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Quello che ci fa vedere l’Alenia

che evidenziano sempre una crisi (nei rapporti tra lavoratori e sindacato, tra cittadini e politica, tra democrazia e centralizzazione delle decisioni).

Vedere Cisl, Ugl, Fismic (le ultime due nemmeno rappresentate dentro la fabbrica di Caselle!) protestare fuori dai cancelli, contemporaneamente ma separatamente dai Cobas, è un’immagine di per sé rivelatrice. Le critiche congiunte di Fornero, Camusso e Angeletti sono state più forti questa volta che non per la riforma delle pensioni o l’art. 18. Segno che questo “confronto diretto” (che non si verificava dai tempi di Gianni De Michelis, nel 1981) tra governo e lavoratori rompe un “campo esclusivo” – quello della rappresentanza fittizia, ormai una “sinecura” su cui pascolano burocrazie sindacali che si ritengono insindacabili) – preannunciando un futuro senza alcune figure ritenute inamovibili. Che il sindacalista con il cappio al collo fosse un funzionario della Cisl, ci sembra in un certo senso rivelatore: persino lui ha – abituato a “contrattare” gli esuberi altrui – ha intravisto la propria disoccupazione. I sindacati che avevano accettato di fare i “complici” del padrone vengono dichiarati “inutili” dal padrone; e all’Alenia il padrone è lo Stato. Non ci poteva essere messaggio più chiaro.

E’ qui che bisogna indagare come ragiona questo governo, quali architetture istituzionali è venuto a istituire, quale regno del capitale immagina. Altrimenti non si prendono le misure alla realtà e ci si ritrova spiazzati sul proprio terreno, quello dei rapporti tra capitale, politica e soggetto sociale.

L’intento è l’eliminazione della rappresentanza, di quella vera come di quella fittizia; e l’organizzazione della produzione come “comunità organica”, senza conflitto tra interessi diversi, “siamo tutti nella stessa barca”. Il risultato dei brogli elettoriali per la nomina delle Rsa alla Fiat è chiarissimo: vengono nominati come “delegati” i capireparto, i funzionari. Vengono sbattuti fuori anche Fim Cisl, Uilm e Fismic. L’impresa può fare da sé perché il suo interesse è l’unico che abbia legittimità e centralità. Se cadono i diritti, cade anche la finzione democratica, quindi i corpi intermedi ammessi e legalizzati.

Rimangono in campo solo gli interessi, Ma quelli del lavoro, nello schema Marchionne-Monti-Fornero, non esistono, non hanno autonomia, non configurano un altro modo di essere, pensare, produrre. Quindi dovrebbero poter essere rappresentati direttamente nella struìttura aziendale.

Qui si pone il problema della “rappresentanza”: organizzazione diretta degli interessi di classe. Quelli concreti, non scritti nei libri.

 

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Il rischio e il conflitto

Francesco Piccioni

La Fiom ha vinto una scommessa rischiosa, il ministro Fornero anche. Mettere il ministro meno amato del governo davanti a 1.000 tute blu poteva sembrare un azzardo. È vero che l’Aermacchi Alenia di Caselle è una fabbrica sui generis; più ingegneri e tecnici che operai, produzione militare e civile d’alto livello, segretezza e controllo capillare. Qui c’è una maggioranza Fiom ben sopra il 50%, le crisi sono sempre state gestite offrendo il massimo delle garanzie (fino al caso «esodati», almeno), a prova di disperazione; l’anima più piazzaiola della categoria non abita certo qui. Ma non era un’assemblea «sovietica» e qualche intemperanza, specie tra i più giovani, ci poteva anche stare.
Invece è andata bene e le tute blu di Landini hanno incassato una riconoscimento politico oggettivamente forte, proprio mentre tutta la stampa era impegnata a dipingerle come estremiste, movimentiste, indisciplinate (rispetto alla Cgil), «a rischio violenza», ecc. Mentre Cisl e Uil ancora spingono per accordi separati e per escluderle dalle fabbriche, come ordinato da Sergio Marchionne. Il nervosismo stizzito di Raffaele Bonanni, Luigi e Angeletti e persino di Susanna Camusso sta lì ad indicare che lo spiazzamento è stato forte.
È il punto su cui anche il ministro Fornero ha ottenuto un accenno di quel che il governo, dalla sua nascita, cerca: evidenziare la debolezza della rappresentanza sindacale confederale, limitarne il ruolo «politico». In una parola, bypassare il «corpo intermedio» – la rappresentanza «storica» – per tentare il rapporto diretto con «i cittadini». In questo caso i lavoratori. Fa parte integrante di una strategia «antipolitica» dei poteri fortissimi che cerca di stabilire un contatto con l’antipolitica dei ceti bassi, che non si sentono più rappresentati.
Il paradosso sta nel fatto che, per cercare di raggiungere l’obiettivo, Fornero sia dovuta passare per la più forte rappresentanza diretta del lavoro oggi esistente: la Fiom. Rilanciando involontariamente l’importanza irrinunciabile di una rappresentanza sociale capace di interpretare interessi vivi, a scapito del «mestiere del rappresentante». L’ha spiegato bene, per un capriccio della logica, un esponente della Cisl che protestava fuori: «Il ministro pretende di venire a spiegare ai lavoratori le riforme al nostro posto». C’è insomma un altro «mestiere a rischio».
La compostezza della platea di Caselle ha mostrato che c’è invece ancora un soggetto sociale – il lavoro dipendente – capace di capire esattamente in quale quadro si sta battendo, e quindi di tenere insieme l’irriducibile difesa del proprio interesse con l’accortezza sulle forme del conflitto. Perché il conflitto è così emerso più chiaramente nel merito che non attraverso una a suo modo classica – e persino meritata – «piazzata» a beneficio delle telecamere.
Questo soggetto ha una rappresentanza vera. Solo per questo riesce in qualche modo a controbattere, a confliggere con interessi opposti. Violentissimi. Qui c’è ancora il fondamento di una democrazia reale.

