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Il Pd tradito da Monti. Guarda caso sul lavoro…

La più esplicita è Rosy Bindi. Il Pd, confessa, «aveva lavorato per un accordo condiviso con tutte le parti sociali e fondato sul modello tedesco», quindi «rivendica» la possibilità di «lavorare in Parlamento per arrivare a quella soluzione». Nei licenziamenti per motivi economici, ad esempio, «è necessario che sia un magistrato a stabilire se ci vuole il reintegro o l’indennizzo».

La traduzione forse non serve, ma è meglio farla.

Il compito che il Pd si era assunto, per facilitare il varo senza conflitto sociale della “riforma” del mercato del lavoro, era classico. “Ci lavoriamo la Cgil” nella persona di Susanna Camusso e la segreteria confederale (che non a caso ha condotto tutta la “trattativa” senza mai aprire bocca sui contenuti, nemmeno all’interno dell’organizzazione, fino all’ultimo momento) e prepariamo fin dall’inizio il “punto di caduta” che può star bene a Monti (che deve sbandierare in giro per il mondo la “caduta” del potere di veto sindacale e la fine della concertazione), alle imprese (che saranno libere di licenziare, ma dovranno farlo con un po’ di tatto e consultandosi prima con un avvocato esperto) e persino alla Camusso (che potrà dire che si tratta in fondo solo di una “manutenzione”, senza grandi danni).

L’uovo di Colombo è il famoso “modello tedesco”. Che sarebbe un sistema di tutele sociali molto articolato e anche dispendioso, ma il cui “articolo 18” risulta alquanto diverso: è il giudice, in qualsiasi caso, a decidere tra reintegro o indennizzo per il licenziato. Ovvio che, “estrapolando” una singola norma da un “sistema”, il risultato che produrrà saraà diverso. Qui in Italia, nelle condizioni attuali, significa semi-libertà di licenziare.

Cosa ha fatto Monti?

Ha detto (al Pd e alla Cgil) che andava bene così e su questo assetto si sarebbe potuto chiudere. Poi, al tavolo ufficiale, ha deciso di fare come era sua intenzione fin dall’inizio: in caso di licenziamento per “motivi economici” ci dovrà essere obbligatoriamente soltanto un indennizzo, non più la reintegra.

E’ noto che i licenziamenti per motivi economici avvengono già oggi, a decine di migliaia. E sono licenziamenti collettivi, per “stato di crisi” accertata da organi governativi e con concessione degli ammortizzatori sociali. Se invece diventa possibile il licenziamento individuale per motivi economici, si entra nel campo dell’arbitrio totale. Qualsiasi imprenditore può buttar fuori chiunque (target privilegiati: lavoratori anziani, “inidonei”, sindacalisti rompicoglioni).

Di fatto, dunque, un’abolizione pratica dell’art. 18, anche se resta “legge”. lo capisce chiunque.

A quel punto rischiava di saltare tutto. A cominciare dalla Cgil (l’ultimo Direttivo nazionale ha sfiorato più volte la rissa) per finire al derelitto Pd. Ma rischiava anche il governo, che dei voti del Pd ha bisogno non tanto sul piano numerico (la destra berlusconiana e il “grande centro” bastano e avanzano), quanto su quello dell’immagine politica: deve restare insomma l’apparenza di un governo “super partes” e non precipitare nel format del “governo di destra, dei padroni e delle banche”. Che effettivamente è.

In secondo luogo, lasciar fuori dei giochi e per sempre un’organizzazione sindacale con quasi 6 milioni di iscritti è un rischio sociale. Perché lì c’è gente esperta nel gestire conflitti, militanti e funzionari, spesso corrotti e complici, ma altrettanto spesso in buona fede e che si fanno seriamente un culo pazzesco. La nostra critica alla Cgil, non a caso, è sempre politica. Sulla linea che tiene, indegna di un “corpo intermedio” di quelle dimensioni, con quella storia, con quella base sociale.

Tener fuori la Cgil è insomma il rischio che esploda “liberando” energie intellettuali, fisiche, capacità organizzative che invece “devono” restare inoffensive dentro un “grande sindacato” preoccupato soltanto di tornare alla prassi consociativa e che non si sa dar pace del cambiamento d’epoca.

Abbiamo perciò visto scendere in campo “pontieri” ufficiali e di grande peso. Come il Vaticano, tramite mons. Bregantini, e la Cisl, con Raffaele Bonanni impegnato a “riscrivere” l’art. 18 per renderlo simile al “modello tedesco” gradito al Pd. Ma a quanto pare “all’insaputa del premier”, che è rimasto “fermo” all'”ormai è fatta”.

