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I dubbi dell’Europa tedesca

Il dubbio principale è di buon senso, quindi inaccessibile alle menti dei fanatici liberisti: come cavolo si fa a “salvare” un paese se lo riempiamo di prestiti (ossia lo indebitiamo a morte) ma lo costringiamo a deprimere la sua economia?

Per chi ama la metafora del “buon padre di famiglia”, così in voga nei discorsetti ideologici di ministri e giornalisti-zerbini, è come se prestassimo soldi a un capofamiglia imponendogli di lavorare meno, o per uno stipendio ancora più basso. Non ce li potrà mai ridare. Al massimo può venderci casa…

Nell’Europa che conta (Germania e Francia) è però anche ora di elezioni politiche. E quindi questi dubbi diventano materia elettorale. Dopo i socialisti francesi, che con Holande promettono di “rivedere il trattato europeo” co tanto di pareggio di bilancio nelle varie Costituzioni, ora anche il socialdemocratici tedeschi sembrano pronti a correggere la direzione di marcia della locomotiva legiglativa continentale.

Schulz: «Il rigore non basta a rilanciare economia e lavoro»

dal corrispondente Beda Romano

BRUXELLES – Eletto alla presidenza del Parlamento Europeo in gennaio, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, 56 anni, inizia oggi la sua prima visita ufficiale in Italia. In una intervista con Il Sole 24 Ore, commenta a caldo il nuovo programma di aiuto alla Grecia e tratteggia il ruolo dell’assemblea nel futuro dell’integrazione europea.

Dopo 13 ore di trattative l’Eurogruppo ha trovato un’intesa sul salvataggio della Grecia. È finalmente un accordo duraturo?
Penso che alla luce del dibattito lungo, l’analisi sia stata abbastanza approfondita. Presumo che sia stata trovata un’intesa che per ora può essere considerata duratura. A lungo termine, però, prestare denaro non serve a niente se non c’è un rilancio dell’economia del Paese.

Il pacchetto non è del tutto convincente, quindi?
Direi di no. Ridurre le spese o riformare l’amministrazione sono misure necessarie per ridare competitività al Paese, ma bisogna anche attirare nuovi investimenti per creare nuove infrastrutture, sfruttare l’energia solare, creare occupazione.

La partita non è solo economica. È anche molto politica. La Grecia sta subendo una riduzione della sua sovranità. Quanto legittima?
L’Unione è una federazione di Stati sovrani, non un vero e proprio Stato federale. La Grecia, come tutti i Paesi che hanno aderito alla zona euro, partecipa a un sistema di regole che prevede un trasferimento di sovranità monetaria al livello transnazionale. Ciò automaticamente limita la sua sovranità.

Ad Atene, le manifestazioni critiche dell’Europa si moltiplicano. In Belgio un ministro del Governo Di Rupo, Paul Magnette, si è chiesto pubblicamente quale sia la legittimità della Commissione nell’imporre decisioni ai Paesi membri. Il Parlamento europeo può avere un ruolo di cerniera in questo contesto?
Assolutamente sì. La nostra assemblea deve essere un trait d’union tra l’Europa intergovernativa e l’Europa comunitaria. Le do un esempio concreto. Tra poco il Parlamento dovrà negoziare con il Consiglio due regolamenti (il cosiddetto two-pack) che rafforzano ulteriormente la disciplina di bilancio nell’Unione. Possiamo in questo frangente trovare un equilibrio tra l’esigenza dell’Unione e gli interessi degli Stati, tenuto conto del fatto che proprio gli interessi nazionali possono provocare squilibri macroeconomici che bisogna assolutamente compensare a livello europeo.

Un gruppo di 12 Paesi ha pubblicato lunedì una lettera aperta a favore della crescita economica, tra questi anche l’Italia. Cosa ne pensa?
Il Parlamento insiste da due anni nel dire che la disciplina di bilancio non basta per rafforzare l’occupazione e rilanciare l’economia. Dopo la lettera franco-tedesca di gennaio abbiamo ora una nuova lettera di 12 Paesi. Ne prendiamo atto. Alcuni appunti. Prima di tutto le proposte mi paiono poco concrete. In secondo luogo, le due lettere non contribuiscono a risolvere uno dei problemi dell’Europa: la cacofonia.

La Grecia ha a disposizione un nuovo pacchetto di aiuti; la zona euro si è dotata di un nuovo patto di stabilità, il fiscal compact. A quando un rafforzamento del fondo di stabilità Esm che permetterebbe di arginare i rischi di contagio?
Abbiamo bisogno di un Esm rafforzato e ne abbiamo bisogno rapidamente. Deve essere uno strumento per difendere la nostra moneta dalla speculazione, anche per mostrare la nostra unità e la nostra volontà di difenderci insieme. Il fondo deve essere rafforzato velocemente ed essere flessibile

