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Limiti e risorse: una “guerra di civiltà”

Repubblica è uno strano giornale, animato da una perversa ansia di “governabilità liberista”, ma ancora popolato di anziani collaboratori storici di grande intelligenza, esperienza, umanità. Così, dopo aver dovuto bastonare ieri Roberto Mania per l’improvvida sciocchezza sull’art. 18 che varrebbe 200 punti di spread, oggi dobbiamo prendere spunto da due importanti articoli – molto seri – di Barbara Spinelli e Stefano Rodotà.

La prima se la prende, un po’ lateralmente, con l’odio dei ricchi verso i poveri che traspare dalle parole di quasi tutti gli attuali ministri, a partire da Monti per finire a Martone. Il secondo ci fa sapere che addirittura Deutsche Bank si è inventata “il bond della morte”, un nuovo prodotto finanziario per scommettere sulla durata – più breve possibile – di un elenco di persone.

Apparentemente non c’è legame. secondo noi sì. Ma vogliamo aggiungere – per dare un po’ il senso della complessità del tema – la “crisi del gas”  e “l’emergenza neve”. L’insieme che si viene a costituire ci restituisce dunque due elementi critici di cui si parla pochissimo, e solo in ristretti circoli di intenditori (scienziati e filosofi, in genere). Parliamo dei limiti che continuamente sorgono davanti all’azione umana condotta secondo le regole del capitalismo e della cultura che anima i decisori in questo momento in sella.

Che si possa vivere secondo i ritmi “normali” anche in condizioni “eccezionali” è illusione caratteristica del solo capitalismo. In nessun altra cultura, infatti, esiste l’idea che quando la natura si mostra con livelli di potenza che “ci” superano si abbia comunque il “diritto” di non modificare in nulla le nostre abitudini, impegni, ritmi. Le infinite polemiche sulla protezione civile o sulla patente incompetenza universale di Gianni Alemanno non ci interessano. Se nevicasse a Rio de Janeiro nessuno pretenderebbe migliaia di spazzaneve pronti a intervenire; la città si fermerebbe per il tempo necessario a far sciogliere l’imprevisto. Al contrario, a Milano o Lugano o Stoccolma è “normale” aver costruito un sistema che permetta di continuare a “fare” anche quando nevica. Entro certi limiti, comunque, perché il mondo fisico non è bypassabile. Una considerazione banale, ma che nemmeno viene presa in considerazione dai tanti pirla che sipetono da ogni microfono a l bancone del bar la stessa frase: “ma ti pare che nel 2012 ci dobbiamo fermare tutti per 10 centimetri di neve?”. Sono gli stessi che aspettavano il soccorso alpino per veder spalare quei dieci centimetri nel cortile di casa.

Che arrivi alle nostre case – o al distributore di benzina – tutta l’energia di cui abbiamo bisogno, nella misura e nell’attimo in cui ci serve, è un’altra illusione che però siamo ormai tutti abituati a considerare normale, una “conquista di civiltà” che non può più essere messa in discussione. Un art. 18 della comodità del vivere, insomma.

E invece no. Abbiamo scritto più volte che la crisi iniziata nel 2007 con la bolla dei mutui subprime non era “solo” economica, ma compresente con quelle energetica e ambientale. I “limiti fisici” si aggiungono a quelli economici. Un pianeta “finito” (in senso geometrico: con dimensioni misurabili e misurate) non può fornire risorse naturali non riproducibili in-finite. Un ecosistema che ha tempi di smaltimento chimico-fisici immodificabili per ogni sostanza immessa in circolazione non può sostenere un ricambio accettabile oltre una certa soglia.

In questo marasma si muovo sette miliardi di esseri umani. E non c’è giorno che i “decisori” – ci parlino di pensioni, lavoro o futuro – non ci ripetano, tra le righe, “siamo troppi, vivete troppo a lungo”. Il “noi” e il “voi” non sono usati a caso, dicevamo già in un editoriale di qualche tempo fa.

Non è quindi un caso che a una persona intelligente come Spinelli abbia ravvisato in Thomas Robert Malthus l’ispiratore filosofico delle frasi apparentemente “spontanee” che salgono alla labbra di Monti, Fornero, Cancellieri, Martone… e Napolitano. Né che un altro attento osservatore del presente ignobile abbia visto nei “bond della morte” un segno tangibile della stessa cultura, tradotto – com’è giusto – in prodotti finanziari.

Del resto, se il progresso tecnologico consente di aumentare la produttività del lavoro, se il benessere relativo del secondo dopoguerra ha consentito un boom nelle crescita della popolazione mondiale, è ovvio che l’umanità si trova davanti a un bivio, duramente segnalato dalla compresenza delle “tre crisi”: o trova un modo di produrre e consumare “controllato”, non anarchico, non indifferente ai limiti fisici né a quelli sociali, oppure – per mantenere in vita il modo di produzione capitalistico  (anarchico, incontrollato, indifferente agli uomini) – si deve procedere a una drastica riduzione delle quantità di popolazione circolante per il mercato globale.

A quanto pare, anche la cultura filosofica del capitale sta procedendo all’indietro: da Keynes a Proudhon (la breve stagione craxiana) a Malthus. In attesa di Hobbes e del Leviatano.

E Repubblica? E’ già in linea con questi tempi. I giovani per il lavoro sporco, i “grandi vecchi” per mantenere una patina di “civiltà”. Tanto sono già, vecchi, no? A proposito: hanno messo anche loro nell’elenco dei “bond della morte”?

 

 

 

 

 

Lo spettro di Malthus si aggira per l’Italia

di BARBARA SPINELLI

C’È una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso (“Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!”). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: “È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po’ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po’ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci”.
Resta tuttavia l’inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un’esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, “i governi politici hanno avuto troppo cuore”, accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore – “esuberante”, contaminato da “buonismo sociale” – è apparso moralmente pernicioso.
Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull’articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare – disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà – fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent’anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c’è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: “Parlateci di queste ‘condizioni accettabili’, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi”. Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d’animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull’impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d’aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell’unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).

È come se Monti, più o meno consapevolmente, “si sbagliasse d’epoca”, e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell’amore), si è passati all’algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L’impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c’è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.

Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del “dramma pedagogico” che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l’esistente. Somiglia un po’ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d’esser re, che ordina al sole d’alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l’alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell’ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo.

Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c’è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l’è presa con gli studenti che finiscono tardi l’università, chiamandoli sfigati (l’aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.

Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell’altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c’è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un’attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell’utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l’istinto riproduttivo s’attenuasse: “Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l’errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano – intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse – di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l’impazienza, qualora s’esprimesse con atti criminosi”.

Malthus bussa alle porte d’Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un’austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza esser penalmente perseguibili. Sull’Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ’20-30. Sull'”ondata mondiale di rinazionalizzazioni”, che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e “trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso”. In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.

 

 

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Se le banche lanciano i bond della morte”

di STEFANO RODOTÀ

NELLA frenetica ricerca di nuovi “prodotti finanziari”, con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i “bond morte”.
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa “vita di scarto”, la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un “grado zero” dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno “persone”, disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle “non persone”, gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che “la dignità umana è inviolabile”. È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e “revisioniste” sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei “bond morte”. È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.

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