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La Costituzione aggirata e il governo a-democratico

Di particolare interesse quello di Zagrebelski, che è costituzionalista di vaglia. Entrambi sono stati, con più o meno entusiamo (molto meno Galli Della Loggia), dei tifosi partecipi della caduta del berlusconismo. Entrambi continuano a sostenere questo governo e le politiche che sta per varare. E chiaramente sono distanti da noi anni luce.

Proprio questa distanza, però, permette di vedere con chiarezza il mostro nascosto dietro la leggerezza con cui è stato accettato nel paese un governo a-democratico, chiamato per realizzare un programma che i partiti – trait d’union con la società – non potevano mettere per intero all’ordine del giorno (e non che tra Sacconi, Brunetta e Gelmini abbiano “fatto poco” nella stessa direzione).

Il nostro invito alla lettura, dunque, è rivolto a far cogliere il tema fondamentale dello “stato di diritto”: quando l’eccezione irrompe nella normalità della dialettica politico-sociale, anche se per “risolvere pacificamente” alcune delle sue disfunzionalità, per questo solo fatto devasta il tessuto di relazioni e interdipendenze chiamato democrazia.

La distinzione operata da Zagrebelski tra “legalità costituzionale” – rispettata – nella formazione di questo governo e “sostanza costituzionale” (ampiamente aggirata) è un passaggio fondamentale nell’individuazione del mostro.

In filosofia il tema è stato dibattutto a lungo (tra Hans Kelsen e Karl Schmitt, per esempio) e possiede un fascino indiscutibile: l’impossibilità di fissare una regola che cambia il sistema di formulazione delle regole. Un po’ come la matematica, che non può dare una spiegazione dei propri princìpi fondanti (degli assiomi) secondo le proprie stesse regole.

In politica, cioè nella Storia, l’apparire del problema è stato sempre piuttosto “traumatico”, diciamo così. Perché si definisce come il punto di passaggio dalle democrazie alle dittature. Ma non viceversa.

 

 

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La democrazia senza i partiti

Zagrebelsky Gustavo

 

Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?

Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?

La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all’approvazione del Parlamento. Non c’è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.

Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Percostoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di op -posizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco-ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.

Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d’iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all’incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.

È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire equalcos’altro incomincia).

Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandierabianca, riconoscendo lapropria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leaderpolitico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi icosti da pagare per il risanamento o, addirittura, perla salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l’opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l’unica via d’uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l’au-todichiarazione di bancarotta.

Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande “classe dirigente”, che cogliesse l’occasione propizia per mostrarsi capace d’iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?

Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all’altezza della situazione. Si e no. Si, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d’essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che ipartiti, meno sifanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un’evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un “metterci la faccia”, ma un cercare di “salvarsi la faccia”.

In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l’approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.

Ma c’è dell’altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d’altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per “concorrere con metodo democratico alla politica nazionale”, come dice l’articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell’indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell’opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo s i trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.

Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti-del disastro che si produce quando le forze della rappresentanzapoliticae sociale siritirano a favore di soluzioni tecnocrati-che, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l’ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.

E allora? Allora, il rischio è che, “quando tutto questo sarà finito” ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovateetrasparenti, uominie donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che “scendono in campo”, ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.

 

 

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Stato d’eccezione ma non se ne parla

Emergenza e diritto costituzionale il silenzio sullo stato d’eccezione

Galli Della Loggia Ernesto

All’ordine del giorno nelle vicende della Repubblica è oggi uno dei temi chiave della grande riflessione polito-logica del Novecento: lo «stato d’eccezione». Cioè quella condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazione di emergenza, le sue regole sono sospese, a cominciare da quelle riguardanti la formazione del governo e l’ambito dei suoi poteri. La sospensione può avvenire in via di fatto o di diritto, anche se per ovvie ragioni sono ben poche (almeno a mia conoscenza) le costituzioni democratiche che prevedono, al di fuori del caso di una guerra, le procedure per dichiarare lo stato d’eccezione e i modi di questo.