da Il Sole 24 Ore

Tutti subfornitori della Germania

Roberto Romano

Se la macroeconomia e il buon senso contraddicono le politiche europee, se una parte consistente degli economisti insiste su un diverso ruolo della Bce dei bilanci pubblici, perché alcuni leaders europei insistono su linee di politica economica estremiste? Soprattutto, perché la Germania impone a tutti l’equilibrio di bilancio (debito e indebitamento), con delle politiche deflattive senza precedenti, tanto da mettere a rischio l’euro, cioè una svalutazione (implicita) del marco pari al 40% del valore reale?
Forse dobbiamo vedere la realtà da un altro luogo. Se l’obiettivo della Germania e dell’area economica di suo interesse «industriale» puntasse a un nuovo equilibrio internazionale? La prima cosa da mettere a fuoco è la particolare struttura industriale tedesca, che riflette una struttura produttiva (soprattutto manifatturiera) sempre più multinazionale, che compensa gli elevati costi del lavoro con sofisticati fattori d’innovazione tecnologica continua e di organizzazione commerciale. Una struttura che ha beneficiato della svalutazione implicita del marco. Questa ha permesso alla Germania e alla sua area economica di riferimento di consolidare avanzi commerciali, pagati sostanzialmente dagli altri paesi europei.
In qualche misure l’industria tedesca deve affrontare il problema della competitività internazionale, ma si rende conto che le politiche adottate non sono più sufficienti. In particolare, la popolazione tedesca non sarebbe mai disposta a sostenere politiche deflattive come quelle adottate dall’Italia o da altri paesi europei. La stessa industria tedesca le troverebbe insopportabili perché incrinerebbe le buone relazioni sindacali e reddituali delle proprie maestranze. In altre parole, le politiche deflattive colpirebbero la classe media tedesca, il vero cuore della società tedesca. Soprattutto l’industria tedesca non potrebbe mai rinunciare al cuore oligopolistico della propria industria, la quale ha maturato vantaggi in tutti i settori produttivi di scala, assecondati da una ricerca e sviluppo senza pari in Europa, capace anche di anticipare la domanda. Si pensi alla green economy.
L’obbiettivo tedesco è quello di consolidare il proprio cuore oligopolistico, facendo leva su un’area economica integrata di subfornitura che rifornisce la propria industria a prezzi contenuti. In questo modo i prezzi finali dei beni e servizi tedeschi potrebbero compensare l’approfondimento della competizione internazionale, senza «intaccare» la condizione materiale dei propri cittadini. Non solo, l’avanzo commerciale della Germania, a questo punto non solo riferito all’Europa, continuerebbe ad essere pagato dall’Ue, ma con un ruolo inedito della stessa Germania. Il consolidamento del settore dell’automotive tedesco, a discapito di quello di altri paesi europei, fotografa perfettamente il «potere» tedesco. In questo modo si può spiegare il no della Merkel alla proposta di Marchionne di acquistare l’Opel. Perché avrebbe dovuto accettare? In fondo la crisi del settore avrebbe dovuto suggerire un riequilibrio a livello europeo sul modello dell’aerospazio. L’idea era ed è un’altra. La Germania deve essere il cuore oligopolistico industriale europeo, mentre tutte le altre economie possono ambire a diventare soggetto privilegiato della subfornitura.
Quando Mario Monti afferma che l’accordo europeo (Fiscal Compact) è quello che l’Italia voleva portare a casa, oppure la richiesta esplicita del riconoscimento europeo e tedesco in particolare degli sforzi italiani, a cosa si riferiva?
Lo stesso atteggiamento della Francia ed anche della Gran Bretagna sono poco omogenei. La Francia ha maturato un gap industriale con la Germania impressionante: meno 17% nella produzione industriale, sostanzialmente relativo ai beni strumentali. In altre parole la Francia, come l’Italia, non è più un partenr (industriale) tedesco. Può ambire a fere da subfornitura. Diverso è il ruolo finanziario e creditizio. Gran Bretagna e Francia accumulo tensioni, e l’idea della Tobin Tax è forse l’ultima di una lunga serie.
L’impressione delle policy adottate dai grandi della terra, Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina, è quella di una battaglia senza esclusione di colpi. Sostanzialmente gli attori coinvolti agiscono in proprio. Come interpretare la spesa di 140 mld di dollari per rafforzare la struttura pubblica della ricerca, della scuola, delle infrastrutture, di Obama?
La crisi del 2007-2011 meritava un’azione coordinata a livello internazionale. In fondo è peggio di quella del ’29. Se non c’è stato coordinamento, forse dipende dalla distanza dei progetti degli attori economici internazionali coinvolti.
da “il manifesto”

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1 Commento


  • Matteo

    Però non esageriamo con la geopolitica da spy story…la classe lavoratrice tedesca ha subito processi di precarizzazione e deflazione salariale ancora più feroci (viste le posizioni di partenza) di quelli imposti negli ultimi 20 anni (con l’attivo consenso della triplice, FIOM inclusa) agli omologhi italiani. E la FIAT a mettersi fuori gioco ci ha pensato da sola con scelte di politica industriale deliranti (oggigiorno scaricate interamente sugli operai).

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