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Il «confronto» è partito, ma non c’è

Il «confronto» è partito, ma non c’è
Francesco Piccioni

Dell’art. 18 si parlerà «per ultimo». Tutti vogliono amputarlo. Camusso (Cgil) dice: «Non è sul tavolo»
Sorrisi e coltelli dietro la schiena. Con la Cgil nell’antipatica posizione di essere l’unico convitato al tavolo a esprimere – prima di sedersi – un qualche moderato dissenso rispetto al menu del giorno: la «riforma del mercato del lavoro».
Al terzo incontro, nel faccia a faccia mattutino tra governo e tutte le parti sociali (sindacati, Confindustria, Abi, ecc), le formule più estreme sono state messe in secondo piano. Ma non accantonate. «Nessun aut aut del governo – ha spiegato fin dall’inizio il ministro del lavoro, Elsa Fornero – Non è un prendere o lasciare, ma deve essere chiaro che il tema del riordino dei contratti e della flessibilità in entrata è subordinato al tema della flessibilità in uscita». Ovvero: l’art. 18 vogliamo toccarlo, eccome, altrimenti tutto il resto non serve a niente. La sera precedente, Mario Monti, era stato ancora più esplicito: «vogliamo e ci auguriamo un’intesa entro marzo, ma non potremmo fermarci se a quel tavolo non ci fosse l’accordo». Un’edizione più educata della «proposta che non si può rifiutare» del don Vito Corleone di Scorsese.
Ma anche un messaggio esplicito rivolto alla sola Cgil. Il presidente uscente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha battuto sullo stesso tasto. Di più: la sua unica preoccupazione è stata far capire che «la flessibilità in entrata va bene, ma non devono esserci aumenti del costo del lavoro, anzi dobbiamo andare in direzione opposta e il ministro Fornero ha accettato questo punto di vista». In soldoni: le sciocchezze scritte (anche sui giornali vicini a Confindustria) sul «lavoro precario che deve costare di più di quello garantito» non devono avere spazio.
Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, segretari generali di Cisl e Uil, si sono già posizionati in modo da venir incontro facilmente alle ipotesi del governo. «Sappiamo che vuole intervenire sull’articolo 18 – ha spiegato Bonanni – speriamo ci sia ragionevolezza da parte di tutti. E spero saremo all’altezza anche come sindacato per offrire soluzioni, perché se noi ci chiudiamo e diciamo che non ne vogliamo discutere allora ci pensa il governo, come con le pensioni».
Messa così, questione è già risolta: addio tutele contro i licenziamenti. Secondo Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, invece «l’art. 18 per noi non è un tema». Parzialmente sminuito anche lo sciopero generale dei metalmeccanici indetto dalla Fiom per il 9 marzo. Secondo Camusso «è per il contratto nazionale di lavoro, per la democrazia in Fiat, per l’esclusione della Fiom e il mancato reintegro al lavoro a Pomgiliano dei metalmeccanici iscritti alla Fiom». Dimenticando che il Comitato Centrale delle tute blu, all’unanimità, parte invece dal respingere «ogni manomissione all’articolo 18, che rimane elemento centrale per la tutela della dignità e della libertà nel lavoro; unica disponibilità è per una normativa che acceleri la celebrazione dei processi». La manifestazione nazionale a Roma ha senso in questa prospettiva, non solo categoriale.
Comunque sia, l’agenda degli incontri successivi, per «tavoli tematici» (vedi sotto), prevede che il «tema bollente» venga discusso soltanto «per ultimo». Chi ha esperienza di confronti e trattative sindacali sa bene che questo significa conferire al problema un valore da «arma finale». Se le precedenti stazioni avranno prodotto risultati considerabili positivamente da tutte le parti, infatti, ben difficilmente ci si potrà «impuntare» all’ultima curva. Se invece le distanze saranno amplificate già prima, non sarà neppure necessario discuterlo.
Il che significa, banalmente, che il governo procederà – come ai giorni di Sacconi e Berlusconi, pochi mesi fa – «con chi ci sta»; mettendo in atto la riforma che aveva in cantiere al momento di iniziare a «confrontarsi». Diciamolo con sincerità: l’impressione è che le «questioni di merito» siano già ampiamente decise, consegnate in «disposizioni» da parte delle autorità europee (chi può dimenticare la «lettera della Bce» di agosto, a lungo secretata adducendo «motivi di ordine pubblico»?), e recepite in «rassicurazioni» inviate dall’attuale governo verso le stesse fonti. E quindi che il «trofeo» fondamentale – come ammette lo stesso Monti, ma per negarlo – sia proprio l’articolo 18. Che non serve a nulla dal punto di vista della «crescita», ma molto sul piano della «restaurazione» (come disse l’avvocato Agnelli, parlando degli anni ’80) del comando dell’impresa sul lavoro dipendente. Politica antisociale, non economia.

