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Falsificazioni non innocenti: Alesina e Ichino al lavoro

Il governo ce ne dà una rappresentazione plastica: quasi nulla di quel che viene detto è vero. E ogni parola detta significa l’esatto contrario di quel che – a termini di dizionario – dovrebbe.

Ma anche fuori da palazzo Chigi c’è chi si affanna a convincere la popolazione, o almeno i lettori dei media su cui scrivono, che se qualcuno ti vuol trasformare in uno schiavo lo fa soltanto per il tuo bene.

L’articolo che qui di seguito proponiamo, del duo Alberto Alesina e Andrea Ichino (fratello del più noto Pietro, ma altrettanto letale), è un capolavoro di falsificazione dei dati. E vediamo perché.

I due partono sostenendo che la tutela dal licenziamento (l’art. 18, naturalmente) comporta un “minor salario” per il singolo lavoratore. Astraendo completamente dalla dinamica contrattuale (maggiore è il potere dei lavoratori associati, maggiore è il salario, in genere), dalle fasi economiche (se l’economia si espande aumenta l’occupazione ed anche i salari, in recessione accade il contrario) e persino dal buon senso, Alesina e Ichino paragonano il contratto di lavoro a una “forma di assicurazione”. E non, secondo prassi, un normale scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione.

La prima conclusione è dunque assolutamente fasulla: il “posto fisso” non conviene nemmeno a chi ce l’ha, perché così “guadagna meno”. Inutile dilungarsi nello spiegare che la tutela contrattuale stabilisce i “minimi” salariali e non i massimi, e che quindi nulla impedisce a un’impresa di concedere, o persino a un singolo lavoratore di chiedere, un salario superiore a quello contrattuale. I due non intendono confrontarsi con la realtà, ma solo convincerci della dannosità “per noi” della tutela occupazionale.

Sta di fatto che però anche loro debbono prendere atto che nel mercato reale – non in quello immaginario – i lavoratori precari guadagnano addirittura meno di quelli “garantiti” (“Ma allora perché in Italia sembra che i lavoratori precari abbiano non solo un posto insicuro ma anche una retribuzione inferiore? ). Quel “sembra” è già di per sé una grandissima innovazione nella retorica truffaldina, vale da sola il prezzo del giornale.

Ma i due debbono dare anche una risposta per questa realtà “apparente” così riottosa ai loro precetti. E naturalmente ciò avverrebbe “Perché i lavoratori protetti, ossia i dipendenti pubblici e quelli nelle aziende sopra i 15 dipendenti, sono difesi dai sindacati mentre i giovani precari no. A loro sono lasciate le briciole in una specie di sala d’attesa in cui il giovane invecchia aspettando che qualche lavoratore protetto vada in pensione e liberi il posto sicuro”.

Ognuno che lavori in un’azienda reale di questo paese sa che l’iscrizione a un sindacato, nemmeno troppo “combattivo”, è consigliabile per il singolo lavoratore solo se il posto è fisso. Perché altrimenti si viene  licenziati senza tanti problemi. Quindi “i sindacati” si ritrovano a poter raccogliere iscritti – e quindi a rappresentare – solo tra i lavoratori sottoposti a un ricatto in meno. Però dobbiamo segnalare l’afflato di chiacchiere commosse per quei poveri giovani cui sono state lasciate “le briciole”… come se la loro condizione infame non fosse stata permessa da legislazioni infami (rigorosamente bipartisan, tra “pacchetto Treu” e “legge 30”) che hanno trovato ai tempi l’entusiastico sostegno degli Alesina e degli Ichino (tutti e due). E sorvolando sull’ultima “riforma delle pensioni” che, elevando fino ai 66 anni – per ora – l’età pensionabile, allontana ancora di più per i giovani il momento dell’ingresso al posto di qualche “anziano”.

Questo curioso rovesciamento delle responsabilità – dai legislatori ai sindacati – è un secondo pezzo di bravura che distingue sobriamente un “professore” da un gazzettiere.

Ma anche un professore (anzi: due) commette qualche svarione per eccesso di sicurezza. E infatti scrivono “ognuno deve essere libero di stipulare il contratto che vuole, sopportandone le conseguenze”. Siamo in Italia, ricordiamocene. Il paese dove – nella principale azienda metalmeccanica, la Fiat – è stato cancellato non solo il diritto di ogni singolo dipendente di poter “votare” sul contratto che ne regola prestazione e retribuzione, ma persino il diritto di scegliersi il sindacato da cui farsi rappresentare o dentro cui militare. La riprova? A Pomigliano, su quasi 2.000 “nuove assunzioni”, dalla “vecchia” Fiat Auto alla “nuova” Fabbrica Italia Pomigliano, neppure un iscritto alla Fiom o ai sindacati di base ha trovato per ora posto. Siamo insomma nel paese in cui si pratica la “pulizia etnica” sui posti di lavoro, non in quello in cui “ognuno stipula il contratto che vuole” (può accadere forse solo per i due scriventi, costretti però a “sopportare la conseguenza” di scrivere quel che alla proprietà – in cui è presente con forza anche la Fiat – piace. Due “spiriti liberi”, in tutta evidenza.