Che con il varo del governo Monti l’Italia si sia trovata virtualmente in una condizione del genere lo ha ricordato in un editoriale di Avvenire (4 dicembre scorso) Marco Olivetti parlando di «una vera e propria crisi di sistema» che ha colpito il Paese, e di «duolo eccezionale» svolto dal presidente della Repubblica. Aggiungendo subito dopo: «Quando la macchina dell’ordinario funzionamento delle istituzioni si inceppa, il presidente (come il re negli ordinamenti monarchici da cui la nostra presidenza deriva) è una sorta di “motore di riserva” che entra in funzione, fino al punto di diventare una sorta di reggitore sussidiario del sistema (corsivo mio, ndr), al fine di consentire che esso riprenda a funzionare. Dalla fine di ottobre ad oggi Napolitano ha svolto eccellentemente questo ruolo». È senz’altro questo ciò che è accaduto, e l’Italia deve essere certamente grata al suo presidente per l’avveduta prontezza con cui egli è intervenuto come «motore di riserva». Ciò nondimeno sono sicuro che con la sua cultura democratica Napolitano per primo si renda conto degli interrogativi non irrilevanti che l’azione a cui è stato costretto suscita. Che sono principalmente due. Primo: quali sono le condizioni — non previste in alcun luogo della Costituzione, è bene ricordarlo — che rendono necessario, per usare la metafora di Avvenire, un «motore di riserva»? E secondo: chi è che decide quando esse si verificano? Ad esempio, la decisione dei primi del 1994 del presidente Scalfaro di sciogliere le Camere contro la volontà della maggioranza dei parlamentari, o, per dirne un’altra, la lettera assolutamente irrituale con cui pochi mesi dopo lo stesso Scalfaro mise di fatto sotto tutela il neonato primo governo Berlusconi, con il farsi personalmente garante della sua conformità democratica, rientrano o no nella fattispecie del «motore di riserva»?

Che sull’insieme di tali questioni ci sia urgente, anzi urgentissimo, bisogno di una discussione approfondita lo testimoniano alcune interpretazioni della nostra Costituzione che sulla scia degli ultimi avvenimenti stanno vedendo la luce, e che a me sembrano del tutto prive di fondamento e nella sostanza assai pericolose. Ne cito una per tutte, considerata l’indubbia autorevolezza dell’autore e la sua influenza sull’opinione pubblica: quella avanzata da Eugenio Scalfari su La Repubblica (4 dicembre scorso).

Auspicando che il governo Monti — il quale a suo dire «realizza in pieno il ritorno alla Costituzione» — rappresenti l’annuncio di un’auspicabile «Terza Repubblica» (data tuttavia per «già cominciata» nell’ultima riga dell’articolo), e dopo aver sottolineato che non è affatto detto che quando esso «avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi tutto debba tornare come prima», Scalfari scrive di augurarsi che d’ora in poi «i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza» (corsivo mio, ndr). E ribadisce poco dopo che la scelta dei ministri «spetta al capo dello Stato» e non ai partiti, essendo questa secondo lui «una distinzione fondamentale che preserva l’essenza del governo-istituzione». Come possa un presidente della Repubblica con un tale ruolo, un presidente della Repubblica che decide la composizione dei governi, che ne sceglie i ministri, rappresentare d’unità nazionale» è argomento su cui il nostro autore non si diffonde. Così come non si ferma a chiarire in quale modo il presidente del Consiglio possa «avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri» — come pure egli vorrebbe — una volta che tali suoi ministri, anziché scelti dal premier stesso, fossero stati designati, invece, niente di meno che dal capo dello Stato.

Come si vede, insomma, sta nascendo nel Paese, sull’onda degli ultimi rivolgimenti, una grande voglia di novità. Che investono anche, come io personalmente credo sia giusto e ormai improrogabile, anche parti decisive dell’assetto costituzionale dei poteri pubblici. Ma questa voglia di novità deve manifestarsi all’insegna della chiarezza, attraverso una grande discussione pubblica che veda in prima fila, innanzitutto, gli studiosi di diritto costituzionale (perlopiù finora, invece, singolarmente timidi e abbottonati, pur di fronte a cose di grande rilievo e nonostante il loro frequente atteggiarsi a «guardiani della Costituzione»). In un Paese democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attraverso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima.

 

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