Il «confronto» è partito, ma non c’è

ARTICOLO – Francesco Piccioni

Dell’art. 18 si parlerà «per ultimo». Tutti vogliono amputarlo. Camusso (Cgil) dice: «Non è sul tavolo»
Sorrisi e coltelli dietro la schiena. Con la Cgil nell’antipatica posizione di essere l’unico convitato al tavolo a esprimere – prima di sedersi – un qualche moderato dissenso rispetto al menu del giorno: la «riforma del mercato del lavoro».
Al terzo incontro, nel faccia a faccia mattutino tra governo e tutte le parti sociali (sindacati, Confindustria, Abi, ecc), le formule più estreme sono state messe in secondo piano. Ma non accantonate. «Nessun aut aut del governo – ha spiegato fin dall’inizio il ministro del lavoro, Elsa Fornero – Non è un prendere o lasciare, ma deve essere chiaro che il tema del riordino dei contratti e della flessibilità in entrata è subordinato al tema della flessibilità in uscita». Ovvero: l’art. 18 vogliamo toccarlo, eccome, altrimenti tutto il resto non serve a niente. La sera precedente, Mario Monti, era stato ancora più esplicito: «vogliamo e ci auguriamo un’intesa entro marzo, ma non potremmo fermarci se a quel tavolo non ci fosse l’accordo». Un’edizione più educata della «proposta che non si può rifiutare» del don Vito Corleone di Scorsese.
Ma anche un messaggio esplicito rivolto alla sola Cgil. Il presidente uscente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha battuto sullo stesso tasto. Di più: la sua unica preoccupazione è stata far capire che «la flessibilità in entrata va bene, ma non devono esserci aumenti del costo del lavoro, anzi dobbiamo andare in direzione opposta e il ministro Fornero ha accettato questo punto di vista». In soldoni: le sciocchezze scritte (anche sui giornali vicini a Confindustria) sul «lavoro precario che deve costare di più di quello garantito» non devono avere spazio.
Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, segretari generali di Cisl e Uil, si sono già posizionati in modo da venir incontro facilmente alle ipotesi del governo. «Sappiamo che vuole intervenire sull’articolo 18 – ha spiegato Bonanni – speriamo ci sia ragionevolezza da parte di tutti. E spero saremo all’altezza anche come sindacato per offrire soluzioni, perché se noi ci chiudiamo e diciamo che non ne vogliamo discutere allora ci pensa il governo, come con le pensioni».
Messa così, questione è già risolta: addio tutele contro i licenziamenti. Secondo Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, invece «l’art. 18 per noi non è un tema». Parzialmente sminuito anche lo sciopero generale dei metalmeccanici indetto dalla Fiom per il 9 marzo. Secondo Camusso «è per il contratto nazionale di lavoro, per la democrazia in Fiat, per l’esclusione della Fiom e il mancato reintegro al lavoro a Pomgiliano dei metalmeccanici iscritti alla Fiom». Dimenticando che il Comitato Centrale delle tute blu, all’unanimità, parte invece dal respingere «ogni manomissione all’articolo 18, che rimane elemento centrale per la tutela della dignità e della libertà nel lavoro; unica disponibilità è per una normativa che acceleri la celebrazione dei processi». La manifestazione nazionale a Roma ha senso in questa prospettiva, non solo categoriale.
Comunque sia, l’agenda degli incontri successivi, per «tavoli tematici» (vedi sotto), prevede che il «tema bollente» venga discusso soltanto «per ultimo». Chi ha esperienza di confronti e trattative sindacali sa bene che questo significa conferire al problema un valore da «arma finale». Se le precedenti stazioni avranno prodotto risultati considerabili positivamente da tutte le parti, infatti, ben difficilmente ci si potrà «impuntare» all’ultima curva. Se invece le distanze saranno amplificate già prima, non sarà neppure necessario discuterlo.
Il che significa, banalmente, che il governo procederà – come ai giorni di Sacconi e Berlusconi, pochi mesi fa – «con chi ci sta»; mettendo in atto la riforma che aveva in cantiere al momento di iniziare a «confrontarsi». Diciamolo con sincerità: l’impressione è che le «questioni di merito» siano già ampiamente decise, consegnate in «disposizioni» da parte delle autorità europee (chi può dimenticare la «lettera della Bce» di agosto, a lungo secretata adducendo «motivi di ordine pubblico»?), e recepite in «rassicurazioni» inviate dall’attuale governo verso le stesse fonti. E quindi che il «trofeo» fondamentale – come ammette lo stesso Monti, ma per negarlo – sia proprio l’articolo 18. Che non serve a nulla dal punto di vista della «crescita», ma molto sul piano della «restaurazione» (come disse l’avvocato Agnelli, parlando degli anni ’80) del comando dell’impresa sul lavoro dipendente. Politica antisociale, non economia.
da “il manifesto”
Un’utile scheda che riassume i cinque temi al centro del “confronto”
Cinque tavoli aperti Ma l’art. 18 «subordina»
Francesco Piccioni