E’ finita? Macché… “un’indagine recente di Renato Mannheimer dimostra che l’84% dei giovani italiani sarebbero disposti a guadagnare di meno pur di avere un posto fisso”. Il ragionamento economico sarebbe abbastanza semplice anche usando le categorie della teoria liberale: in questo momento c’è molta disoccupazione, quindi un eccesso di domanda di lavoro, il prezzo della prestazione (anche nella “percezione” dell’aspirante lavoratore) si abbassa. Naturalmente, si cerca istintivamente una “compensazione” che bilanci questa diminuzione; che, guarda un po’ la stranezza, viene individuata nel “contratto a tempo indeterminato”. Pochi soldi va bene, ma almeno tutti i mesi. Non tre sì e sei no. Ovvio, scontato, logico. Ma ai due prof. risulta insopportabile.

E qui arriva l’arma di distruzione di massa finale: in un mondo di “posti fissi” il welfare viene fatto dalla famiglia. E’ la situazione italiana, non una condizione universalmente “necessaria”. Non c’è insomma nessuna automaticità tra un prevalere di posti fissi e predominio del welfare familiare. Qui, dove i giovani non trovano un’occupazione con una retribuzione continuativa e di livello accettabile, c’è la necessità di “rimanere in casa più a lungo”. Altrove – Germania, Francia, Austria, senza andare tanto lontano – i ragazzi si autonomizzano prima perché lavorano meglio pagati. E hanno pure tutto il welfare che serve (un po’ meno di prima, anche lì, ma insomma…).

Giunti a questo punto, l’impressione che i due vogliano distruggere la “famiglia italiana” è così forte che loro stessi debbono fermare un attimo la macchina argomentativa (“Sia ben chiaro: la famiglia italiana ha dei benefici enormi di cui dobbiamo andare orgogliosi”). Ma solo un attimo.

Come per il rapporto tra legislazione precarizzante e “predilezione” sindacale per i lavoratori tutelati, qui viene operata un’altra inversione falsificante.

Un sistema di welfare basato sulla famiglia riduce la mobilità geografica e sociale e ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese. Per poter godere del welfare familiare, che aiuta anche a trovare un impiego grazie ai contatti dei genitori più che alle reali capacità, i giovani promettenti frequentano università mediocri sotto casa o non si allontanano per trovare un posto di lavoro migliore e più adatto alle loro caratteristiche. La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi anche perché le imprese possono imporre condizioni retributive peggiori non dovendo temere che i lavoratori si spostino altrove se trattati male”.

Insomma: il welfare pubblico “funziona male” non perché sia stato ridotto a nulla a forza di tagli, ma perché i “troppi posti fissi” obbligano i giovani a restare “vicino a mammà”, studiando peggio (sulla distruzione dell’università pubblica nemmeno una parola, vero prof?), qualificandosi meno, diventando “meno produttivi” e quindi meno pagati.

Alesina nel paese delle meraviglie… Ci manca soltanto lo stregatto del Cheshire, poi il mondo rovesciato diventerebbe “vero”.

Se il posto non è fisso il salario va alzato

I benefici del posto fisso (per chi lo ha) sono ovvi. La domanda rilevante è: quanto costa la garanzia del posto fisso al singolo e alla collettività? Un fatto spesso ignorato è che questo costo non è nullo anche per chi il posto fisso già ce l’ha. A parità di altre condizioni, per godere della protezione offerta dall’articolo 18 il lavoratore riceve una retribuzione inferiore a quella che otterrebbe se rinunciasse alla tutela contro il licenziamento. L’imprenditore, infatti, privato della possibilità di licenziare qualora il posto diventasse in futuro improduttivo, sopporta un costo potenziale aggiuntivo, oltre alla retribuzione. Se è disposto a pagare il lavoratore 100 mantenendo il diritto di licenziarlo, vorrà pagare solo, diciamo, 90 per assumerlo senza possibilità di licenziamento. La differenza è una sorta di premio di assicurazione che il lavoratore paga al datore di lavoro per correre meno rischi.Un contratto di lavoro con salario fisso e sicurezza del posto è in qualche misura anche un contratto assicurativo. Ovviamente più i rischi economici per l’impresa salgono, più l’impresa vorrà far pagare ad alto prezzo questa assicurazione e più basso sarà il salario di un lavoratore con il posto fisso. In periodi turbolenti come questo, quindi, il posto fisso costa molto al lavoratore, perché offrire assicurazione costa di più alle imprese.

