran Bretagna si sono drasticamente ridotte, e che d’ora in poi la crescita segnerà il passo. Ma perché? Un rapporto pubblicato il mese scorso dall’Ufficio per la responsabilità di bilancio del Governo inglese in sostanza se ne lava le mani: sono cose che succedono dopo le crisi finanziarie, dice, e cita un rapporto del Fondo monetario internazionale del 2009 sulle dinamiche della produzione dopo le crisi bancarie iniziate a settembre 2008.
Ma mi chiedo: questi funzionari hanno letto almeno l’abstract del rapporto del Fmi? Perché questo è quello che c’è scritto: «Gli stimoli monetari e di bilancio a breve termine sono associati a deviazioni a medio termine meno accentuate rispetto al trend di produzione e al trend di crescita del periodo precedente alla crisi».
In altre parole, la storia dice che una crisi finanziaria riduce le prospettive di crescita sul lungo termine se le autorità non intervengono per porre rimedio ai danni a breve termine provocati dalla crisi stessa.
Eppure quello che succede in Gran Bretagna è che le stime negative delle potenzialità a lungo termine dell’economia vengono usate per giustificare ancora più austerity, che sul breve termine deprimerà ancora di più l’economia, che porterà a ulteriori revisioni al ribasso delle prospettive di crescita, che porterà a…
È esattamente come un medico medievale che salassa il paziente, osserva che le condizioni del paziente peggiorano invece di migliorare e decide che la soluzione è salassarlo ancora.
E la cosa veramente terribile è che il capo del governo inglese David Cameron e George Osborne, il cancelliere dello scacchiere, sono identificati a tal punto con la dottrina del rigore che cambiare rotta per loro significherebbe il sicuro suicidio politico.
Come dicono gli inglesi, brillante. Davvero brillante.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

 

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da Il Sole 24 Ore

Si tratta per l’euro ma per Deutsche Bank il “malato” Grecia è spacciato e il ritorno alla dracma scontato

Andrea Franceschi

Un’implosione dell’euro e un ritorno alle valute nazionali è un’eventualità che ha «zero probabilità» di manifestarsi. Mario Draghi, numero uno della Bce ha risposto così ai giornalisti che gli hanno chiesto di commentare i piani di emergenza, di cui ha parlato il Wall Street Journal, che le banche centrali starebbero mettendo in atto per prepararsi a un’eventuale crollo della moneta unica. Una risposta per rassicurare le paure di un baratro post moneta unica che il ministro delle Finanze francese per gli Affari europei Jean Leonetti ha esplicitamente evocato nei giorni scorsi («L’euro potrebbe esplodere»).

Dichiarazioni a parte, è un dato di fatto, che ormai anche le eventualità più catastrofiche vengono prese in considerazione. E se l’implosione dell’euro è altamente improbabile, lo stesso non può dirsi per un eventuale ritorno alla dracma della Grecia. In una nota inviata ai propri clienti per esempio gli analisti di Deutsche Bank hanno avvertito che i mercati stanno già scontando un’uscita dall’euro del “malato terminale”. La dimostrazione sarebbe nel fatto che «i bond greci regolati dal diritto britannico vengono trattati a un prezzo maggiore rispetto a quelli collocati con le regole delle legislazione greca».

«Se Atene esce dalla moneta unica – spiega Sergio Capaldi economista di Intesa Sanpaolo – i titoli di stato potrebbero essere rimborsati nella nuova valuta nazionale, pesantemente svalutata. Questa è un’eventualità probabile soprattutto per i titoli regolati dalla legislazione greca. Quelli di diritto britannico (emessi per attirare gli investitori istituzionali, ndr) hanno clausole più compatibili con gli standard internazionali e pertanto offrono maggiori garanzie in questo senso. Ecco perché hanno un prezzo più alto».

Insomma, se un’implosione dell’euro ha «zero probabilità» come dice Draghi, l’uscita del paese più debole (da cui è partito il contagio) non è del tutto esclusa. Ma quanto potrebbe valere la nuova dracma? In un recente report gli analisti di Nomura ha provato a rispondere a questa domanda tenendo conto della competitività delle singole economie dell’Eurozona e dei rischi inflattivi.

La più colpita sarebbe appunto la Grecia che vedrebbe la sua nuova moneta svalutarsi del 57,6%. Secondo la simulazione degli analisti la “nuova dracma” potrebbe valere circa 57 centesimi di dollaro. Una eventuale nuova moneta portoghese invece varrebbe 71 centesimi di dollaro con una svalutazione del 47,2%. Al terzo posto tra i più colpiti da un crollo dell’euro gli analisti di Nomura piazzano la Spagna. La nuova “peseta” varrebbe 86 centesimi con una svalutazione del 35,5 per cento. Madrid sarebbe messa peggio dell’Irlanda, che ha dovuto fare ricorso al salvataggio. Un eventuale abbandono dell’euro costerebbe a Dublino una svalutazione del 28,6%. Quanto potrebbe valere invece la “nuova lira” italiana? Gli analisti di Nomura stimano una svalutazione del 27,3% e un tasso di cambio con dollaro fissato a 97 centesimi. Chi invece subirebbe il fenomeno inverso è invece la “solida” Germania. In caso di implosione dell’euro il nuovo marco diventerebbe valuta rifugio e si rivaluterebbe, cone effetti inevitabilmente negativi per l’economia tedesca trainata dalle esportazioni.

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