 

Fornero intrattiene, Monti chiude

Francesco Piccioni

Non è un paese per vecchi. Ma i giovani non hanno speranza. A scorrere le righe dei documenti «attribuiti» al governo, in materia di «riforma del mercato del lavoro», non si vede proprio quale fascia sociale – tra i lavoratori dipendenti – possa minimamente gioire. Come ti giri, è un disastro.
Verso le 20 di ieri sera si è concluso l’ultimo degli incontri sulla «riforma del mercato del lavoro». Ancora una volta bocche cucite, nell’immediato, e un ministro – Elsa Fornero – che promette «domani avrete tutti i testi». Passano pochi minuti, e subito c’è la correzione: «il Consiglio dei ministri non varerà la riforma del lavoro, per la quale bisognerà attendere un successiva riunione del governo». Anche per il «veicolo» legislativo, si attendono lumi dal presidente del consiglio, che però sta per partire per il suo tour in Asia, da cui presume di poter tornare con qualche «investitore» credibile. Si era parlato di un disegno di «legge delega», che rinvia di fatto di alcuni mesi l’approvazione parlamentare della «riforma».
Nella conferenza stampa del ministro – letale – la solita lezioncina senza slide e qualche grafico, ma con tante rassicurazioni sugli effetti benefici di quel che si sta progettando. In ogni caso, giura il ministro, «l’articolato da portare il prima possibile in Parlamento» potrà essere adottato anche in assenza del presidente del Consiglio.
Ma su quali basi? Il resto della «riforma» – di importanza decisiva, a partire dalla radicale riduzione degli ammortizzatori sociali – ha poco spazio sui media. Tutto dipende dal valore simbolico dell’art. 18, su cui Raffaele Bonanni – segretario generale della Cisl – ha operato una delle sue normali svolte a 180 gradi: «stiamo cambiando la norma sui licenziamenti economici». Si è insomma iscritto nottetempo alla mail list dei fan del «modello tedesco» – che affida al giudice il potere di scegliere tra reintegra e indennizzo n caso di licenziamento – venendo incontro alle difficoltà mostruose del Pd (di cui la Cisl è interlocutore importante, sull’ala Veltroni-Letta) e, soprattutto, della Cgil camussiana.
Del resto, nella giornata di ieri, anche il Vaticano ha messo in campo i suoi pezzi grossi. «Ci voleva un pò più di tempo per mettere in atto una riforma così importante», spiegava mons. Giancarlo Bregantini, capo-commissione Cei per il lavoro. Perché c’è il pericolo di «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. Fino al molto politico, e quasi definitivo, «lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore».
Il «soccorso bianco» sembrava così studiato per far uscire il segretario generale di Corso Italia dal fortino di uno sciopero generale proclamato, ma non voluto.
C’è però un punto fermo: Mario Monti, sull’abolizione dell’art. 18, ha deciso di metterci la faccia. Per lui, «non ci sarà alcuna possibilità di reintegro dopo un licenziamento per ‘motivi economici’, ma solo un indennizzo». Delle tre «causali» che al momento ancora escludono il licenziamento – motivi discriminatori, disciplinari ed economici – nessuna era utilizzabile dalle aziendecondannate a sconfitta pressoché certa davanti al giudice. «Privilegiare» una delle tre, e sottrarla al potere della magistratura, significa aprire un buco nella diga.
Sul resto, si diceva, pochissime novità, tutte nella logica dello «stringere i bulloni» a una serie di contratti «atipici» su cui fin qui le aziende hanno potuto contare come un porto franco. Più «difficili» i contratti a progetto, ma nemmeno tanto; e quelli a termine («penalizzati» da un contributo obbligatorio dell’1,4% che andrà a finanziare l’Aspi, il nuovo sussidio di disoccupazione, che a regime – nel 2017 – sostituirà integralmente diverse forme di cassa integrazione e la mobilità.
Cisl a parte, colpisce il silenzio della Cgil. A 24 ore dalla proclamazione di uno sciopero generale di otto ore – anche se con data ignota – e altre otto di assemblee informative, ci si aspettava un segno vitale forte. Le divisioni nel Direttivo nazionale, forse, non sono passate subito nel dimenticatoio. Dilatando i dubbi su una strategia «dialogante» che, fin qui, non ha prodotto risultati.

 

da “il manifesto”

Articolo 18, il pressing di Napolitano. Bersani: “Monti non dica al Pd ‘prendere o lasciare’”

Nel Pd, la cellula del Professore è guidata da Enrico Letta, interlocutore prediletto del capo dello Stato dall’inizio dell’esecutivo tecnico. I riformisti da sinistra a destra preparano la Grande Coalizione per le politiche 2013