Sulle altre quattro partite le distanze non sembrano infinite: ma il governo vuole «uno scalpo»
Il «confronto» tra parti sociali e governo si articola su cinque temi-chiave.
Ammortizzatori sociali
È l’unico punto dove già ieri sono state registrate «convergenze» importanti, fino a configurare quasi un «già convenuto». Il governo aveva intenzione di procedere con una drastica revisione dell’intero sistema (Cassa integrazione, ordinaria, straordinaria, in deroga e mobilità), secondo uno schema semplificato. a) solo «cassa ordinaria» per le «crisi temporanee»; b) «indennità risarcitorie» per chi perde il lavoro. Di fatto si sarebbe trattato di una cancellazione degli ammortizzatori sociali, perché le «crisi temporanee» possono essere coperte solo per 12 mesi, e non per tutte le aziende. Quanto alle «indennità», lo stesso governo ammette di non avere risorse per finanziarle davvero. Dunque, non ci sarebbe rimasto nulla in piedi. Anche Confindustria ha avuto da ridire, chiedendo di lasciare le cose come stanno almeno per i prossimi due anni, che si prevedono di recessione anche più seria dell’attuale. Pare che per almeno 18 mesi (fin dopo le elezioni, dunque) non ci saranno cambiamenti.
Apprendistato
Sulla «flessibilità in ingresso» il governo sembra aver rinunciato al «contratto unico di ingresso», peraltro molto simile nella sostanza. L’apprendistato varrebbe per i giovani fino a 29 anni o per le assunzioni di lavoratori in stato di mobilità. Sarebbe un contratto a «tempo indeterminato» da riconfermare dopo i primi tre anni, entro i quali i neo assunti non godono delle tutele dell’art. 18. Anche le retribuzioni sono molto più contenute (due livelli di inquadramento in meno rispetto al contratto normale). Per le aziende c’è uno sconto contributivo sostanzioso (dal 25 al 5%, o addirittura niente in caso di imprese fino a 9 dipendenti).
Contratti atipici
Oggi esistono oltre 40 forme diverse per essere «assunti» in modo precario. Le stesse imprese vanno in difficoltà nel padroneggiarle tutte (e in genere ne usano soltanto un paio a testa, anche per non complicare il lavoro degli uffici di amministrazione). Secondo la «bozza Boeri» verrebbero quasi tutte sostituite da una sorta di «apprendistato», con altri tre anni senza articolo 18. La «bozza Ichino», invece, prevede la licenziabilità sempre in cambio di un «indennizzo» e un co-finanziamento, da parte dell’impresa e della Regione, di un «percorso di ricollocazione» dagli effetti pratici – per esperienza reale – abbastanza incerti.
Articolo 18
Sulla «flessibilità in uscita», ovviamente, le distanze dichiarate sono molto più ampie. Anzi, e «il» problema di questo confronto. Tutte le modifiche apportate agli istituti precedenti cambiano completamente di segno a seconda che resti o no la normativa com’è ora. Ovvero con la possibilità per il dipendente di ricorrere al magistrato per ottenere – se ha ragione – la «reintegra» sul posto di lavoro. La «robusta manutenzione» accettata da Cisl e Uil, per esempio, ne restringono il campo di applicazione soltanto ai «licenziamenti chiaramente discriminatori», ammettendo invece quelli per «motivi economici». Ma questi ultimi sono già oggi largamente praticati: l’unico limite, infatti, è la dichiarazione di uno «stato di crisi» da parte dell’impresa, che viene poi riconosciuto e certificato (oppure no) dal ministero dello sviluppo produttivo e da quello del lavoro, che deve poi erogare gli ammortizzatori sociali. Per la Cgil, invece, fin qui si può discutere soltanto su come garantire «tempi più rapidi» per lo svolgimento delle cause di lavoro in caso di licenziamento individuale.

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