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Placido Rizzotto. Dagli abissi di Corleone

Pasquale Scimeca

Numeri, nomi, ossa che si sbriciolano nell’umidità dell’abisso, dentro una grotta di Rocca Busambra, nei sotterranei di un tribunale, nelle coscienze macchiate degli uomini, nei ricordi che si affievoliscono, e non per il tempo che passa, ma per una folle malattia dentro la quale stiamo precipitando, anch’essa abisso senza ritorno.
Da quando è morto mio padre vado spesso al cimitero del mio paese. Cammino tra le tombe, guardo le foto di chi ho conosciuto, li saluto come facevo quando li incontravo per strada o in piazza, o al bar, o alla vecchia sezione della Camera del Lavoro, scambio con loro due chiacchiere, cerco i vecchi che conosco solo per nome, o nei racconti di chi li ha conosciuti, e per questo mi sembrano familiari nei tratti incorniciati di foto sbiadite dal tempo e dalle intemperie. Mi sento un po’ matto a parlare coi morti, ma mi fa bene. Mi aiuta a guarire. Arresta per un attimo la folle caduta negli abissi. Odio il romanticismo. Odio la retorica, sia essa borghese o anche proletaria. «Parla come mangi e scrivi come parli» mi dicevano i vecchi quand’ero ragazzo e m’imbevevo di libri.
Iniziamo da capo, per chi non conosce la storia, raccontiamola questa storia, ne vale la pena. Uno dei motivi che mi hanno spinto a fare il film su Placido Rizzotto, è che non aveva una tomba. Sua sorella, quando l’andavo a trovare a Corleone, mi diceva: «Giusto ti pare che non posso andare neanche a portare un fiore sulla sua tomba?». A me non pareva giusto, tante cose non mi parevano giuste, ma questa mi appariva la più ingiusta di tutte.
Placido Rizzotto è stato ammazzato a Corleone nel 1948. È stato ammazzato da quella bestia di Luciano Liggio (che era così falso che persino col nome imbrogliava, si chiamava infatti Leggio) e dalla sua accolita di mafiosi malfattori. Perché è stato ammazzato? Perché si era messo in testa di «raddrizzare le gambe ai cani». Guidava i contadini nelle occupazioni delle terre. Niente di più e niente di meno, che un atto di giustizia, un atto di giustizia non rivoluzionario, ma il rispetto di una legge dello Stato italiano che porta il nome del Ministro Gullo.
Placido aveva trent’anni quando è stato ammazzato. Era un contadino povero che aveva fatto la guerra, e dopo l’armistizio se n’era andato coi Partigiani. I partigiani gli avevano insegnato a essere uomo. Gli avevano insegnato cos’è la dignità, l’onore, la giustizia, gli avevano insegnato a combattere per la libertà. Tornato a Corleone non poteva darsi pace. Era giusto, si chiedeva, che migliaia di contadini pativano la fame, mentre poche famiglie vivevano nell’abbondanza? Era giusto che le terre dovevano essere di pochi nobili (altro che Gattopardi, miserabili e senza dignità erano quella genia di principi e baroni) che le lasciavano incolte o le affidavano ai mafiosi?
Non era giusto, e per questo organizzava i contadini nella Camera del Lavoro e li guidava nell’occupazione delle terre. C’era un feudo a Corleone, lo Strasatto (che bello! Oggi su quelle terre lavorano i ragazzi di Libera e producono vino, pasta, olio) ma sullo Strasatto aveva messo gli occhi Luciano Liggio. Ecco perché è stato ammazzato Placido Rizzotto.
Ma i mafiosi di Corleone non si sono limitati solo ad ammazzarlo, di lui doveva scomparire anche il ricordo. Era un monito, un avvertimento a quelli che erano ancora vivi. Doveva scomparire dalla faccia della terra. L’avevano preso e buttato nella «ciacca» di Rocca Busambra, una grotta che precipita nell’abisso della terra. E insieme al corpo di Placido, in quella grotta hanno buttato anche carcasse di animali, mucche, pecore, asini, affinché si confondesse e non potesse essere più ritrovato.
Ma qualche anno dopo a Corleone era andato un giovane capitano dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, che in quella grotta era andato a cercare i resti di Placido, e li aveva trovati. Ma i giudici dovevano assolvere assassini e mandanti, per questo quei miseri resti non potevano essere di Placido (non c’era ancora l’analisi del Dna). Anche Pio La Torre, il giovane studente universitario malato pure lui di giustizia, era andato a Corleone per continuare a occupare le terre, ma lo Stato, non potendolo uccidere, l’aveva arrestato.
Ora, che finalmente, le ossa di Placido hanno un nome, spero che qualcuno si preoccuperà di dargli anche una tomba, così anch’io potrò andare a lasciargli un fiore e scambiare due chiacchiere.
Certo il processo contro mandanti e assassini materiali non potrà più riaprirsi, sono tutti morti, ma come sarebbe bello che quest’anno (a vent’anni dalle stragi di Falcone e Borsellino e a trent’anni dagli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa) si potesse aprire un processo morale contro quello Stato che all’epoca si schierò con la mafia contro i suoi cittadini.
 
da “il manifesto”

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