Alle radici del problema. Montecitorio, ieri pomeriggio. In aula c’è il voto finale per il decreto sulle liberalizzazioni. Tra il Transatlantico e il cortile i deputati del Pd sfogano rabbia e amarezza. L’imputato numero uno è il capo dello Stato. Nelle conversazioni tra democratici non filomontiani prevale lo sconcerto per il pressing del Colle sull’articolo 18, il grimaldello ideologico usato per far saltare il Pd. Per un decennio il nocciolo duro dei riformisti di sinistra (a turno sia D’Alema sia Veltroni) ha battuto invano questa strada per liberarsi da massimalisti e Cgil. Poi, finalmente, l’avvento del governo di Mario Monti sotto l’ombrello del Quirinale ha dato un contenitore a queste spinte della sinistra che fa la destra. Di qui la nascita del partito montiano, embrione di quello che potrà essere l’inciucione permanente o la Grande Coalizione dopo le politiche del 2013. Nel Pd, la ‘cellula’ del Professore è guidata da Enrico Letta, nipote d’arte (suo zio è Gianni) e, non a caso, interlocutore prediletto del capo dello Stato dall’inizio dell’era sobria dei tecnici.

Fu proprio Letta, nel novembre scorso, a sentenziare: “Il governo Monti è l’atto fondativo del Pd”. E aggiunge l’amico Pier Ferdinando Casini, altro entusiasta del nuovo premier: “Dopo Monti nulla sarà come prima”. Da subito la linea di confine per far esplodere le contraddizioni del Pd è stato l’articolo 18. Un’offensiva portata avanti da Monti, dalla Fornero e dallo stesso Napolitano, cui si sono accodati i montiani del Pd. Oltre Letta (e il suo fedelissimo Francesco Boccia), i veltroniani, gli ex dc di Beppe Fioroni, l’ex ministro Paolo Gentiloni. Da un altro capannello democrat di Montecitorio, sempre ieri pomeriggio: “Se si va allo scontro e si vota in aula, tre quarti del partito dirà no al governo, i montiani sono in minoranza”. Il sospetto della “premeditazione” sta agitando da ore il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che a tutti ripete: “I patti non erano questi”. In pratica, per tenere tutti insieme, promettendo anche il sì della Cgil di Susanna Camusso, nell’ultimo vertice di maggioranza a Palazzo Chigi (quello della foto coi tre leader seduti: Alfano, Casini, Bersani) il Pd aveva fatto un accordo sulla manutenzione “tedesca” dell’articolo 18. Invece, è arrivata la sorpresa su cui il Pdl di Alfano ha attaccato con violenza l’alleato Bersani: “Se vogliono la riforma Camusso-Fiom devono vincere le elezioni. Noi andiamo avanti anche con il veto della Cgil. Napolitano è l’uomo delle riforme”.

In senso opposto, l’avvertimento di Nichi Vendola di Sel a Bersani, per non strappare del tutto la foto di Vasto (il centrosinistra Pd-Idv-Sel): “Sull’articolo 18 si gioca la natura della coalizione”. Anche per questo, almeno per rinviare il big bang del Pd, Bersani sta giocando il tutto per tutto con la richiesta di una legge delega per correggere in senso tedesco la riforma dell’articolo 18, tornando quindi all’accordo di Palazzo Chigi. L’ultimo tentativo ha per il momento frenato il partito montiano del Pd, da Letta a Veltroni. Quest’ultimo, ieri al Tg 3, si è espresso nella direzione bersaniana: “No al decreto, è necessaria una correzione. Monti non può dire al Pd ‘prendere o lasciare’”. E il voto del Pd sarà unitario”. Insomma, per il momento, sembra scongiurato il pericolo di una spaccatura visibile in Parlamento o addirittura di una scissione, mettendo a rischio la tenuta del governo visto che anche Lega (Bossi: “L’articolo 18 non si tocca”) e Italia dei Valori sono contrari. E Bersani in serata ha detto: “Il Parlamento può fare delle correzioni ma non è il caso di staccare la spina”.

Accanto all’articolo 18, c’è un altro banco di prova decisivo per la convivenza difficile se non impossibile nel Pd tra montiani e neosocialdemocratici o laburisti (magari favorevoli a un ingresso di Vendola o una fusione con Sel): la legge elettorale. Il retropensiero di lettiani e veltroniani, in particolare dei primi, è che Bersani si batta per il mantenimento del Porcellum (da correggere con le primarie per i “nominati), l’unica garanzia che avrebbe per correre da candidato-premier a nome della foto di Vasto. Al contrario, i montiani puntano sul sistema tedesco (mani libere prima delle elezioni e coalizione da stabilire dopo) per capire quale contenitore allestire con i riformisti degli altri poli. La chiamano già “Nuova Cosa”, propedeutica alla Grande Coalizione. I contatti con gli altri montiani sono quotidiani: con Casini, ovviamente, e poi con la pattuglia riformista del Pdl: Lupi, Frattini, Fitto, Scajola. Ma il vero azionista, da destra, del partito montiano potrebbe essere proprio lui, il Cavaliere. Consigliato come al solito da Gianni Letta. Tutto torna.

 

da Il fatto quotidiano

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