Ma allora perché in Italia sembra che i lavoratori precari abbiano non solo un posto insicuro ma anche una retribuzione inferiore? Perché i lavoratori protetti, ossia i dipendenti pubblici e quelli nelle aziende sopra i 15 dipendenti, sono difesi dai sindacati mentre i giovani precari no. A loro sono lasciate le briciole in una specie di sala d’attesa in cui il giovane invecchia aspettando che qualche lavoratore protetto vada in pensione e liberi il posto sicuro. Per farsi un’idea dell’entità del premio assicurativo che grava sul lavoratore con posto fisso basta pensare al diverso costo orario, al netto di tasse e ammortamento attrezzi, del lavoro di un idraulico dipendente a tempo indeterminato e del lavoro dello stesso idraulico quando lo consultiamo in veste di artigiano. Più in generale, per un lavoratore metalmeccanico, la stima di Piero Cipollone e Anita Guelfi (Banca d’Italia, Temi di discussione 583/2006) è compresa tra il 5 e l’11 per cento.

Tuttavia, se il costo fosse solo questo non ci sarebbero problemi: ognuno deve essere libero di stipulare il contratto che vuole, sopportandone le conseguenze. E infatti un’indagine recente di Renato Mannheimer dimostra che l’84% dei giovani italiani sarebbero disposti a guadagnare di meno pur di avere un posto fisso. Nell’attuale situazione di apartheid invalicabile che divide i lavoratori super protetti dai “paria” privi di qualsiasi tutela o welfare statale, chi potrebbe dare loro torto?

La soluzione che propone il sindacato è semplice: diamo a tutti il posto fisso. Ma è un’utopia pensare che si possa mantenere costantemente un’occupazione sicura ed elevata per l’intera forza lavoro in questo modo. Il tentativo (vano) di garantire il posto fisso a tutti ha invece dei costi considerevoli per la collettività (oltre a quelli individuali) di cui pochi nel dibattito italiano sembrano voler tener conto. Un mondo incentrato sul posto fisso è un mondo in cui il welfare lo fa la famiglia, con le risorse guadagnate dal padre (tipicamente unico a godere della sicurezza) e distribuite ai familiari dalla madre che spesso lavora in casa, con nonni e figli adulti che vivono insieme e si assistono gli uni con gli altri. Un mondo in cui lo Stato non offre assicurazione sociale se non con le pensioni e con la certezza, appunto, del posto fisso per un membro della famiglia. Il tutto richiede una legislazione del lavoro che ingessa il mercato, impedisce l’allocazione ottimale dei lavoratori nelle imprese e mantiene un esercito di giovani precari. È un mondo che attrae trasversalmente molti italiani e che ha una sua coerenza, fondata sull’avversione al rischio, e il rifiuto del cambiamento anche quando tutto cambia intorno a noi. Gli italiani vogliono sicurezza e votano chi promette sicurezza (tipicamente senza evidenziarne i costi).

Sia ben chiaro: la famiglia italiana ha dei benefici enormi di cui dobbiamo andare orgogliosi. Ma se deve sostituire un welfare pubblico che non funziona, le conseguenze non sono tutte desiderabili. Un sistema di welfare basato sulla famiglia riduce la mobilità geografica e sociale e ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese. Per poter godere del welfare familiare, che aiuta anche a trovare un impiego grazie ai contatti dei genitori più che alle reali capacità, i giovani promettenti frequentano università mediocri sotto casa o non si allontanano per trovare un posto di lavoro migliore e più adatto alle loro caratteristiche. La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi anche perché le imprese possono imporre condizioni retributive peggiori non dovendo temere che i lavoratori si spostino altrove se trattati male.

Il vecchio governo ci aveva promesso che questa struttura sociale ci avrebbe fatto superare la crisi meglio di altri Paesi. Non è stato così. Ma il problema vero è che sono gli italiani a volere questa struttura sociale perché non ne hanno ancora compreso i costi. Il differenziale di gravità della crisi italiana, rispetto a quella di altri Paesi, non è colpa della finanza pericolosa che ha colpito tutti i Paesi. Dei costi aggiuntivi siamo responsabili noi. La discussione sul posto fisso e su un sistema di welfare impostato sulla famiglia, quindi, va ben al di là di una riforma del diritto del lavoro. Tocca al cuore la mentalità e l’organizzazione sociale degli italiani. La soluzione più facile è continuare a non affrontare il problema. Oggi, perlomeno, ci si sta provando.

Alberto Alesina

dal Corriere della Sera

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