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Fornero all’Alenia non convince nessuno

Francesco Piccioni

INVIATO A TORINO
Civilissimamente incazzati. Così i lavoratori dell’Alenia hanno accolto il ministro del Welfare Elsa Fornero, la mente fina della riforma delle pensioni che soltanto qui a Caselle ha creato 300 «esodati» sui 1.500 di un’azienda a controllo statale che conta in tutta Italia 11 mila dipendenti. È stato un confronto teso, sul merito, in ogni istante delle due ore passate nell’hangar i cui hanno trovato posto un migliaio di ingegneri, tecnici, operai (150 arrivati in pullman dalla sede di Corso Marche) che lavorano in questo gioiellino hi tech; anzi, decisamente militare. Due ore con una ventina di interventi totalmente spontanei, a parte ovviamente un paio di puntualizzazioni dei padroni di casa, la Fiom. Due senza nemmeno un fischio, molti mugugni registrati dai sismografi, diverse interruzioni sui passaggi più controversi, battimani a mille decibel per le prese di parola dalla platea.
Alla fine l’applauso di cortesia, decisamente tiepido e abbastanza «piemontese» (se vi sovviene il proverbio), ma anche il riconoscimento alla tempra di un avversario duro che non è venuto a cercare consensi – il ministro, in rappresentanza del governo che sta cancellando 60 anni di conquiste – ma che ha ribadito punto per punto tutte le scelte fatte. Nessuno è rimasto convinto delle ragioni dell’altro, ma la «civile incazzatura» non ha mai travalicato i confini della cortesia dovuta a chi era stato invitato e ha avuto il coraggio di «venire a sentirsele dire».
La successione degli interventi è stata canonica. Venti minuti al ministro torinese, cinque a testa per Giorgio Airaudo, torinese, segretario nazionale della Fiom, altri cinque per il rappresentante della Uilm (l’unica sigla che ha avuto il fiuto di accodarsi all’iniziativa, invece di maledirla da lontano). Poi microfoni aperti per chi voleva parlare, prima del quarto d’ora concesso per la replica del ministro. E qui la sorpresa, per chi non conosce i metalmeccanici. Chiunque ha preso la parola ha mostrato una competenza sindacale e giuridica di grande spessore, contestando punto per punto tutto quel che Fornero aveva sciorinato nel suo solito stile professorale.
Quattro gli argomenti principali delle contestazioni. Gli «esodati», appunto, con 750 aggiunti a fine anno grazie a un accordo siglato dal ministro Passera mentre il collega Fornero segava le radici legislative dell’accordo, allungando l’età pensionabile. L’articolo 18, naturalmente. Con Pierpaolo Calcagno, delegato Fiom, a portare l’esempio di un’operaia bresciana del settore alimentare, licenziata 10 anni fa «per motivi economici» perché scartava troppi fegatini di pollo andati a male, salvando la salute dei consumatori ma «innervosendo» l’azienda. Con la «riforma» presentata dal governo non sarebbe stata mai riassunta, come invece è avvenuto dopo due anni di processi, indagini Asl e mobilitazioni.
Ma visto che Fornero aveva parlato soprattutto del «debito pubblico elevato», del «paese malato grave», ecc, per giustificare l’assoluta necessità di «riforme» a senso unico, proprio su questo punto – altra sorpresa – hanno insistito quasi tutti. Le risposte finali del ministro, ferme ma inevitabilmente vacue, hanno fatto capire a ognuno dei presenti che «fanno il culo a noi perché pensano che sia più facile che con altri». La disegualianza tirata all’estremo, insomma, invece della melassa dell’«equità» con cui – anche qui a Caselle – il governo ama condire ogni rasoiata ai diritti e ai redditi di chi lavora.
La soddisfazione della Fiom, alla fine è grande. «I lavoratori hanno dimostrato di poter discutere alla pari con il governo», dice Airaudo. «Non ci ha convinto», spiegano altri delegati all’uscita, «e anche lei sapeva di non poterci convincere». «In un clima di scontro e di straumentalizzazioni, è bene creare occasioni di reciproco ascolto. E anche ai ministri, ogni tanto può far bene un tuffo nella realtà», perché «gente che guadagna magari milioni di euro l’anno (il riferimento è soprattutto a Mario Monti, ndr) forse nemmeno capisce bene i problemi di chi tira avanti con 1.300 euro al mese».
Lucidi nel confronto, determinati negli obiettivi, questi metalmeccanici non si fanno abbindolare dalle frasi; nè in televisione, né dal vivo. Sanno leggere i testi e tradurre ogni norma in «condizioni di lavoro», livelli di salario, prospettive di vita. «Sappiamo come funziona l’articolo 18; non ci basta davvero che sia conservata la parola “reintegro”, se la possibilità di averlo diventa un caso “estremo e improbabile”, come dice Monti».
Questo confronto, dunque, non ha cambiato lo scenario. «Sappiamo di non averla convinta, ma questa è una sola delle tante iniziative che abbiamo deciso di prendere per far cambiare idea al governo. Queste norme – sull’articolo 18, sugli ammortizzatori sociali, sugli “esodati”, sulla precarietà – vanno radicalmente cambiate. Il lavoro deve farsi sentire con forza e argomenti seri, come abbiamo fatto oggi. C’è bisogno di arrivare a un vero sciopero generale».

 
da “il manifesto”

 

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